Nel dibattito antropologico e sociologico contemporaneo, il termine g. ha sostituito il termine sesso per indicare la tipizzazione sociale, culturale e psicologica delle differenze tra maschi e femmine.
Il concetto di g. stato introdotto negli anni 1960 dai medici statunitensi R. Stoller e J. Money del Johns Hopkins Hospital di Baltimora per distinguere l’orientamento psicosessuale (gender) di una persona dal suo sesso anatomico (sex). Chiamati a determinare chirurgicamente il sesso di neonati o di adulti anatomicamente ermafroditi, essi tendevano a farlo in conformità con le aspettative dei genitori, oppure con i ruoli sociali che i pazienti erano abituati a svolgere, nella convinzione che il g. non è dato dal sesso di una persona, ma varia in modo indipendente dal dato biologico. Tuttavia, il concetto di ‘dato biologico’ non è privo di ambiguità. La tendenza a voler distinguere un g. culturalmente costruito e un sesso biologicamente dato porta a trascurare la complessità degli esseri umani e il ruolo dei fattori culturali nella costruzione del maschile e del femminile. Il concetto di g. ha dato così luogo, nel corso degli ultimi decenni del 20° sec., a un dibattito alquanto vivace, scaturito soprattutto dalla produzione teorica del movimento delle donne a partire dagli anni 1970 e da quella delle accademiche femministe coinvolte in progetti di Women’s studies. Tale dibattito si è sviluppato nel quadro più generale della questione riguardante, da un lato, il contributo della biologia, e, dall’altro, quello dei condizionamenti ambientali e culturali alla determinazione del comportamento e dei ruoli degli esseri umani.
Con relazioni di g. si intende il modo in cui si rappresentano simbolicamente e normativamente i rapporti fra il maschile e il femminile. Spesso tali rapporti sono collegati ad altri sistemi di classificazione ed è dunque possibile, per es., studiare le relazioni di g. analizzando il nesso tra questi sistemi simbolici e i rapporti di potere: l’accesso di uomini e donne ai mezzi di produzione, alla gestione del prodotto sociale e all’uso dello spazio pubblico. Si aprono così questioni di una certa rilevanza, come, per es., quella di accertare se la nozione di uguaglianza, centrale nella concettualizzazione delle relazioni di g. in Occidente, sia presente altrove e il problema di come avvengano la costruzione dell’identità di g. e l’autoidentificazione del soggetto.
Le scienze sociali studiano il modo in cui le istituzioni contribuiscono alla formazione dell’identità di g., mentre l’antropologia ha mostrato come, anche in società diverse da quella europea, i riti di passaggio e di iniziazione mirino a ‘costruire’ i corpi maschili e femminili in relazione ai ruoli sociali che sono destinati a svolgere. Sul piano storico-culturale gli studi ispirati dal movimento femminista hanno sottolineato il legame fra lo stereotipo femminile presente nella cultura occidentale e la tradizionale contrapposizione fra natura e cultura, corpo e mente, emozione e ragione, infanzia e maturità, criticando la corrispondente identificazione del femminile con la sfera della natura, del corpo, dell’emotività, dell’infanzia.
In campo epistemologico, le ricerche di filosofe francesi e italiane come L. Irigaray, G. Fraisse, A. Cavarero, L. Muraro hanno attribuito alla differenza di g. un ruolo rilevante nella stessa formazione della conoscenza scientifica: questa non sarebbe neutra, ma risulterebbe condizionata, per quanto riguarda sia le categorie concettuali sia le procedure metodologiche, dall’identità di g. del ricercatore.
Le riflessioni bioetiche sollecitate dai gender studies sono molteplici e complesse. Al centro di questo campo di studi vi è il tema dell’appartenenza sessuale nel suo processo di costruzione sociale e nelle conseguenze che essa ha sull’agire, relazionarsi e interagire degli individui all’interno della società. In tale studio si sono delineate due prospettive di analisi principali: quella essenzialista, che muove a partire da una concezione biologicamente radicata di tali differenze, considerate come naturali e immutabili; e quella costruttivista, che si fonda invece su una concezione perlopiù sociale e culturale delle differenze, portando in particolare l’attenzione sui processi attraverso i quali gli individui vengono socializzati alla propria identità di genere. Tali studi hanno ricadute significative sul pensiero antropologico contemporaneo e, in particolare, sul concetto di identità sessuata. La contrapposizione tra sesso e genere, infatti, segna il passaggio da una visione unitaria dell’identità sessuale dell’individuo – che, a partire dalla consapevolezza di una corporeità maschile o femminile, sviluppa gradualmente un’identità psichica definita (mascolinità o femminilità) – a una visione dualistica della sessualità, non solo distinguendo, bensì separando gli elementi biologici dell’identità sessuale (sesso) dal complesso di ruoli, funzioni e identità appresi e culturalmente strutturati (femminilità e mascolinità). Emerge così una concezione autonoma dell’appartenenza di g., pensata come il risultato di una scelta culturale dell’individuo, distinta dalla propria corporeità.
