Lingua indoeuropea appartenente al gruppo italico o protolatino, lo stesso di cui fanno parte quelle di altri popoli (Ausoni, Opici, Enotri e Siculi) che, insieme ai Latini, si insediarono nella parte centromeridionale dell’Italia fra il 3° e il 2° millennio a.C.
L’alfabeto l. è derivato da un alfabeto greco di tipo occidentale di qualche colonia greca della Campania, forse della calcidese Cuma. Nel processo di trasformazione che subì nell’età repubblicana, notevoli furono le riforme ortografiche di Appio Claudio Cieco (4°-3° sec. a.C.), che sostituì la r alla s intervocalica (fenomeno del rotacismo) e soppresse la Z superflua per il l., al cui posto alfabetico fu introdotta poco dopo la G, modificazione di C, per notare la consonante velare sonora. Nella stessa epoca, dei tre segni che indicavano la consonante sorda, C Q K, l’ultimo, che si usava solo davanti ad a, fu abolito (restò solo come iniziale di alcuni nomi propri, come Kalendae, Kaeso) e il Q fu limitato all’impiego davanti a u seguito da vocale (quantus). Al tempo di Cicerone l’alfabeto l. si presentava formato di 21 lettere:
A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V (= u) X.
In età augustea fu di nuovo adottata la Z e in più la Y, per trascrivere la v delle parole greche, ormai numerose nella lingua l., specialmente nell’onomastica e terminologia scientifica.
In senso più largo s’intende per alfabeto l. qualsiasi alfabeto, anche di lingue diverse per origine e struttura, che sia costituito essenzialmente dalle lettere dell’alfabeto l., alcune delle quali eventualmente modificate con segni diacritici per esprimere suoni particolari. L’alfabeto l., così inteso, non è usato soltanto dalle nazioni neolatine, ma anche dalle germaniche (la cui scrittura ‘gotica’ è una varietà calligrafica più che un alfabeto distinto), da una parte di quelle slave, e dai popoli in genere conquistati e colonizzati dagli europei.
Il l. è una lingua indoeuropea, risale cioè a una lingua che in età preistorica, tra il 4° e il 3° millennio a.C., dovette essere parlata con una certa unitarietà in una zona centro-settentrionale del continente eurasiatico. Tra questa fase e l’età in cui appaiono le prime documentazioni dirette del l., intercorre un periodo di circa 3000 anni durante il quale la storia di questa lingua è immersa in un’oscurità quasi assoluta. Le sole ipotesi probabili si limitano a riconoscere al l., all’interno dell’indoeuropeo comune, una posizione marginale occidentale, e quindi una vicinanza con il germanico e il celtico; a identificare la sede del l. anteriore alla penetrazione in Italia in una zona centro-settentrionale della Germania; a ricostruire una lunga serie di migrazioni per cui le popolazioni parlanti quella lingua indoeuropea che poi doveva diventare il l. sarebbero giunte da questa sede in Italia, verso la fine del 2° millennio a.C., passando attraverso i valichi alpini o lungo il litorale della Venezia Giulia, o anche attraversando l’Adriatico.
I Protolatini, termine con cui si chiamano convenzionalmente in linguistica questi primi gruppi di popolazione di lingua indoeuropea giunti in Italia, entrarono qui in contatto con le popolazioni preesistenti, che parlavano lingue di tipo ‘mediterraneo’, accogliendo e assimilando diversamente molti elementi della lingua e cultura preesistente. Di questi gruppi (tra cui i più identificabili sono i Siculi, gli Enotri, gli Opici e gli Ausoni) i Latini rappresentano, nel Lazio antico, il gruppo più settentrionale. Il carattere composito, che il l. presentava in questa età, si accentuò, tra il 1000 e il 500 a.C., per i nuovi contatti politico-economici e culturali, e quindi linguistici, che i Latini avevano con popoli preindoeuropei e indoeuropei dell’Italia antica. Tra i primi gli Etruschi, i quali durante l’ultima età monarchica dominarono direttamente anche a Roma. Tra i secondi gli Osco-Umbri, sovrappostisi nell’Italia centro-meridionale ai più antichi immigrati Protolatini, e affiancatisi nel Lazio ai Latini, con cui una tribù sabina conviveva sui colli stessi di Roma; e inoltre i Greci delle colonie della Sicilia e della Magna Grecia. Di conseguenza, quando tra il 6° e il 4° sec. a.C. appaiono le prime documentazioni epigrafiche, dirette e indirette, e quando nel 3° sec. ha inizio la tradizione letteraria, la lingua l., uscita ormai dalla preistoria, presenta un sistema grammaticale sostanzialmente indoeuropeo, ma con profonde trasformazioni dovute a spinte sia interne sia esterne, e un lessico composito in cui alle voci ereditarie si affiancano numerose parole di origine mediterranea ed etrusca, osco-umbra e greca.
I tratti grammaticali del l. originari e più conservativi sono: il fondamentale valore distintivo della quantità vocalica; il carattere probabilmente musicale dell’accento distintivo, in età preistorica libero come in indoeuropeo, e quindi in età storica fissato sulla penultima sillaba, se lunga o sulla terzultima se la penultima è breve; nella fonologia, la conservazione dei dittonghi e delle consonanti velari e labiovelari; nella morfologia, la conservazione, nella flessione nominale in fase arcaica, degli otto casi e della maggior parte delle desinenze; nella flessione verbale la conservazione delle desinenze; nella sintassi la fondamentale aderenza al tipo di costrutto originario paratattico, o di coordinazione.
Fra i tratti più innovativi, sempre all’interno degli elementi ereditari, si possono individuare: a) la tendenza a rafforzare e spostare l’accento sulla sillaba iniziale, favorita dal forte accento iniziale d’intensità del sostrato mediterraneo; il conseguente indebolimento delle vocali delle sillabe successive, soprattutto nella seconda (facio ma conficio, loco ma illico); b) nella fonologia, il passaggio delle antiche consonanti sonore aspirate bh, dh a spiranti sorde all’inizio di parola (sanscr. dhūmas «fumo», lat. fumus), e a sonore non aspirate all’interno di parola (sanscr. madhyas «mediano», lat. medius); c) nella morfologia, la formazione di nuove desinenze nella flessione nominale, e nella flessione verbale la formazione dell’imperfetto con l’infisso -ba-, la fusione in un solo nuovo perfetto dei due antichi tipi dell’aoristo e del perfetto; la formazione di un sistema verbale fondato sulla bipartizione tra infectum e perfectum, e cioè tra azione in via di svolgimento e azione compiuta; il conseguente uso del futuro perfetto, opposto al futuro semplice; d) nella sintassi il sorgere e il consolidarsi di un sistema ipotattico, o di subordinazione, che si va sostituendo all’antico sistema paratattico, o di coordinazione.
Nel lessico, la parte più notevole è rappresentata dalle voci ereditate dal fondo indoeuropeo: voci della famiglia (pater, mater), fenomeni naturali (lux, dies, ventus); numerosi poi, gli elementi assimilati dall’ambiente mediterraneo, soprattutto nomi di piante e di animali, oltre a nomi di luogo e geografici. Meno numerosi sono gli elementi lessicali che si possono sicuramente attribuire a contatti con l’ambiente etrusco, elementi costituiti quasi esclusivamente da nomi propri di città, località e persone. Più numerosi, invece, i prestiti dai vari dialetti osco-umbri, e soprattutto dal sabino, strettamente confinante e caratterizzati dalla presenza di suffissi o infissi come na (-ena, -enna), rna (per es., catena, taverna). Notevole il numero delle voci greche penetrate nel latino già anticamente e appartenenti soprattutto alla terminologia marinara (gubernare, prora, scopulus).
Le più antiche testimonianze dirette del l. sono costituite da iscrizioni. La più antica, del 7° sec. a.C., era ritenuta la Fibula praenestina, una spilla d’oro di Preneste (oggi Palestrina), con il breve testo Manios med fhefhaked Numasioi «Manio mi fece per Numerio», di cui alcuni studi hanno negato però l’autenticità. Le iscrizioni latine più antiche, tutte risalenti al 6° sec. a.C., sono quella del cippo del Foro Romano sottostante al Lapis Niger, con andamento bustrofedico; quella del vaso a tre corpi, detto di Dueno dal nome Duenos che vi appare; una laminetta bronzea con dedica a Castore e Polluce ritrovata a Lavinio; inoltre una base iscritta da Tivoli, una dedica da Satrico e diversi frammenti di iscrizione dell’area del Foro Romano, del Palatino e del Campidoglio. Assai rare sono ancora le iscrizioni per tutto il 5° e 4° secolo.
Le più antiche testimonianze indirette (conservate dalla tradizione letteraria posteriore, e quindi più o meno alterate o modernizzate), sono costituite dal Carmen Arvale, conservato in una tavola dei Fratres Arvales, che descrive le cerimonie di quel collegio religioso del 19 maggio del 218 d.C., dal Carmen Saliare, conservato, frammentariamente, dai grammatici tardi (Varrone Reatino, Terenzio Scauro e Festo), dalle Leges regiae e dalle Leges XII Tabularum, tramandate frammentariamente da Cicerone, Plinio, e da altri eruditi e giuristi più tardi.
