Generale romano, triunviro, dittatore (Roma 100/102 - ivi 44 a. C.). Nato da nobile famiglia romana, fu bandito da Silla; prestò servizio nelle province dell'Asia Minore tra l'81 e il 78, fu questore nel 70, edile nel 65, pontefice massimo nel 63, pretore in Spagna nel 62. A Roma nel 60 a. C. costituì il primo triumvirato con Pompeo e Crasso. Console nel 59, conquistò la Gallia. Invitato dal Senato a deporre l'imperium, marciò contro Pompeo nel 49. Sconfitti gli avversari in Spagna, vinse anche la battaglia di Farsalo, in Tessaglia (48). Passato in Egitto, debellò i pompeiani in Africa a Tapso (46) e a Munda (45). Tornato a Roma, nominato dittatore, fu ucciso in una congiura il 15 marzo del 44 a. C. mentre si accingeva ad una spedizione militare in Oriente.
I suoi nobili natali sono derivati dall'appartenenza alla gente Giulia, mentre della sua data di nascita non vi è certezza. Nipote di Mario e genero di Cinna, di cui aveva sposato la figlia Cornelia, fu messo al bando da Silla. Si segnalò nell'assedio di Mitilene e partecipò con Servilio alla campagna contro i pirati nel 78. Morto Silla, si mise in vista con processi clamorosi contro note personalità, poi si recò a Rodi a studiare retorica. Cadde prigioniero dei pirati, fu liberato, e dopo averli puniti con un'audace spedizione, partecipò alla terza guerra mitridatica. Appoggiò Pompeo (del quale divenne poi cognato, nel 67, sposando Pompea) e Crasso nella loro opera di demolizione della costituzione sillana. Fu questore in Spagna nel 70, edile nel 65, pontefice massimo nel 63. Avverso all'oligarchia dominante di cui ben conosceva, non senza esserne partecipe egli stesso, la corruzione e i dissensi e disprezzava l'incapacità di governo, non fu estraneo ai preparativi rivoluzionarî di Catilina, ma, prevedendone il fallimento, se ne separò in tempo, pur cercando poi di salvare i congiurati dalla pena di morte. Nel 62 fu pretore e nel 61 propretore in Spagna dove si arricchì a spese dei sudditi non meno di altri governatori di quel tempo e fu così in grado di pagare i debiti di cui anch'egli era oberato. Sulla via ormai di divenire uno tra i più potenti uomini politici di Roma, si accordò nel 60 (cosiddetto primo triunvirato) con due maggiorenti i quali per le loro ricchezze e per il credito acquistato con le loro vittorie aspiravano a una superiorità che da altri più ligi alle tradizioni repubblicane era contrastata, Pompeo (il quale sposò la figlia di C., Giulia) e Crasso. I tre dominarono effettivamente, sebbene illegalmente, la repubblica. C. fu eletto console per il 59. Fece approvare una legge agraria che ordinava la distribuzione delle terre ancora disponibili. Mediante un plebiscito ebbe il comando militare della Gallia Cisalpina e dell'Illirico, cui il Senato aggiunse la Gallia Narbonense. In Gallia intervenne subito contro gli Elvezi che minacciavano la provincia romana, vincendoli a Bibratte (58), e contro il principe germanico Ariovisto, che si era stabilito nella Gallia, costringendolo a ripassare il Reno. Nel 57 vinse i Nervi e sottomise il paese dei Belgi. Nel 56 sottomise i Veneti dell'Aremorica e mentre il suo luogotenente Publio Crasso, figlio del triunviro, occupava l'Aquitania, sconfisse i Morini e i Menapi, portando a termine l'occupazione del Belgio. Nel 55 disperse i Tenteri e gli Usipeti, e per compiere un'azione dimostrativa contro i loro alleati fece costruire un ponte sul Reno, attraversò il fiume, devastò il paese dei Sigambri e quello degli Ubi. Si volse quindi alla Britannia organizzando due spedizioni nel 55 e nel 54 ma trovò fiera resistenza. Tornato in Gallia, dovette fronteggiare le agitazioni organizzate specialmente da Ambiorige, capo degli Eburoni, e contro di lui dovette condurre una guerriglia sfibrante e sterile. La ribellione raggiunse il suo culmine nel 52, sotto la guida di Vercingetorige. C. prese Avarico, fallì davanti a Gergovia, ma dopo aver costretto Vercingetorige a rifugiarsi ad Alesia, ve lo assediò e mediante un'azione militare genialissima lo vinse e lo mandò prigioniero a Roma. Quindi, con azioni risolutive contro i popoli non ancora soggiogati, compì l'opera di conquista della Gallia. Il triunvirato con Pompeo e Crasso, rinnovato nell'accordo di Lucca (56), si era sciolto con la morte di Crasso (53), e Pompeo, approfittando dell'assenza di C., era di fatto padrone di Roma. Quando C., alla fine della guerra gallica, pose la candidatura al consolato, Pompeo pretese che C. fosse presente a Roma dopo aver deposto l'imperium. C., che non voleva mettersi in tal modo