La cultura del g. conduce all’idea che la differenza maschile-femminile non coincide necessariamente con la differenza maschio-femmina, poiché le caratteristiche di g. (o stereotipi) sarebbero frutto di una costruzione culturale. Elaborati per contestare le teorie che considerano naturali le ineguaglianze tra i sessi e le diversità sociali tra uomo e donna, i gender studies prendono le mosse dall’idea che si possa costruire l’uguaglianza senza tenere conto delle differenze. La prospettiva del g. mette così in discussione il fondamento biologico-naturale della differenza fra i sessi: femminilità, mascolinità, eterosessualità e maternità non vengono più considerati stati naturali, ma stati ‘culturali’, non definitivi e in alcun modo determinanti. In altre parole, l’uso del termine gender in luogo del termine sex dischiude la possibilità di non definire più la persona a partire dalla sua struttura biologica (corpo), potendosi viceversa definire in base alla sua ‘autocomprensione’ psico-sociale.
Le conseguenze più marcate di questo approccio sono emerse nell’ambito delle Conferenze mondiali sulla donna, a partire dal 1995, con l’affermazione politica del pensiero multi-gender, di tipo costruttivista, sollecitato dal libertarismo e dal soggettivismo, che si fa portatore della libertà di scelta dell’orientamento sessuale in base a preferenze, pulsioni e desideri soggettivi. Ne deriva che con l’identificazione esclusiva della persona come g., piuttosto che come essere sessuato a partire da una corporeità, si giunge alla neutralizzazione dell’identità sessuata. Il gender, infatti, si presta a essere inteso come concetto neutro, né femminile né maschile: può, infatti, essere uomo, donna, ma anche gay, lesbica o transessuale, a seconda delle preferenze soggettive.
Più recentemente, gli studi di genere hanno messo in discussione i tradizionali modelli di costruzione sociale delle differenze, analizzando criticamente i loro effetti sui comportamenti e le interazioni tra individui, e raccordandosi a un più ampio ripensamento dei temi legati all’identità, al soggetto, alla sessualità, alla corporeità, che si coniugano con una pluralità di possibilità di espressione e trasformazione, in rapporto critico e innovativo rispetto alle categorie che hanno storicamente assunto forza normativa. Il genere viene dunque interpretato come sistema dinamico che consente di pensare la variabilità, problematizzando il concetto di identità e di soggetto alla luce delle potenzialità espressive e trasformative che permettono metamorfosi e passaggi di identità, destabilizzando ogni categoria identitaria. Dalla non coincidenza fra identità di genere e identità sessuale si generano una varietà di congiunzioni e distacchi nei quali il corpo, quale unità psicofisica, si esprime mediante mutazioni e trasformazioni: manipolabile e trasformabile anche mediante tecniche mediche e chirurgiche, esso cambia di significato, di aspetto, di relazionalità, in una teoria fluida in cui emergono nuove identità, variamente identificate con gli acronimi LGBTQ, LGBTQI, LGBTQIA, LGBTQIA+, LGBTQQIA+ per designare il complesso eterogeneo delle minoranze sessuali, che stimolano a un radicale ripensamento del concetto stesso di genere.
I g. artistici possono essere considerati categorie di opere connotate da uniformità tematica: dalla pittura di storia, stimato il g. più nobile dell’arte, a g. minori quali il ritratto, il paesaggio, la natura morta, i dipinti di animali, di battaglie ecc. Questa distinzione di g. inizia in maniera non ancora sistematica a partire dal 16° sec., quando ragioni di gusto, committenza, economiche, sociali aprono la via al diffondersi di opere, spesso di piccolo formato, differenziate secondo tali categorie di soggetti, che soltanto dal 19° sec. saranno liberati dalla qualifica di g. minori. Più in particolare, per pittura di g. s’intende la raffigurazione di scene di vita quotidiana e popolare (bambocciate, conversation piece ecc.).