Tra la lingua delle più antiche testimonianze epigrafiche dirette e, tra quelle indirette meno alterate, del Carmen Arvale e Saliare, e la lingua del testo tramandato delle Leges regiae e delle Leges XII Tabularum, e dei più antichi testi letterari, come i frammenti delle opere di Appio Claudio, di Livio Andronico e di Gneo Nevio, esiste uno stacco nettissimo. Quei primi testi, che sono fondamentalmente incomprensibili, così come già erano per Latini pur colti dell’ultima età repubblicana, presentano uno stato arcaico, quasi preistorico, di fatti, lessicali e grammaticali, solo raramente incrinato dallo sporadico affacciarsi di un processo di innovazione e di sistemazione. Le Leges, invece, per il lungo e intenso processo di modernizzazione, e i primi documenti letterari, riflettono ormai una fase nuova della lingua latina, un aspetto lessicale e grammaticale in cui a una patina di arcaicità corrisponde una struttura sostanziale ormai ‘classica’.
Tra il 4° e il 3° sec. il l. subì una profonda trasformazione. Nella seconda metà del 3° sec. sorse a Roma una letteratura latina, primitiva in quanto inizio di una nuova tradizione, ma nello stesso tempo ricca dell’esperienza della tradizione letteraria greca, non solo nota ma strettamente seguita e imitata dai primi poeti (Livio Andronico, Gneo Nevio). Questa prima letteratura, che con Ennio e con Plauto dovette acquistare piena coscienza delle proprie esigenze tecniche e artistiche, esercitò sulla lingua una duplice azione: da un lato un’azione unitaria (l’esigenza di ordine e di simmetria fissò certi aspetti ancora oscillanti); d’altro lato un’azione di sviluppo, di arricchimento lessicale e grammaticale, affiancata in questo dalle nuove maggiori esigenze della vita politica. Tra la fine del 3° sec. e la prima metà del 2° sec. a.C. si venne così formando un l. letterario, che è poi, nelle grandi linee, anche il l. ufficiale. Questa lingua letteraria o, in senso più largo, scritta, non sorse in opposizione alla lingua parlata, anzi ne dipendeva, soprattutto all’inizio, e ne era fondamentalmente costituita, pur staccandosene, specie nell’epica, nell’oratoria e nella storiografia, per maggior sostenutezza, ordine e regolarità.
Da questo momento scarseggiano sempre più le documentazioni della lingua parlata, e la storia di questo aspetto del l., che sarà poi la base fondamentale da cui si svolgeranno le varie lingue romanze, deve essere seguita e ricostruita attraverso le testimonianze delle opere letterarie e dei documenti ufficiali.
La storia del l., nell’età susseguente al primo sorgere di una lingua letteraria, e cioè dal 2° sec. a.C. all’Impero, è caratterizzata da tre fatti fondamentali: la diffusione del l. al di là delle Alpi e del mare; la fissazione di una lingua letteraria e in particolare di una prosa d’arte; il distacco sempre maggiore tra la lingua letteraria e la lingua parlata. Alla conquista politica, con la penetrazione militare, commerciale e culturale, con la centralizzazione amministrativa, si accompagnarono la diffusione e l’acquisizione della lingua di Roma. La conseguenza più notevole, per il l., fu da un lato il suo differenziarsi nelle varie regioni, per l’azione dei diversi sostrati e per le varie condizioni della latinizzazione, e d’altro lato l’assunzione di alcuni elementi, specie lessicali, delle lingue dei popoli latinizzati.
- Nella lingua letteraria si andò creando una più netta differenziazione tra la lingua della poesia e quella della prosa. Mentre la lingua della poesia continuava ad avvalersi di voci e forme arcaiche, di libertà di costrutti, la lingua della prosa raggiunse nel 1° sec. a.C. una notevole unità e fissità, sia per le maggiori esigenze di chiarezza della prosa, sia per il prevalere, nella teoria e nella pratica, dell’analogia (indirizzo creato dalla scuola alessandrina di Aristarco, in contrapposizione alla tendenza ‘anomalistica’ della scuola pergamena, rappresentata da Cratete di Mallo), che imponeva il rifiuto di forme diverse per esprimere uno stesso valore. Accanto al criterio dell’analogia sorse e prevalse, anche per la poesia, l’ideale dell’humanitas, cioè di una lingua che soddisfacesse le esigenze culturali e spirituali non più di una città o di una regione, ma di tutto un mondo, di latinitas e urbanitas, cioè di una lingua fondata sulla tradizione latina, priva perciò di forestierismi, e basata sull’uso delle classi più elevate di Roma, e quindi aliena da forme dialettali, rustiche e plebee. Si venne così fissando una lingua d’arte ben regolata e strutturata, simmetrica e coerente, che Cicerone e Cesare da un lato, e Virgilio e Orazio dall’altro, imposero come modello della loro età e delle successive.
- È naturale che la lingua così fissata, simmetrica e intellettuale, fosse andata sempre più allontanandosi dalla lingua parlata di Roma e delle varie regioni della Romania; mentre è facile tracciare una storia del l. letterario, non è altrettanto facile cogliere le linee di sviluppo e di differenziazione della lingua parlata, del cosiddetto l. volgare, che pure è d’importanza fondamentale, costituendo la base delle lingue e dei dialetti romanzi. La storia del l. volgare prese l’avvio nel momento in cui, stabilitasi una tradizione letteraria, nacque un’opposizione tra lingua scritta e lingua parlata (intorno alla metà del 3° sec. a.C). Costituitosi nelle sue linee generali all’epoca delle grandi conquiste romane, il l. volgare fissò la maggior parte delle sue caratteristiche negli ultimi due secoli della Repubblica e agli inizi dell’età imperiale già si avevano gli elementi fondamentali che avrebbero costituito il patrimonio comune di tutte le lingue romanze.
Portato dai soldati e dai coloni romani in tutte le province dell’Impero, il l. volgare subì una prima notevole spinta alla differenziazione, per effetto dei vari sostrati locali, ma l’unità culturale, economica e politica, l’influsso della lingua colta usata dalla burocrazia, frenarono e contennero il processo di sfaldamento; grazie alla scuola soprattutto, la tradizione classica s’impose come modello di ogni testo scritto e discorso ufficiale, impedendo la disgregazione anche della lingua parlata e popolare. Dal 3° sec. in poi, con l’inizio della crisi della scuola e dell’amministrazione pubblica, il processo di frantumazione si accelerò. Unico fattore unificante rimase il l. cristiano, che dalla metà del 2° sec. in poi esercitò un influsso considerevole sulla lingua sia scritta sia parlata, spingendole però entrambe verso forme di espressione più popolari e assecondando in tal modo le tendenze volgari e l’abbandono del normativismo del l. tradizionale.
Le invasioni barbariche provocarono lo sfaldamento dell’insegnamento tradizionale e la rottura definitiva dell’unità linguistica dell’Impero romano: dal 6° sec. in poi la storia del l. volgare si lega, senza soluzione di continuità, alla storia delle singole parlate romanze.
- I documenti di riferimento per la conoscenza del l. volgare sono: gli scritti di grammatici, lessicografi e maestri di retorica, per i riferimenti a usi popolari e a forme rigettate dalla lingua letteraria (per es. il De verborum significatione di Verrio Flacco, l’Appendix Probi ecc.); gli scritti letterari che, per esigenze stilistiche, volutamente si adeguano alla lingua popolare come la commedia, l’epigramma, l’epistolografia più occasionale, la satira e il romanzo (alcune parti del Satyricon di Petronio); le opere di autori di scarsa cultura, o che comunque riflettono aspetti della vita degli ambienti popolari (trattati tecnici di agricoltura, architettura, medicina e veterinaria, culinaria ecc.); le iscrizioni, specialmente quelle non ufficiali, quelle di Pompei e le formule di esecrazione; gli scritti degli autori cristiani; la comparazione delle lingue e dei dialetti romanzi.
- Alcuni elementi caratterizzano il l. volgare nella sua ultima fase unitaria, prima cioè della grande differenziazione dialettale. Nella fonetica sono: la presenza di un accento d’intensità in luogo dell’accento musicale; la perdita del valore della quantità e il prevalere del timbro, per cui le 10 vocali del l. classico, in conseguenza di un’apertura delle brevi e di una chiusura delle lunghe, si riducono a 7 in posizione tonica, con le corrispondenze:
l. classico ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū
∣ ⋁ ∣ ⋁ ∣ ⋁ ∣
l. volgare i é è a ò ó u,
e a 5 in posizione atona (la e e la o aperte si chiudono fuor d’accento); il monottongamento dei dittonghi ae e oe rispettivamente in è e é, mentre il dittongo au si conserva, malgrado una certa tendenza dialettale al monottongamento in o; una notevole propensione alla sincope delle vocali postoniche, specialmente in vicinanza di una liquida (per es., oricla per auricula); la palatalizzazione delle velari c e g davanti a e, i; la tendenza all’assimilazione e alla semplificazione di vari nessi consonantici (per es., ns>s, pt>tt, ct>tt ecc.); l’affievolimento delle consonanti finali, specialmente di m e di t.
Nella morfologia elementi caratterizzanti sono: l’indebolimento della struttura flessionale, nominale e verbale; la perdita del genere neutro; l’affermarsi del comparativo analitico formato con plus o magis; la perdita del deponente, la sostituzione del passivo e del futuro attivo con forme perifrastiche (amatus est per amatur), l’affermarsi di tempi perifrastici composti da un participio passato più l’ausiliare (amatum habeo per amavi).
Nella sintassi si riscontra: la fissazione dell’ordine delle parole nei gruppi nominali, che nel l. letterario, grazie ai legami flessionali, appare molto più libero; la semplificazione dell’ipotassi e l’impiego ridotto del congiuntivo; la tendenza a costruire analiticamente la frase, esprimendo le relazioni per mezzo di preposizioni invece dei casi, di verbi ausiliari invece di forme verbali sintetiche.
Nel lessico si ha: la propensione a sostituire parole brevi con altre più ‘corpose’ (per es., bucca in luogo di ōs ecc.); la diffusione dei diminutivi (agnellus ecc.), dei verbi iterativi e intensivi (cantare, iactare ecc.); il prevalere di voci più espressive e popolari (caballus invece di equus ecc.); la coniazione di neologismi; l’affermarsi di diversi forestierismi e dialettalismi; il grande influsso del l. cristiano.
Mentre il l. volgare si trasforma, si differenzia sempre più rapidamente e si avvia a identificarsi nei vari dialetti romanzi, il l. scritto ha, dopo la fine della grande tradizione classica, la sua continuazione, anche oltre l’Impero romano, nel cosiddetto l. tardo, che costituirà poi la base di quello medievale.
Problema interessante e controverso è quello della cosiddetta ‘morte’ del l., cioè di stabilire l’epoca in cui esso cessò di essere compreso dalle masse. In linea di massima, si può supporre che il l. sia rimasto lingua viva almeno fin verso la fine del 7° sec., intervenendo in seguito un periodo di transizione che ci riconnette alle prime testimonianze, dirette e indirette, dell’esistenza delle lingue romanze (la disposizione del Concilio di Tours dell’813, che prescrive la predicazione in rustica Romana lingua, i Giuramenti di Strasburgo dell’842). La tradizione letteraria permase finché sussistette l’insegnamento tradizionale, e cioè in Gallia fino alla fine del 6° sec., in Italia fino al 9°, in Spagna fino all’invasione araba, mentre si spense precocemente nell’Oriente bizantino e in Africa. Nel 6° sec. la cultura antica lasciò la sua ultima grande eredità nelle opere di Boezio, Cassiodoro, Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia. Il 7° e 8° sec. segnarono il vertice della crisi della cultura latina. La lingua delle carte (specialmente nelle ‘parti libere’ e non di formulario), dei documenti pubblici merovingici e longobardici, delle cronache, delle vite di santi, dei testi liturgici, nonostante rechi ancora una notevole impronta conservatrice, diventa sempre più rozza, incolta, infarcita di volgarismi, sempre più incerta nella ortografia, morfologia, sintassi, non ha più forza di resistere alla lingua parlata. Al termine di questa crisi si pone la rinascita carolingia, che segnò l’inizio di un’altra grande stagione della latinità, durante la quale, mentre il distacco tra scritto e parlato si fece definitivo e si emanciparono i volgari romanzi, il l. ‘riformato’ riacquistò nuovo vigore e prestigio come lingua di cultura.
Per attuare la riforma dell’insegnamento, Carlomagno si valse prevalentemente di dotti anglosassoni (il più eminente è Alcuino) e irlandesi. L’Irlanda in particolare, in cui il l. era giunto all’inizio del 5° sec. insieme al messaggio cristiano, rappresentò il tramite principale tra la grande tradizione classica e cristiana e la latinità medievale. Nei monasteri irlandesi, e poi in quelli anglosassoni, l’eredità della tradizione latina cristiana era stata sempre gelosamente custodita, e con essa lo studio attento della grammatica (specialmente Donato e Prisciano, che furono le principali fonti grammaticali del l. medievale). In questo modo il nuovo l. ‘restaurato’ si riallacciò al tronco del l. tardo, di cui rappresentava la continuazione.
Come lingua dei dotti della cosiddetta respublica clericorum, della gerarchia statale ed ecclesiastica, di una letteratura varia anche se priva di grandi lumi, il l. medievale assunse una grande varietà di aspetti e si evolse costantemente, nel tempo e nello spazio, piegandosi alle esigenze di lingua internazionale, influenzata largamente dalle varie lingue nazionali e su di esse a sua volta vigorosamente operante. Nel l. medievale vennero a confluire diverse tradizioni: la più importante fu quella cristiana, a cui dal 12° sec. si aggiunse l’apporto della cultura scolastica, che operò specialmente nel lessico filosofico e scientifico.
È difficile dare un quadro complessivo di questa lingua così varia e composita; è tutta una serie di elementi che agiscono in vari sensi, determinando differenze notevoli nelle età, nelle aree geografiche e nei singoli scrittori. Per rilevare qualche tratto generico, comune al l. medievale, si ricorderà: nell’ortografia, la riduzione dei dittonghi ae e oe a e e la presenza invece di dittonghi irrazionali (praemo per premo ecc.), l’oscillazione nella rappresentazione di alcune consonanti (uso incontrollato dell’h, alternanza tra t e th, f e ph, g e j ecc.), la confusione tra i nessi ti e ci davanti a vocale; nella morfologia, la frequenza di metaplasmi di coniugazione e declinazione, di mutamenti di genere e di numero; nella sintassi, la confusione nell’uso dei dimostrativi e dei pronomi personali (sui, sibi in luogo di eius ed ei: sibi dixit «gli disse»), un largo uso dell’infinito dopo il verbo facere o come sostantivo indeclinabile; la sostituzione di proposizioni dichiarative (quod, quia, con modi finiti del verbo) alle infinitive, dopo verba dicendi o sentiendi; nel lessico, la frequenza di parole astratte; l’uso abbondante di grecismi, germanismi, diminutivi, parole composte, neologismi nel campo religioso, nel lessico comune, nella terminologia filosofica, in gran parte trapassata poi nelle lingue nazionali.
A Dante, nel De vulgari eloquentia, il l. (la gramatica) appariva come una superlingua, artificiosamente ‘regolata’, sottratta ai particolarismi linguistici e al fluire del tempo. Ma già a Petrarca era evidente la concezione di un decadimento della latinità e l’impegno di ricondurla alla sua dignità passata. Il primo umanesimo procedette a un’attenta revisione delle consuetudini stilistiche, grammaticali e ortografiche, che si svolse attraverso difficoltà e incertezze, raggiungendo un punto di arrivo importante nelle Elegantiae di L. Valla. Tuttavia, anche nell’umanesimo più maturo e oltre, il l. continuò a vivere a fianco delle lingue nazionali come lingua ufficiale e internazionale della Chiesa, della diplomazia e della scienza, e di una nuova letteratura latina. Tra il 17° e il 18° sec. il l. fu abbandonato in tutta l’Europa occidentale come lingua della diplomazia e della scienza (Galileo e Cartesio, pur scrivendo alcuni trattati in l., nella maggior parte della loro opera adottano le rispettive lingue nazionali; il trattato di Rastatt, del 1714, è redatto non più in l. ma in francese); il l. restò solo come lingua della Chiesa cattolica (ma nella liturgia, a partire dal 1947 e soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, è stato fatto largo spazio alle lingue nazionali), e di una mai abbandonata letteratura (per es. i Carmina di G. Pascoli). Ma più che per questi due aspetti, o per diversi tentativi di ripristinare il l. nella sua forma classica o variamente semplificato e adattato (Latino sine flexione di G. Peano) come lingua internazionale, il l. è sempre stato vivo per gli elementi lessicali e derivativi, e per i tipi sintattici e stilistici che ha incessantemente offerto alle diverse lingue nazionali, soprattutto romanze, e per le voci e gli elementi compositivi forniti alle varie terminologie scientifiche di tutte le lingue di cultura europea.
Antichissime forme di letteratura possono essere considerate la lirica religiosa (carme dei fratelli Arvali, carme dei Sali) e la poesia popolare: canti di amore, di lavoro e militari, lodi funebri. Notevole importanza nella letteratura delle origini dovettero avere anche le canzoni epiche, celebranti gesta e trionfi di grandi personaggi e famiglie. Attorno a questa epica si formarono quelle leggende e tradizioni cui già gli antichi facevano risalire l’origine della storiografia l., e di cui si hanno echi nei primi libri delle Storie di Tito Livio. Contemporaneamente a questo patrimonio poetico e leggendario, si veniva formando quello della prosa giuridica e oratoria: dell’una furono primo esempio le Leges XII Tabularum (5° sec. a.C.), che segnarono il passaggio dal diritto consuetudinario orale, di tipo magico-sacrale, a quello scritto, laico e civile, esercitando un’influenza decisiva sullo stile e sulla lingua dell’uso pratico ufficiale; l’altra nasceva dall’ambito politico, militare e dal costume celebrativo funebre.
Dopo Appio Claudio Cieco (censore nel 312 a.C.), poeta, oratore e giurista, con Livio Andronico (prima metà del 3° sec.) comincia la letteratura l. vera e propria, rivelandosi intimamente legata all’ellenismo. Opera di Andronico è la traduzione dell’Odissea in versi saturni e l’adattamento di tragedie attiche. Poco più giovane di Andronico, Nevio adatta la commedia palliata (derivante dalla commedia attica nuova) con i procedimenti – poi classici in Plauto e Terenzio – della contaminazione tra più originali greci, e dà vita alla togata e alla praetexta, rispettivamente commedia e tragedia di argomento romano; nel Bellum Pœnicum narra in forma di poema epico la storia della prima guerra cartaginese. Il carattere ellenizzante di questa produzione ha provocato la discussione sull’originalità dei Latini in fatto di poesia e letteratura; ma la riflessione critica ha dissolto il falso problema della inferiorità o superiorità di una letteratura sull’altra; inoltre Roma non subì mai passivamente il peso della cultura greca, per la sostanziale libertà nell’accettazione e imitazione dei modelli, cercando se mai di rapportarsi a essa con spirito di emulazione.