Una delle categorie impiegate dalla classificazione dei viventi.
Il termine g. (gr. γένος) fu usato da Platone, come il termine εἵδος, per designare l’‘idea’: il primo, infatti, riflette l’aspetto per cui essa è la ‘stirpe’, la ‘famiglia’ (per es., il gatto rispetto ai singoli gatti), il secondo riflette l’aspetto per cui essa è la ‘figura’, la ‘forma’, il ‘tipo’. Più tardi, il termine εἵδος venne sempre più presentandosi come implicante un’estensione minore a paragone del γένος. E di qui, allora, la superiorità estensiva del g. a paragone della specie (cioè dei due termini latini, genus e species, che letteralmente traducevano i due corrispondenti greci), poi consacrata dalle classificazioni naturalistiche.
Il problema della definizione e delle mutue relazioni dei g. letterari è uno dei più discussi, dall’antichità classica in poi. La nozione, che in epoche di forte codificazione letteraria (per es., nei vari classicismi) ha svolto una funzione prescrittiva e normativa, si costituì grazie al riconoscimento di determinati modelli, ritenuti eccellenti, da cui furono estratte regole il più possibile precise (di stile, di forme, di temi), che furono utilizzate per la classificazione delle opere conservate dalla tradizione. Prima di Aristotele, in Grecia, l’esistenza dei g. è constatata a partire dall’osservazione della produzione letteraria antecedente, come nel caso di Platone, che aveva distinto, nell’ambito di una tradizione già consolidata, un g. serio (epica e tragedia) e un g. faceto (commedia e giambica), proponendo poi, nella Repubblica, una diversa partizione, e cioè un g. mimetico o drammatico (tragedia e commedia), un g. espositivo o narrativo (nomo, ditirambo ecc.) e un g. misto (l’epica, che unisce il g. drammatico ed espositivo).
La classificazione platonica passò ai grammatici e ai trattatisti dei secoli successivi grazie alla mediazione della Poetica di Aristotele, dove ha un ruolo centrale il concetto di mimesi (➔), che fissa alcuni aspetti essenziali del procedimento poetico. Le sue riflessioni, rivolte soprattutto alla tragedia (della Poetica non è pervenuta la seconda parte, sulla commedia), tendono a fissarne le caratteristiche fondamentali (la forma metrica, le qualità dei personaggi, gli elementi formali ecc.), a coglierne analiticamente le regole di svolgimento (la durata degli avvenimenti, l’unità o la pluralità dell’azione ecc.) e a farne in qualche modo il modello della poesia, così che non poche osservazioni sulla tragedia risultano applicabili anche all’epica.
La prospettiva aristotelica è prevalentemente storica e critica, e vuole fissare alcuni principi filosofici generali, applicabili alle forme e allo sviluppo storico della tragedia, ma non mira a una rigida definizione dei g., né tanto meno vuole avere valore normativo. I grammatici e i filologi alessandrini guardarono invece a una precisa sistemazione dei g., con intenti classificatori e finalità prescrittive; la teoria dei g. si trasformò così in un canone, con pretese di completezza, e ciascun g. e sottogenere fu classificato rigidamente, in relazione con i diversi stili (umile, medio e sublime), cui si fanno corrispondere appunto i diversi g. (rispettivamente, il dramma satiresco, la commedia e la tragedia). Le dottrine del periodo alessandrino entrarono nei manuali e nell’insegnamento delle scuole, passando poi dal mondo ellenistico a quello romano (Istituzioni di Quintiliano), fino a trasmettersi nei trattati dell’età imperiale e bizantina, talora con un’ancor più precisa accentuazione dell’elemento prescrittivo, come nel caso dell’Arte poetica di Orazio.
Ma la riflessione sui g. è caratterizzata anche da periodi in cui il rapporto tra l’attività letteraria e il rispetto del canone e dei principi si fa più o meno intenzionalmente conflittuale, o ribelle in modo esplicito. Il Medioevo, malgrado i residui di retorica tardolatina passati nelle artes dictandi (utilizzate soltanto, del resto, per l’epistolografia e l’eloquenza), travolse i g. classici e ne creò di nuovi: il romanzo, la novella, la chanson de geste, il poema cavalleresco, un nuovo teatro, sacro e profano, autonomo da quello latino.
Se il Rinascimento tornò alle regole classiche, senz’altro meno esplicito rispetto al Medioevo, ma comunque attivo e operante fu il contrasto che cominciò a profilarsi già alla fine del 16° sec. nei confronti della precettistica letteraria, per es. con T. Tasso, il quale avvertiva l’angustia degli schemi retorici, che tuttavia non osava rinnegare (di qui, accanto al religioso, il travaglio letterario che lo portò a rivedere la Gerusalemme) e con B. Guarini, il cui Pastor fido fu seguito da una lunga polemica, trattandosi di una ‘tragicommedia’ accettata dagli innovatori ma non dai letterati ortodossi, in quanto genere non canonizzato né previsto dagli antichi.
Il 17° sec. polemizzò contro le regole astrattamente imposte al libero sviluppo della creatività letteraria; ma il dominio delle regole, e quindi dei g., riprese con l’Arcadia. Il classicismo francese aveva consolidato intanto, soprattutto con l’Art poétique di N. Boileau (1674) e nella pratica della poesia, le regole del g. teatrale, con la fissazione delle famose ‘unità drammatiche’, contro cui si ebbe la prima battaglia della critica romantica e, in Italia, la polemica di A. Manzoni. Il Romanticismo tentò di rimuovere il canone dei g., non accettando di sottoporre l’invenzione poetica alla tirannia di regole prefissate, o astrattamente imposte dai critici; i vari g. si confusero; anzi dall’unità di tutta la poesia si giunse all’idea dell’unità di tutte le arti. Ma la riflessione sui g. non impegnò soltanto critici e scrittori; il problema fu affrontato anche da altri punti di vista, ora su basi storico-filosofiche (per es., con G. Vico, che intese lo sviluppo dei g. come una sorta di «istoria ragionata» dell’umanità), ora con criteri extratemporali (è il caso di J.W. Goethe, secondo cui epica, lirica e dramma non sono meri risultati di un’estrinseca attività classificatoria, ma eterne categorie poetiche), o, ancora, secondo le teorie di G.W.F. Hegel, che nell’Estetica distingue i tre g. dell’epica (oggettiva), della lirica (soggettiva) e del dramma (sintesi delle altre due). Un contributo importante, di stampo positivista, alla teoria dei g. è stato quello offerto da F.-V. Brunetière in L’évolution des genres dans l’histoire de la littérature (1890).
La prima sistematica negazione della teoria dei g. si profila nell’estetica del Novecento, in particolare in quella di B. Croce. Nell’Estetica (1902) i g. sono ritenuti estranei all’intuizione lirica, cioè alla sintesi estetica, appartenendo a un diverso momento di riflessione, intellettualistico e non estetico, la loro funzione consistendo soltanto in un’indicazione esterna e di comodo, svincolata dallo stesso processo della critica. Nella Logica (1909) si precisa il carattere di pseudo-concetto della nozione di g.: il suo valore è pratico-empirico e non teorico; la teoria dei g. letterari ha un’utilità didascalica e in qualche modo, come Croce riconoscerà in seguito, anche storica, poiché molte opere del passato non potrebbero essere adeguatamente comprese senza fare attenzione alla poetica dei g. alla quale ubbidivano i loro autori.
Le critiche di Croce e la sua giusta polemica nei confronti dell’utilizzazione della nozione di g. come criterio di giudizio non hanno mancato di suscitare attenzione anche in chi non ha condiviso affatto la netta separazione crociana tra un momento intuitivo, libero dal condizionamento degli usi linguistici e degli istituti espressivi e formali, e un successivo momento intellettualistico, proprio del critico e non dello scrittore, o dello scrittore solo in quanto critico; è anche vero, però, che la situazione attuale è caratterizzata da un netto cambiamento di prospettiva. Sulla base di esigenze fatte valere soprattutto dai formalisti russi (V.B. Šklovskij e J.N. Tynjanov in particolare), il g. è considerato come prodotto storico, parte essenziale di quella complessiva strumentazione linguistica e formale che presiede alla produzione dei testi, pur essendo disponibile a trasformazioni incessanti e violazioni radicali. I g. di cui è considerata significativa non la semplice presenza di temi o motivi, come tali comuni a più g., ma il particolare tipo di rapporto tra gli elementi tematici e il piano della loro resa formale, sono oggi analizzati in relazione a diverse questioni, come quelle delle loro variazioni funzionali all’interno del sistema letterario, della loro diversa presenza nelle varie epoche, della loro intersezione e contaminazione, del loro rapporto con indirizzi culturali di rilievo, cioè con quei periodi (il Barocco, il Romanticismo ecc.) in cui i g. assumono un’aria di famiglia comune. Si tratta di una prospettiva nata dall’assimilazione del formalismo russo e dello strutturalismo, e che nella cultura italiana, con M. Corti e C. Segre, appare particolarmente attenta alla problematica della dinamica storica e funzionale dei g. e della loro collocazione nel più vasto ambito della comunicazione letteraria.