La tradizione iniziata con Andronico e Nevio proseguì e si approfondì con Plauto ed Ennio. Il teatro popolare di Plauto, dinamico (commedia ‘motoria’) e beffardo, nel gioco inesauribile delle battute e nella varietà dei registri riflette il patrimonio linguistico, espressivo, ritmico della cultura latina del tempo; è anche un chiaro esempio di quanto il tradurre da modelli stranieri (Menandro, Filemone, Difilo) potesse essere un ricercare in piena originalità. Ennio concepì il disegno di un poema epico sulle vicende di Roma (Annales), elaborando, nella forma omerica, un contenuto storico, religioso e morale autonomo; proseguì le esperienze drammatiche con la commedia e la tragedia; iniziò una prosa narrativa (Euhemerus) in cui la cultura l. comincia a manifestarsi in modi propri; fonda, con la composizione di carmi di soggetto vario, in metri molteplici, quella tradizione che confluirà, con esiti nuovi, nella satira di Lucilio.
Sullo scorcio del 3° sec. a.C. nacque l’annalistica, prima storia e cronaca dei fatti di Roma dalle origini, inaugurata da Fabio Pittore e Cincio Alimento e proseguita da C. Acilio e Postumio Albino. Questi storici-cronisti scrivevano in greco, nella lingua della cultura e della diplomazia internazionale, con intenti propagandistici, per far conoscere a un vasto pubblico di non romani gli eventi della storia nazionale, in una fase cruciale in cui Roma era avviata ad assumere il ruolo di potenza egemone nel Mediterraneo.
Il 2° sec. visse tutto dei problemi e fermenti nati dalle vittorie puniche, macedoniche e orientali, e dai conseguenti problemi sociali. Figura di spicco fu Catone il Censore che ha lasciato una traccia profonda nella letteratura l.: le sue Origines sono il primo monumento della prosa l., la sua oratoria e il suo trattato sull’agricoltura rappresentano gli inizi di due tra gli aspetti più caratteristici della cultura romana, quello politico e quello pratico-erudito.
L’esperienza ellenistica si rinnovò nel circolo degli Scipioni, formatosi attorno a P. Cornelio Scipione Emiliano e al suo amico Lelio: qui Polibio e Panezio conversavano e familiarizzavano con i nobili romani, Terenzio e Lucilio svolgevano la più elevata ricerca letteraria e poetica. Terenzio, allontanandosi dal gusto del teatro popolare, persegue nelle sue commedie (commedia ‘stataria’, non d’azione) intenti educativi e morali, approfondendo gli aspetti psicologici e usando la lingua di un’élite colta. Lucilio, nelle Satire, riversa un vasto contenuto di osservazioni e polemiche sulla società del tempo, con una vena sferzante e attacchi ad personam. Nel cenacolo si raccoglieva, intanto, quanto c’è di meglio nella eloquenza, storiografia, filosofia, giurisprudenza: M. Manilio, Q. Tuberone, D. Giunio Bruto, P. Rupilio, Spurio Mummio, C. Fannio, Q. Mucio Scevola, P. Rutilio Rufo.
La tragedia ebbe in Pacuvio e in Accio i massimi esponenti; la commedia, nella quale alla palliata si sostituì dopo Terenzio la togata, ebbe cultori in Afranio, Titinio e Atta. Il teatro comico trapassò poi nelle forme, più corrive, della farsa osca (recupero dell’antica atellana) e del mimo, spettacolo di carattere licenzioso che accentua gli elementi mimico-gestuali.
Con i Gracchi, specialmente con il più giovane Gaio, e con M. Antonio e Licinio Crasso l’oratoria arriva a una classica eccellenza; con Celio Antipatro e Sempronio Asellione la storiografia matura problemi e forme sempre più complessi. Lutazio Catulo, Emilio Scauro, Rutilio Rufo scrivono autobiografie, come poi Silla, dando inizio a un genere vitale nel mondo romano. Nella filologia Elio Stilone si vale dei metodi greci, temperati tra loro ecletticamente, per indagare notizie, porre problemi di autenticità, studiare documenti linguistici, letterari e di altri ambiti.
Il 1° sec. a.C., solitamente considerato il secolo classico, dal punto di vista storico ha inizio con gli esordi di Cicerone e si conclude con la morte di Augusto (14 d.C.). L’epoca di Cicerone, Cesare, Pompeo e Augusto espresse una cultura che alla maturità di forme accompagnò verità e profondità d’ispirazione. Sempre legata alla sua matrice ellenica, ma anche alla propria tradizione ormai ben sperimentata, la letteratura l. produsse capolavori di poesia, storiografia e oratoria destinati ad avere enorme influenza sulle età successive.
In Cicerone si sono voluti ritrovare rappresentati tutti gli aspetti caratteristici di quest’epoca letteraria. Accanto al suo contributo alla formazione di una cultura filosofica, politica, giuridica l., emerge significativa la sua personalità di oratore e di uomo che vive nella società, prendendo parte attiva nelle convulse vicende che segneranno la fine della libertas e del costituzionalismo repubblicani. Nelle opere filosofiche riprende ecletticamente vari indirizzi, cimentandosi in un arduo lavoro di traduzione dei termini greci; in quelle giuridiche, raccogliendo i dati della speculazione stoica, stabilisce un rapporto di derivazione del diritto positivo da quello naturale, principio razionale alla base dell’ordinamento cosmico e fondamento della giustizia (l’intento è politico: dare un valore sacrale alle leggi dello Stato e dell’oligarchia, ponendole al riparo da tentativi eversivi); in quelle retoriche propone il modello ‘rodiense’, posizione intermedia tra il gusto asiano, enfatico e abbagliante, e quello atticista, essenziale e disadorno. Nelle orazioni (Catilinarie, Filippiche ecc.) e nell’epistolario, nelle opere teoriche, l’eleganza, la forza, il dominio completo della lingua, il senso della graduazione degli effetti, l’architettura del periodo sono rimasti modello per i secoli seguenti.
L’erudito Varrone affronta con organicità problemi di antiquaria, linguistica, diritto. Al centro della sua ricerca non è un puro gusto filologico, ma un attaccamento al passato di Roma, cui si uniscono un nuovo interesse per l’antico e una sensibilità archeologica che già mostrano la cultura latina impegnata nel processo di conquista della consapevolezza di sé.
Dominante nella politica, Gaio Giulio Cesare primeggiò nell’oratoria, esaltata nelle testimonianze di contemporanei e di scrittori più tardi, e soprattutto nella storiografia: i Commentarii («rapporti, relazioni, dispacci») sulla guerra gallica e sulla guerra civile rappresentano uno dei più vivi e interessanti testi latini e sono un modello di stile, riunendo alla limpida chiarezza una forza e una semplicità cristallina e sensibile alle più precise sfumature del pensiero. Nati forse occasionalmente, i Commentarii vogliono avere una funzione comunicativa e informativa, non espressiva, come resoconto cronachistico delle imprese compiute da ‘Cesare’: l’uso stesso della terza persona risponde a un’esigenza di fredda obiettività. In realtà l’occasione informativa è interamente superata e la cronaca degli avvenimenti si fa vivente storia di essi, acquistando un valore letterariamente autonomo. Quest’opera rimane, nel tempo della massima crisi della Repubblica romana, a simboleggiare la maturità di una civiltà politica tutta in atto, razionale e pragmatica, anche spietata.
Fondamentalmente diverso da Cesare è il cesariano Sallustio, autore di due monografie, sulla guerra giugurtina e sulla congiura di Catilina. Temperamento passionale, tormentato da problemi etici e dalla difficoltà di intendere la vera natura del suo tempo, uomo di parte egli stesso, ma capace di raggiungere l’obiettività dello storico, Sallustio crea uno stile anticlassico, nervoso, che nella concisione e nelle asimmetrie anticipa la tensione espressiva, e ideale, di Tacito.
In quest’epoca di turbamento di ogni valore, coerentemente alla novità ed eccezionalità dei tempi, nacque la grande poesia l.: Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio. Poeti diversi, che con le date estreme della loro esistenza toccano gli inizi e la fine del secolo politico, dalla guerra civile di Mario e Silla alla consolidata potestà d’Augusto. Lucrezio, personalità solitaria, scrive un poema didascalico sulla natura delle cose (De rerum natura), ispirato alla dottrina filosofica di Epicuro, della quale vuole essere l’esposizione entusiastica. L’interpretazione naturalistica della vicenda cosmica (tutto è materia, gli dei sono indifferenti alle cose umane, l’anima non è immortale, i mondi sono infiniti e perituri) elimina tutte le soluzioni e ‘illusioni’ prospettate da altre filosofie (finalismo, antropocentrismo, provvidenzialismo), offrendo la ricetta di una saggezza praticabile subito: l’intento è sgomberare con la scienza il terrore della morte, del dolore, di insegnare a raggiungere l’atarassia, l’imperturbabilità di fronte alle passioni. Lucrezio ricorre all’immagine vivida e alla tecnica dell’analogia per dare evidenza a concetti astratti o realtà fisiche che sfuggono alla percezione sensibile.
Catullo appartiene a un gruppo di poeti, i neòteroi o poetae novi, che tentano un rinnovamento della letteratura romana. I soggetti sono la mitologia o l’autobiografia lirica; i modelli: l’epillio, l’elegia, l’epigramma e la lirica alessandrina, con i grandi maestri Callimaco, Asclepiade ecc. La scuola, nata come singolare movimento culturale, si esprime anche come fermento politico, conservatore e aristocratico. La predilezione per la forma elegante e breve di tradizione callimachea si unisce al culto della passione amorosa, dell’eros come centro dell’esistenza. Notevoli, tra questi poeti, Elvio Cinna, C. Licinio Calvo, M. Furio Bibaculo, e appunto Catullo (l’unico del quale sia conservata l’opera). Accanto alla lirica amorosa, soggettiva e dagli intensi toni emotivi, Catullo compose carmina docta: epilli, o lunghe elegie, tipi esemplari di una letteratura che ha raggiunto un’alta capacità tecnica, e di una cultura che non ama l’improvvisazione.
La generazione di Catullo compiva fino in fondo l’esperienza dei rivolgimenti politici e delle lotte che in quel tempo tormentarono la repubblica romana, trovando una soluzione solo nel compromesso augusteo. Sono gli ultimi anni nei quali una partecipazione politica diretta alle sorti della repubblica appare ancora ovvia. I poeti dell’età augustea – Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio – non hanno ignorato il dramma della guerra civile, che ha lasciato anzi in essi la traccia cocente d’un ricordo incancellabile di giovinezza o di adolescenza; ma quando la loro riflessione e il loro sguardo si è rivolto sugli uomini, sulle cose, su sé stessi, già altri problemi venivano a seppellire quei ricordi, o almeno quanto di essi era veramente intollerabile e non poteva essere rifuso in una visione del mondo aperta alla vita e non soffocata dal pessimismo totale.
Virgilio giunse a risultati formali che rimasero definitivo modello per tutta la letteratura dell’Occidente; la sua figura umana divenne mito esemplare nel Medioevo, simbolo della cultura e della spiritualità di Roma. Dalle Bucoliche alle Georgiche all’Eneide, in uno sviluppo unitario di temi poetici e di stile, Virgilio ha creato un monumento d’arte, definendo l’ideale della purezza classica mai fredda, sempre umanamente composta. Virgilio è poeta difficile e, ciò nonostante, subito popolare; la profondità dei sentimenti, la raffinatezza e la semplicità, pregio della grande arte, si ritrovano in lui in una sintesi che non ha uguali nella letteratura latina.
Un’opera come quella di Virgilio non poteva aversi se non in un ambiente che favorisse, in una sostanziale libertà, le esperienze filosofiche, letterarie, etiche: l’ambiente che intorno ad Augusto creò Mecenate, letterato colto ed eccentrico, mediatore tra cultura e potere, che raccolse intorno a sé un gruppo di scrittori (tra questi anche Orazio e Tito Livio) facendo del suo ‘circolo’ un centro di irradiazione di un progetto ideologico di ampio respiro. Orazio è, con Virgilio, l’altro poeta augusteo che ha dato tono all’umanesimo europeo. Dai giovanili epodi, alle odi, satire, epistole, si manifesta con sempre maggior chiarezza il suo spirito, sottilmente amaro e tuttavia sorridente. La sua esperienza personale fu caratterizzata da un vivere in penombra, osservando e valutando gli uomini e le cose del suo tempo, temperando le valutazioni istintive con una cultura raffinata, una filosofia fondata sull’equilibrio e sul dominio di sé. Nelle Odi il suo temperamento di lirico è congeniale con la forma ellenistica depurata di ogni eccesso e manierismo neoterico, riportata alle fonti della grande lirica classica greca, della quale egli cerca la limpidezza dell’espressione, mentre fugge i toni impetuosi della fantasia pindarica o della passione saffica. Il mondo delle Satire e delle Epistole è tutto fatto di un ragionare pacato e di un osservare libero, pronto a cogliere i caratteri più singolari degli uomini incontrati nelle circostanze casuali della vita, con intenzione moralistica, ironia e autoironia indulgenti.
L’età di Augusto avvertì con urgenza il bisogno di sintetizzare la storia di Roma e di legarla a sé. Con Tito Livio la storiografia si volse dunque a ripercorrere l’intero passato. La tradizione annalistica, messa in ombra nel secolo di Cesare da una più impegnata storiografia monografica, trovò in lui compiuta espressione ma anche la sua fine. Nei 142 libri dell’opera storica di Livio rivive tutto il passato di Roma, in una visione celebrativa delle virtù romane e in toni narrativi che toccano ora l’epos, ora la lirica, ora la tragedia, senza però rinnegare il fondamentale interesse per la verità di fatti dai quali è scaturito il ‘miracoloso presente’ augusteo.
Con Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio e Ovidio fiorisce l’elegia amorosa, in un’atmosfera che già assume aspetti cortigiani. Tibullo è un sognatore, dalla forma squisita e dalla sensibilità tenera, dolente e malinconica; Properzio è più vigoroso nei suoi slanci appassionati di amore, odio, gelosia; Ovidio, oltre che di elegie amorose, è poeta di miti romanzeschi (Metamorfosi) e storici (Fasti); la sua poesia si adatta alla società mondana in cui visse finché l’esilio non travolse la sua brillante esistenza.
Pienezza di sviluppo ha ormai la letteratura l., coltivata in tutti i campi da uomini la cui provenienza spesso provinciale testimonia la saldatura efficace che l’Impero ha saputo compiere delle sue conquiste. Nel campo del diritto, Antistio Labeone e Ateio Capitone si oppongono con diverse concezioni; la filologia e l’erudizione ha Verrio Flacco e Igino, la scienza architettonica Vitruvio, la geografia Agrippa, la declamazione oratoria, ormai essenzialmente di scuola, ha in Lucio Anneo Seneca padre il suo più autorevole rappresentante. Vario e Ovidio scrivono tragedie e, con essi, Asinio Pollione. La commedia trova un nuovo genere, la trabeata, in cui sono protagonisti personaggi del ceto equestre, mentre la farsa atellana e le varie forme di pantomima dominano nel teatro.
L’età imperiale vide un mutamento sostanziale nel costume di vita, negli ideali e nella mentalità romana. Manlio, Germanico e Fedro, didascalici i primi, favolista e moralista l’ultimo, sono i migliori artisti dell’età di Tiberio (14-37 d.C.). La storia ha cultori piuttosto retorici, come Velleio Patercolo e Valerio Massimo; nelle scienze esatte è importante Celso, nella grammatica Remmio Palemone.
La grande personalità dell’epoca di Claudio e Nerone è Seneca. Uomo di vasta cultura, erudito, scienziato, ma soprattutto filosofo morale, Seneca è personalità di grande rilievo per l’originalità della meditazione etica, tradotta in uno stile ricco di antitesi, dissonanze e artifici retorici: la sintassi spezzata è l’opposto della struttura armonicamente compatta di Cicerone. Nelle Epistulae ad Lucilium è un maestro della psicologia etica, conoscitore profondo della vita interiore, sagace ammonitore. Cicerone poteva ancora pensare alla filosofia morale in funzione di quella politica: al centro della sua riflessione non stava l’individuo ma la civitas; con Seneca il rapporto si rovescia: l’interiorità è l’unico luogo dove gli uomini possono sottrarsi alla inautenticità degli avvenimenti esterni. Seneca compose tragedie, nelle quali portò uno spirito antiteatrale, amplificando i monologhi e le digressioni, rallentando l’azione scenica, rielaborando e disciplinando la forma metrica. Anche in queste tragedie, le uniche rimasteci della letteratura l., vi è una originalità di stile e una retorica nuova, esuberante, declamatoria.
Nello stesso mondo letterario di Seneca vive Persio, autore di sei satire improntate a moralismo intransigente. Lucano, nipote di Seneca, è forse la maggiore figura della poesia latina dell’età imperiale. La sua Guerra civile (o Farsaglia) è il tentativo di andare oltre l’epos virgiliano, legandosi alla storia romana, ricercando nella tragedia della vinta Repubblica un ideale politico e un modello stoico di fermezza morale. Lucano fissa la varietà del verso virgiliano in poche forme, che saranno poi classiche, e usa immagini più che barocche, sfiorando un surrealismo visionario e facendo appello a tutte le possibilità della fantasia (e della retorica) pur di raggiungere il sublime.
Personalità diversa da quella di Lucano ha il contemporaneo Petronio. Nel Satyricon, romanzo misto di prosa e versi su modello greco, l’età neroniana ci dà una delle creazioni più originali della letteratura: satira morale e rappresentazione realistica di un mondo immorale e pittoresco, celebrante un’orgia sfrenata, interrotta solo dal comico, dal ridicolo, dal grottesco. Lo stile petroniano, raffinato nell’uso di tutte le risorse del linguaggio triviale, rustico, imbastardito di greco, e nel mimetismo linguistico che riflette le varie categorie sociali, è creazione di un’intelligenza inesauribile, ironica e lucida.
L’epoca dei Flavi, seguente alla breve ma violenta anarchia del 68-69 d.C., non produce grandi personalità di prosatori e poeti. Importante è Quintiliano, maestro di retorica e teorico di quest’arte, nella sua Institutio oratoria. Moderato e colto, fine giudice di poesie e di stile, pur riconoscendo la grandezza di Seneca è il fautore di un ‘ritorno all’ordine’, al modello ciceroniano. Nella poesia, Valerio Flacco, Silio Italico e Stazio si rifanno al modello virgiliano. Spirito originale è Marziale, il maggiore degli epigrammisti latini e, in questo genere, un classico. La tradizione epigrammatica ellenistica era stata ripresa già dai neòteroi e da Catullo; Marziale si dedica interamente a questo genere e nel vasto corpus delle sue brevi composizioni dà un quadro vivace della società del tempo e il profilo di una Roma cinica e levantina. Nella prosa, oltre Quintiliano, hanno importanza Plinio il Vecchio, storico, filologo, enciclopedico, e Frontino, scrittore di cose militari e di agrimensura, e illustratore degli acquedotti romani.