Il dibattito teorico sui g., e in particolare sul romanzo, si muove attualmente nella prospettiva volta a rilevare come i g. storicamente occupano uno spazio le cui componenti sono in costante evoluzione lungo i secoli; guardando dunque ai g. come a modelli sottoposti a continua metamorfosi che vanno, in ciascun caso particolare, situati nel sistema o polisistema letterario e culturale che lo forma e lo descrive, al fine anche di individuare gli scarti che l’opera letteraria realizza nei confronti di norme codificate. Gli studi più recenti di comparatistica letteraria hanno inoltre posto in luce aspetti relativi al complesso dei fenomeni di diffusione di un determinato g. in contesti storici e culturali diversi, all’interno dei quali esso svolge funzioni sociali ed estetiche differenti diffondendo cioè valori, linguaggi e tematiche radicati o appartenenti a una specifica tradizione culturale, nazionale o etnica.
Il g. grammaticale può distinguere soltanto il maschile e il femminile, come nelle lingue semitiche, o il maschile, il femminile e il neutro, come nelle lingue indoeuropee antiche (per es., il latino e il greco). Nelle lingue indoeuropee moderne la categoria del g. appare semplificata: solo in alcune, come per es. il tedesco, sono conservati i tre g.; nella maggior parte, come nell’italiano e nel francese, sussistono solo due g., il maschile e il femminile; in alcune, come in armeno e in persiano, la distinzione del g. è scomparsa o va scomparendo (nell’inglese è attualmente limitata ai pronomi). Il g. grammaticale in nessuna lingua storica appare strettamente coerente con il g. naturale.
Difficile è una spiegazione storica dell’origine della categoria del g. grammaticale. L’ipotesi più probabile è che originariamente esistesse una più ampia distinzione di classi, simile a quella che presentano molte lingue indigene dell’America, dell’Asia e dell’Africa (e soprattutto il gruppo bantu o, sebbene in misura più limitata, le lingue caucasiche), nelle quali, per es., l’inanimato è distinto dall’animato, e questo si articola in ragionevole e irragionevole, all’interno dei quali si distingue infine il maschile dal femminile. La semplificazione di questo originario sistema di classi deve portare a una distinzione tra una categoria animata, distinta spesso in maschile e femminile, secondo un principio fondamentale di coerenza con il g. naturale, e una categoria inanimata, rappresentata per lo più dal neutro. Il successivo sviluppo del g. grammaticale secondo criteri formali comportò poi una indipendenza sempre più larga tra g. grammaticale e g. naturale.
Si chiama g. di una curva algebrica un numero intero non negativo p collegato a talune proprietà analitiche e topologiche della curva; se la curva è piana, di ordine n, e ha come punti multipli soltanto d punti, il suo g. è dato da [(n−1)(n−2)/2]−d. Le curve di g. zero sono le curve razionali; quelle di g. uno si dicono curve ellittiche. Per es., sono razionali le rette, le coniche, le cubiche piane con punto doppio ecc.; sono ellittiche le cubiche piane senza punto doppio ecc. Il concetto di g. è stato esteso, in vari sensi, alle superfici e alle varietà algebriche, o topologiche.
In un poliedro chiuso non intrecciato, il g. del poliedro è il numero intero p fornito dalla relazione: 2−2p=F−S+V, dove F, S, V rappresentano rispettivamente il numero delle facce, degli spigoli e dei vertici del poliedro; intuitivamente, p è il numero delle ‘gallerie’ che attraversano il poliedro.