Concluso il periodo dei Flavi, l’epoca di Traiano (98-117) trova in Tacito la grandezza della migliore letteratura romana. Nello storico è l’amara coscienza di un’età carica di problemi e, pur nella raggiunta potenza senza precedenti, già percorsa da segni di stanchezza. Tacito è amaro; non riesce a comprendere l’Impero e tuttavia ne sente la necessità: nostalgico della vetus res publica, nel suo realismo politico sa che il principato è una realtà inevitabile e che sarebbe anacronistico sperare in un ritorno delle istituzioni repubblicane. Efficace pittore di imperatori tiranni, è nello stesso tempo il testimone più eloquente della forza della costruzione politica romana e della vastità del suo dominio. Il suo stile è difficile, a scorci, rapido, calcolatissimo, senza distensioni ma ad arte spezzato.
La satira luciliana e poi oraziana ha in Giovenale un rinnovatore aspro, violento; vigoroso nello stile, per l’evidenza icastica della rappresentazione e la condensazione espressiva in sententiae, è un artista di qualità e l’interprete di un moralismo che ha le sue radici nel distacco tra la provincia da cui il poeta proviene, e la cosmopolita città. Poeta per indignazione (indignatio facit versum), Giovenale seleziona solo la parte negativa della realtà finendo per vedere negli stessi dei della tradizione ipostasi della decadenza e dei vizi umani. Plinio il Giovane offre nelle sue epistole un prezioso quadro del suo tempo; retore abile, è scrittore garbato e colto.
Con la fine degli Antonini, che in Adriano (117-138) ebbero un raffinato poeta, e in Marco Aurelio (161-180) l’autore, in greco, dei Ricordi, testimonianza della crisi della civiltà classica in un’età investita dalla peste e dalle invasioni barbariche, la letteratura l. decade irrimediabilmente. Mentre il mondo antico è travagliato da spinte irrazionalistiche, dall’avvento di nuove correnti religiose, filosofiche, mistiche, e la speculazione filosofico-religiosa si approfondisce e arricchisce di fondamentali esperienze (nelle quali si prepara l’affermazione del cristianesimo), la retorica trionfa nella prosa e nella poesia; tipico rappresentante della corrente arcaizzante è Frontone; biografo e studioso di letteratura è Svetonio. Fra tutti si distingue, originale figura di filosofo retore e narratore, l’africano Apuleio, inventore di una delle più suggestive avventure romanzesche che ci abbia lasciato il mondo antico, le Metamorfosi, racconto di un viaggio di carattere iniziatico. Il suo stile è classico esempio di artificio, ma giustificato perché congeniale alla sua fantasia.
La massa della produzione letteraria è ormai erudizione o compilazione, scolastica. Tra il 2° e il 3° sec. la filologia ha rappresentanti in Cesellio Vindice, Terenzio Scauro, Velio Longo, Elio Melisso, Sulpicio Apollinare, Acrone, Celso ecc. Sempre viva, anzi al colmo della produzione, la scienza giuridica: Silvio Giuliano e Sesto Pomponio sotto Adriano; Gaio, Cervidio Scevola, Papirio Giusto sotto gli Antonini; Papiniano sotto Settimio Severo; Ulpiano e Paolo sotto Caracalla e Alessandro Severo.
Con Diocleziano (285-305) l’Impero romano ritrova, dopo lungo travaglio di anarchia, un potente centro politico; la scissione amministrativa consente un fiorire di autori provinciali e un rinsanguarsi della tradizione l. attraverso nuove esperienze; si distinguono il cartaginese Nemesiano, e i galli Ausonio e Rutilio Namaziano, poeta della decadenza di Roma (416).
Tra 4° e 5° sec. si avverte anche la ripresa dell’oratoria, con Aurelio Simmaco a Roma, ma soprattutto in Gallia. Claudiano, poeta e panegirista imperiale, conosce tutti gli artifici di un comporre ormai tecnicizzato, di scarsa ispirazione. Storico notevole è Ammiano Marcellino, continuatore di Tacito: interprete di una visione tragica della storia, legge i segni della fine del mondo romano nella ‘ferinità’ dei barbari del Nord. La grammatica, la filologia, e l’erudizione letteraria prosperano: sono di quest’epoca gli scoliasti Donato e Servio, Macrobio, Marziano Capella, Prisciano. Virgilio è il centro intorno a cui si raccoglie la riflessione grammaticale e filosofica di questi epigoni, che trasmetteranno al Medioevo la tradizione classica.
Nel 4° sec., Rufio Festo Avieno e Ausonio rappresentano un certo risveglio del gusto poetico, abili verseggiatori di scolastiche invenzioni. La letteratura pagana mantiene fede ai suoi ideali formali, ma cede ormai in originalità di ispirazione a quella cristiana.
La prima letteratura cristiana adotta il greco della κοινή che è la lingua più diffusa nel mondo ellenistico. La letteratura l. cristiana nasce solo verso la metà del 2° sec., con le prime versioni l. della Bibbia (la Latina vetus, all’interno della quale si è distinta l’Afra e l’Itala), e alcuni atti dei martiri (Acta martyrum Scilitanorum, resoconto di un processo contro i cristiani), opere che già presentano parole e forme sintattiche nuove, le prime per esprimere motivi caratteristici dell’esperienza cristiana, soprattutto nel campo sacramentale e liturgico, mentre le seconde denunciano spesso l’intenzione di rendere in l. costruzioni già in uso nella letteratura cristiana orientale. L’Afra e gli «Atti dei martiri Scilitani» hanno origine nell’Africa romana, dove l’ellenizzazione era meno profonda; ed è questa provincia romana che darà alla cristianità, dal 2° al 6° sec., alcuni dei suoi più grandi scrittori, tra cui Minucio Felice, Tertulliano, Cipriano e Agostino.
Tertulliano, autore di opere prima in greco poi in l., ha uno stile, lontano dai modelli classici, di mirabile vivacità e vigore: l’Apologeticum – decisa affermazione del diritto di piena libertà per i cristiani – fa di lui uno dei più efficaci scrittori ecclesiastici. Diverso nello stile è Minucio Felice, attento ai canoni dell’eleganza classica ciceroniana nell’Octavius, uno dei capolavori della prosa l. cristiana. Altrettanto curato nell’eloquio è Cipriano che, seguendo gli esempi della retorica classica, adotta uno stile grave, forse impersonale ma capace di esercitare quella larga influenza con cui il mondo culturale ecclesiastico si salda alla tradizione della retorica classica. Questa fusione tra cultura classica e cultura cristiana giunge alla sua più matura espressione in Agostino: di vasta preparazione retorica, disciplina della quale fu rinomato maestro, personalità sensibile capace di piegare il l. a esprimere le più intime esperienze umane e i più grandi misteri divini (basti ricordare l’autobiografia Confessiones, il trattato teologico De Trinitate, e il De civitate Dei, grandioso disegno di una filosofia della storia), Agostino, nel desiderio di riscattare tutta la classica educazione enciclopedica, affermerà, con il De doctrina christiana, la necessità dello studio delle lettere antiche e il modo di utilizzarle al servizio dell’educazione cristiana.
Parallelamente al rigoglioso sviluppo in Africa, in tutto l’Occidente la letteratura cristiana si arricchiva tra il 3° e il 5° sec. di scrittori che cooperavano all’innesto del cristianesimo nel tronco della cultura ellenistico-romana. Fra tutti spiccano Ambrogio e Girolamo: il primo così imbevuto di cultura classica da scrivere, sulla traccia del ciceroniano De officiis, il De officiis monachorum, e da inserire nelle omelie e nei trattati esegetici intere pagine di provenienza neoplatonica, sempre con un linguaggio chiaro e sobrio; il secondo, di vasta erudizione, padrone perfetto del l. classico ma pur personalissimo nello stile vivace e tagliente, rappresenta, nel suo dramma interiore tra l’esser ciceroniano e l’esser cristiano, il problema delle prime generazioni di scrittori cristiani. Il suo nome è legato alla versione latina della Bibbia.
Fra il 5° e il 6° sec., con la definitiva decadenza dell’Impero Romano d’Occidente, anche la letteratura cristiana sembra agonizzare, ma riesce ancora a trovare due grandi personalità in Boezio e Cassiodoro, che s’impegnano nell’estremo tentativo di trasmettere ai posteri il residuo patrimonio della cultura antica. Boezio, di cultura prevalentemente filosofica, avrebbe voluto tradurre e commentare tutto Platone e Aristotele, ma poté farlo solo con l’Isagoge di Porfirio e alcuni trattati dell’Organon di Aristotele, opere che, con il commento ai Topica di Cicerone, offrirono al Medioevo, fino al 12° sec., gli unici testi sui quali si potesse fondare lo studio della logica; con questi commenti e con l’Institutio arithmetica e l’Institutio musica, trasmise ampi frammenti della cultura ellenistica greca. Non meno larga fu l’influenza dei suoi scritti teologici e, soprattutto, del suo capolavoro, il De consolatione philosophiae: in quest’opera, adottando l’antico genere della satura, alterna canti e prosa; i primi sono un modello di poema filosofico che nella visione poetica cerca di esprimere l’intuizione speculativa, mentre le prose chiariscono il canto attraverso il discorso filosofico. Cassiodoro, meno originale di Boezio, lo eguaglia tuttavia nel desiderio di salvare e legare alla cultura cristiana l’antica cultura pagana: dopo aver cercato, con papa Agapito, d’istituire a Roma un Didaskalèion simile a quello alessandrino, fondò il monastero di Vivarium, presso Squillace, dove raccolse un gran numero di scritti greci e latini, sacri e profani, istituì scriptoria e collegi di traduttori, e compose egli stesso quelle Institutiones che sviluppano sul piano scolastico e propedeutico il disegno agostiniano del De doctrina christiana.
Con l’opera di Boezio e Cassiodoro tramonta, con quella pagana, la letteratura l. cristiana. Resta tuttavia, veicolo dell’antica cultura, la lingua latina. Ma il l. letterario era una lingua cui mal corrispondeva ormai il l. parlato nelle diverse regioni del distrutto Impero: era una lingua che, per essere letta e scritta, doveva essere metodicamente imparata. Da qui la necessità, proprio alle soglie del Medioevo, di una codificazione linguistica: le Institutiones di Prisciano e le Artes di Donato fecero da fondamento alla latinità medievale. A conservare viva la lingua, ultimo vestigio dell’universalità dell’Impero romano, resterà la Chiesa, erede e conservatrice della cultura antica superstite al momento della definitiva scomparsa dell’organizzazione imperiale. Alle soglie della civiltà medievale, papa Gregorio Magno, malgrado l’ostentata indifferenza per la cultura profana, fu scrittore, ed esercitò, soprattutto con i Moralia e i Dialogi, una larga influenza sulla teologia e sull’agiografia medievali.
La trasmissione delle lettere l. e la scuola palatina. - Dopo Gregorio Magno, nel 7° e 8° sec., l’Italia non ha più nomi illustri, anche se famosi chiostri tennero ancora viva, per tempi futuri, la cultura con gli scriptoria (Bobbio, Civate, Nonantola, Farfa, Montecassino). In Francia, già nel 6° sec., Gregorio di Tours lamentava la generale decadenza degli studi e il venir meno degli scrittori. Una vita culturale di qualche rilievo conserva invece la Spagna, fino ai tempi dell’invasione araba, agli inizi dell’8° secolo. Isidoro di Siviglia cercò di raccogliere e divulgare i classici, rivelando questo sforzo compilatorio nei trattati scientifici e storici e soprattutto nelle Etymologiae, enciclopedia che costituirà uno dei più diffusi strumenti di cultura per tutto il Medioevo.
Un ruolo importante ebbero nella trasmissione delle lettere l., tra il 7° e l’8° sec., l’Irlanda e la Britannia, iniziate alla cultura l. da missionari cristiani: dalla loro opera sorsero numerosi monasteri. Il più illustre tra i missionari irlandesi fu Colombano che, sceso in Italia, vi fondò Bobbio. La Britannia fu convertita al cristianesimo e alla latinità da Adriano e Teodoro, missionari papali, che ebbero per discepolo Adelmo, teologo e grammatico, autore di versi e prose. Più tardi, la cultura inglese ebbe un suo grande esponente in Beda, formatosi nella biblioteca di Jarrow, autore di trattati scientifici e letterari che, per la loro compilazione enciclopedica, furono strumenti essenziali della cultura medievale. Contemporaneo a Beda fu s. Bonifacio, scrittore in prosa e in versi e apostolo del cristianesimo in Germania.
Carlomagno, restauratore dell’Impero, attuò anche una restaurazione della cultura latina. L’Italia, tolta ai Longobardi, gli offrì prima maestri come Pietro da Pisa, grammatico, Paolino d’Aquileia, teologo e poeta, più tardi Paolo Diacono, storiografo ed esperto filologo, oltre che poeta. L’Inghilterra, d’altro lato, diede a Carlomagno Alcuino, il vero artefice della rinascita carolingia. Erede della tradizione culturale anglosassone, trasportò la sua azione dal breve cerchio della scuola di York nel campo immensamente più vasto della rinnovata monarchia franca; organizzò e diresse la scuola palatina rendendola mirabile cenacolo di cultura. La produzione di Alcuino non è originale, ma indica l’ideale che animò tutta la sua opera: la restaurazione del gusto per le lettere antiche. Ad Alcuino si deve la nuova definizione dei programmi di studio sulla base delle sette arti liberali, divise allora in trivio e quadrivio. La crisi del Sacro Romano Impero dopo la morte di Carlomagno non arrestò il moto culturale: e se scarsi sono i poeti e gli storiografi, molti furono i polemisti e teologi (da Rabano Mauro a Gotescalco, Incmaro, Ratramno di Corbie, Valafrido Strabone e, massimo fra tutti, Giovanni Scoto Eriugena).
La cultura europea nel 10° e 11° secolo. - Il 10° sec. rappresentò una stasi nella storia della cultura europea; tuttavia ormai in Francia come in Germania erano accesi focolai di cultura. In Italia, dove le scuole sono restaurate per opera di Lotario II ed Eugenio II, la letteratura riprende timidamente i suoi passi, limitandosi, in un primo momento, al campo della storiografia; solo nell’11° sec. si ha un notevole sviluppo della cultura: dal lessico di Papia ai trattati musicali di Guido d’Arezzo, alle nuove scuole di retorica che hanno un’adeguata espressione in Anselmo di Besate, fino a grandi temperamenti di teologi e di scrittori come Pier Damiani, Lanfranco di Pavia, Anselmo d’Aosta.
Più notevole la vita intellettuale tra la fine del 9° e l’11° sec. in Germania e in Francia. In Germania, dopo Rabano e Gotescalco, sono attivi il filologo Ermenrico di Ellwangen, lo storico Reginone di Prüm, il maestro e scrittore Notkero Balbulo, il Monaco di S. Gallo, autore di una curiosa biografia aneddotica di Carlomagno; e più tardi, sotto l’impero rinnovato degli Ottoni, fioriscono teologi, storici come Widukindo di Corvei, poeti come Eccheardo di S. Gallo, Fromondo di Tegernsee, e la monaca Rosvita di Gandersheim che, oltre a versificare curiose e romanzesche leggende di santi, tentò l’epopea storica e (caso senza precedenti) il dramma, cercando di infondere nelle forme antiche (Terenzio) uno spirito nuovo (vite dei santi e dei martiri). La Francia, dopo Incmaro e Lupo, ebbe altri illustri letterati (Enrico d’Auxerre e il suo discepolo e continuatore Remigio, autore di commenti grammaticali, letterari, teologici), poeti come Ubaldo di S. Amando, Abbone di S. Germano (che celebrò epicamente la difesa di Parigi contro i Normanni) e Raoul di Caen, allievo di Arnolfo di Rohes, che cantò su modelli virgiliani le gesta di Tancredi alla prima crociata. Più tardi Gerberto d’Aurillac a Reims e Fulberto a Chartres segnano un nuovo periodo di rinascita delle scuole e dell’insegnamento. Dalla metà dell’11° sec. la Francia riprende anche l’iniziativa filosofica e teologica, attraverso la controversia berengariana, la polemica delle investiture, il problema degli universali. A questo nuovo movimento intellettuale prenderà presto parte tutto l’Occidente.
Il Rinascimento del 12° secolo. - Il 12° sec. presenta un notevole allargarsi dell’orizzonte culturale, un crescente interesse per i classici antichi, un nuovo ardore di ricerche speculative sia nel campo teologico sia in quello delle scienze naturali, in relazione anche agli intensificati rapporti con l’Oriente; a questo movimento intellettuale si uniscono il moltiplicarsi e lo specializzarsi delle scuole, uscite dai monasteri e sorte nel nuovo ambiente cittadino, che ampliano i programmi d’insegnamento, superando l’ormai insufficiente regime scolastico fondato sulle sette arti liberali. Si allarga l’insegnamento della grammatica e della retorica con un più attento studio degli auctores; se Donato e Prisciano sono i maestri di grammatica, gli exempla si attingono direttamente ai classici: Virgilio, Ovidio, Cicerone, Quintiliano. Su questi auctores nasceranno le nuove grammatiche, il Doctrinale di Alessandro di Villedieu (1190) e il Graecismus di Everardo di Béthune (1212), come le poetiche, tra le quali soprattutto celebre l’Ars poetica di Matteo di Vendôme, maestro a Orléans. L’attenzione rivolta alle voci dell’antichità classica (e non solo latina, ma anche greca, allora scoperta tramite le versioni che dall’Italia meridionale, dalla Sicilia e dalla Spagna si diffondevano rapidamente in Europa) pesa spesso sulla letteratura l. del 12° sec.; tuttavia essa seppe aprire nuove vie e dare opere originali alla storia della cultura.
Mentre già nascono le letterature volgari, la poesia l. si afferma egregiamente nell’opera di Ildeberto di Lavardin, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla, come negli inni religiosi degli ambienti monastici, nei componimenti giocosi e satirici dei goliardi, nella cosiddetta ‘commedia elegiaca’. Lo sconsolato amore di Ildeberto per l’antica Roma e la fedeltà ai modelli classici faranno attribuire la sua poesia ad autori antichi; Bernardo Silvestre e Alano di Lilla, riprendendo il genere letterario già adottato da Boezio nel De consolatione, alternano i versi alla prosa, impegnandosi in componimenti dove la cultura filosofica e teologica dell’epoca viene trasfusa in un linguaggio poetico spesso efficace e originale. Dall’ordine di Cluny nascono poesie religiose di grande impegno, mentre il Primate e gli anonimi goliardi cantano la natura e la spensierata vita giovanile, adottando metri rapidi e leggeri, di tradizione classica.
In Francia l’epistolografia ebbe maestri famosi, primo tra tutti Pietro di Blois, e la storiografia fu rinnovata nei suoi intenti e nelle sue forme, come si vede nei Gesta Dei per Francos di Guiberto di Nogent, nell’Historia rerum in partibus transmarinis di Guglielmo di Tiro, nella storia normanna di Orderico Vitale. Di formazione tutta francese è Giovanni di Salisbury, che rielabora l’ideale ciceroniano del congiungimento di eloquentia e scientia all’interno di un classico e cristiano ideale di perfetta sapientia.
Non restano estranei a questo rinnovamento letterario gli ambienti monastici (i trattati e i sermoni di Bernardo di Clairvaux e Gugliemo di Saint-Thierry); ne sono aspetto non secondario le nuove opere filosofiche, soprattutto quelle legate all’ambiente della scuola di Chartres (Thierry di Chartres e Guglielmo di Conches), dove preciso e sottolineato è il rapporto tra scientia ed eloquentia, come anche l’opera di Abelardo (oltre ai versi e alle famose lettere scambiate con Eloisa) e quella, vasta e complessa, dei traduttori dal greco e dall’arabo di testi scientifici e filosofici.
Anche in Inghilterra e in Germania pulsa una notevole vita culturale: tra gli Inglesi, oltre a Giovanni di Salisbury e Adamo di Petit-Pont che, grammatico famoso, visse e insegnò a Parigi, si ricordano Guglielmo di Malmesbury, Alessandro Neckam, Nigello Wireker, Giuseppe d’Exeter, Goffredo di Monmouth, Gualtiero Map, Giraldo di Cambrai: autori di opere teologiche e morali, filosofiche e scientifiche, politiche e storiche, di poesie epiche, didattiche, liriche, satiriche. In questa ricca e complessa letteratura si ritrova lo stesso spirito che in Francia. In Germania le nuove correnti di pensiero che muovevano dalla Francia incontrarono l’opposizione intransigente degli ambienti monastici, ma trovarono anche facile accesso tra gli intellettuali più vigili, guadagnando collaboratori geniali come Ugo di S. Vittore, suscitando interpreti originali come Ottone di Frisinga. Ai modelli francesi guardavano intanto anche i poeti: gli autori del poema epico sulle guerre lombarde (Ligurinus) e del dramma liturgico sull’Anticristo, e il grande lirico goliardico soprannominato l’Archipoeta.
- In Italia il movimento intellettuale del 12° sec. assunse un carattere diverso che in Francia, a causa del contesto storico che vedeva le energie impegnate nella lotta tra Impero e Chiesa, tra comuni e principi feudali. Le grandi scuole seguirono prevalentemente indirizzi pratici; agli studi filosofici, letterari, scientifici, preferirono gli studi medici, giuridici, retorici. Salerno era già famosa scuola di medicina; Bologna diveniva rapidamente la grande e dotta madre del diritto. Nel suo complesso, la letteratura l. corrispose pienamente ai caratteri della cultura italiana: pratici, realistici, borghesi. La poesia, ben lontana in Italia dalla multiforme varietà ch’ebbe oltralpe, si limitò a narrare fatti storici, generalmente contemporanei, con intento politico. Fa eccezione Arrigo da Settimello che, con un linguaggio poetico ricco di reminiscenze classiche, canta della traditrice fortuna e della consolatrice filosofia in un poema (Elegia) destinato a un largo successo per oltre due secoli; tutti gli altri poeti più notevoli, dall’anonimo pisano che compose l’ardente ritmo del 1088, all’elegante e immaginoso Pietro da Eboli, sono dominati dall’interesse storico-politico. La storiografia in versi fu inferiore alla storiografia in prosa, la quale ebbe nel Settentrione scrittori quali Caffaro, Ottone e Acerbo Morena, nel Mezzogiorno Ugo Falcando e Romualdo di Salerno. Il Mezzogiorno prese parte alla vita intellettuale italiana ed europea con nomi di spicco come Gioacchino da Fiore, e fu di fondamentale importanza come ponte tra la cultura greco-araba e l’Occidente.
Il 12° sec. nel suo insieme rappresenta l’epoca che più d’ogni altra nel Medioevo amò l’antichità classica, per questo si è potuto parlare da parte di molti storici di ‘Rinascimento del 12° secolo’.
Il Duecento, che per il progresso del pensiero teologico, scientifico e giuridico, e per l’interesse verso i filosofi antichi, appare diretta prosecuzione del secolo precedente, non gli fu pari nel gusto letterario e nello studio di quell’eloquentia che Giovanni di Salisbury aveva rivendicato quale elemento essenziale della sapientia. Nel 13° sec., via via che si diffondevano le traduzioni di Aristotele e dei suoi commentatori greci e arabi, passavano in secondo piano gli studi letterari: nasceva un tipo nuovo di cultura, che si esprime nel l. scolastico e trova il suo fondamento nello studio della filosofia aristotelica. La stessa grammatica perde il suo significato letterario per divenire ‘grammatica speculativa’, tutta impregnata di logica formale. Questo processo, delineatosi verso la fine del 12° sec., si compie nel 13° sec.: la grammatica è via via assorbita dalla logica in vista di una filosofia del linguaggio che abbandona completamente lo studio dell’ornatus, come testimoniano i numerosi trattati De modis significandi scritti nel 13° e 14° sec., tra cui notevoli quelli di Martino di Dacia, Boezio di Dacia, Tomaso Occam, fino alla Summa modorum significandi di Sigieri di Courtrai e alla Grammatica speculativa di Tommaso di Erfurt. Con la decadenza degli studi grammaticali e letterari, con l’imporsi della dialettica aristotelica, anche gli scritti teologici si staccano definitivamente dal tipo patristico, ricco di eloquenza, per assumere quella nuova forma che trionfa nelle Summae e nei commenti alle Sententiae di Pietro Lombardo. Questo complesso cambiamento, caratteristico soprattutto della cultura francese, non avveniva senza provocare reazioni da parte di chi più sentiva il valore letterario dell’antichità classica, come Ruggero Bacone, che non cessò di insistere sul nesso inscindibile tra eloquentia e sapientia, e Giovanni di Garlandia, che nella Morale scholarium (1241) lamenta la decadenza a Parigi dello studio dei classici auctores.
Se questo è l’orientamento di molta parte della cultura del 13° sec., impegnata in un poderoso sforzo di iniziativa teologica che portò anche, si è accennato, a un nuovo stile l., non mancano tuttavia opere di notevole interesse letterario, particolarmente in Italia, ormai in pieno sviluppo culturale e rappresentata da maestri di scienze giuridiche (glossatori civilisti che continuano la tradizione bolognese, fino ad Azzone, ad Accursio e alla scuola degli accursiani; glossatori canonisti, interpreti del Decreto e delle Decretali, da Uguccione da Pisa a Innocenzo IV e all’Ostiense), di retorica (Boncompagno da Signa e i dettatori di Bologna), di filosofia (Bonaventura di Bagnorea e Tommaso d’Aquino), di scienze (il medico Guglielmo da Saliceto, il matematico Leonardo Fibonacci, l’astrologo Guido Bonatti). Ma l’Italia fiorì soprattutto per la ricca produzione letteraria l., mentre già si affermava la prima letteratura volgare. Ebbe nella prosa moralisti come Albertano da Brescia, agiografi come Iacopo da Varazze, storici quali Rolandino di Padova, Riccardo di S. Germano, Saba Malaspina, Giacomo Doria, Riccobaldo di Ferrara, e il più personale e vivo di tutti, fra Salimbene di Parma; tra i dettatori si distinse il raffinato Pier delle Vigne. Notevole nel Duecento italiano è la poesia l.: la tradizione della poesia epico-storica si continuò con i poemi di Stefanardo da Vimercate e Orso genovese, di Quilichino di Spoleto, con i carmi trionfali parmigiani del 1248 e con altri ritmi. Ci fu anche chi trasse da giocose novelle commedie elegiache (Riccardo di Venosa), chi dettò in versi precetti morali e politici (Bonvesin de la Riva, l’autore del Facetus, Orfino di Lodi), chi compose satire e canzoni goliardiche (Buoncompagno, Morando da Padova), chi levò cantici (Tommaso da Celano e Iacopone da Todi), varietà sconosciuta all’Italia dei secoli precedenti. Tale poesia, sebbene di qualità non molto alta, attesta comunque fra i dotti italiani, non tutti chierici, anzi in gran parte laici (giudici e notai), un persistente interesse poetico, destinato a dar presto migliori frutti. Dalla scuola padovana, ricondotta da Lovato de’ Lovati al culto dei classici, uscì infatti, tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, il precursore dell’Umanesimo, Albertino Mussato, insigne prosatore ma soprattutto poeta, che tentò di risuscitare nell’Ecerinis l’arte del Seneca tragico per rappresentare uomini e fatti di un passato cruento. Discepoli del Mussato, direttamente o indirettamente, possono considerarsi gli storici Ferreto de’ Ferreti e Giovanni da Cermenate, il poeta Giovanni del Virgilio che cercò di indurre Dante alla poesia latina. Dante vi si cimentò, avendo già scritto in l. trattati in prosa, tra i quali il De vulgari eloquentia e la Monarchia possono chiudere la letteratura l. medievale. Contemporaneamente infatti le lingue volgari si erano dappertutto affermate come nuovo strumento d’espressione artistica e giungevano ai più alti livelli anzitutto in Italia, che pure al volgare era arrivata più tardi rispetto ad altri paesi europei. Il l. resterà ancora lingua dotta, sia presso gli umanisti, sia soprattutto e più a lungo nelle università, nelle accademie, nella Chiesa, nelle relazioni diplomatiche.