alla mercé di Pompeo, si preparò al conflitto armato. Dichiarato nemico pubblico, varcò al Rubicone il confine dell'Italia (genn. 49), violando la legge che vietava la presenza in Italia di magistrati investiti di imperium provinciale. In sostanza, C. voleva avere sotto mano le sue fedeli legioni nell'atto di farsi deferire il consolato, mentre ciò non poteva essere consentito da Pompeo il quale, pur volendo primeggiare nello stato, teneva lontane nella Spagna le sue legioni e mirava così ad assicurarsi una specie di principato legale che molti oligarchici erano propensi ad accettare. Ma appunto per questo egli si trovò in Italia disarmato di fronte a C. Questi con una legione avanzò con tanta rapidità che Pompeo vide impossibile ogni resistenza e si ritirò in Grecia. Occupata Roma e l'Italia, C. conquistò l'alleata Marsiglia che, fedele al Senato, gli aveva rifiutato obbedienza, domò in Spagna le legioni di Pompeo comandate da Afranio e Petreio. Si volse quindi contro Pompeo che aveva organizzato in Oriente un esercito notevole, ma non agguerrito e omogeneo come quello di C.; non è quindi meraviglia se dopo alterne vicende C. riportò su Pompeo la decisiva vittoria di Farsalo (48); Pompeo fu poi assassinato in Egitto dove aveva cercato scampo. Recatosi ad Alessandria, C. pose sul trono di Egitto Cleopatra, vinse Farnace II nel giro di 5 giorni (veni vidi vici) presso Zela (47). Lasciato in Italia magister equitum Marco Antonio, sbarcò in Africa dove i Pompeiani, alleatisi a Giuba I di Numidia, si mostravano minacciosi e nonostante l'inferiorità delle forze li vinse a Tapso (46): Labieno, ex cesariano, e i figli di Pompeo fuggirono in Spagna; i maggiori esponenti della fazione e Giuba perirono, Catone si diede la morte. A Munda (45) vinse Gneo Pompeo, figlio del Grande. Padrone ormai dello stato, attese con eccezionale sagacia ed energia a riordinare la cosa pubblica e, soprattutto, a consolidare nello stesso tempo l'autorità centrale e le autonomie locali. Dopo la battaglia di Farsalo ebbe la dittatura a tempo indeterminato, il consolato per 5 anni, la potestà tribunizia a vita, per tre anni tenne la praefectura morum, dopo la vittoria di Munda ricevé dal Senato il titolo di imperator: questa somma di poteri civili e militari configurava il suo governo come una monarchia. Riordinò lo stato con una serie di leggi, completò a sua posta il Senato, dedusse colonie, distribuì terre ai suoi veterani, riformò il calendario, disegnò audaci progetti urbanistici in Roma. Desideroso di pacificare gli animi, amnistiò i nemici; adottò Ottavio, il futuro Augusto. Quali che fossero i suoi concetti definitivi intorno alle forme da dare al suo governo, certo è, e a nessuno sfuggiva, che egli intendeva conservare e trasmettere a un successore la pienezza dell'autorità che era nelle sue mani. E questo spiega il contrasto in cui si trovavano con lui tutti coloro, ed erano molti, che per motivi diversi rimanevano attaccati alla tradizione della libertà repubblicana. Formatasi una congiura di circa 60 senatori, capeggiati da Bruto e da Cassio, fu ucciso con 23 colpi di pugnale nella Curia Pompeia davanti alla statua di Pompeo alle idi di marzo del 44 a. C. Ma se molti dei disegni di C. perirono con lui, una gran parte della sua opera gli sopravvisse: anzitutto la concessione della cittadinanza ai Transpadani, per cui l'Italia nel senso politico raggiunse effettivamente il confine delle Alpi, poi la conquista della Gallia e l'avvio alla piena integrazione dei Galli nel mondo Romano (per es., esercito, vita pubblica), che fece di questo paese un centro e un baluardo della civiltà latina. Infine con la rapidità, arditezza, organicità della sua opera di legislazione e di governo, egli mostrò i vantaggi che poteva avere Roma dall'abolizione dell'oligarchia senatoria alla quale si doveva il malgoverno di cui soffrivano la città e l'Impero, e in tal modo agevolò al suo erede e successore Ottaviano la via che lo condusse al principato. Il suo ritratto ci è noto sia dalle monete, sia da alcune teste marmoree (Pisa, Camposanto, Vaticano, Berlino, Napoli, Castello di Agliè), e dalla statua loricata nel Palazzo Senatorio a Roma; tutte presentano un volto magro, ossuto, con incipiente calvizie, sbarbato. La figura di C. ha ispirato numerosi artisti e opere d'arte d'ogni tempo, specie di teatro.
C. fu anche eccellente scrittore, libero da modelli, guidato solo dal suo genio. Si citano di C. giovane un poemetto Laudes Herculis, una tragedia Oedipus, altre poesie leggere; più tardi (46 a. C.), durante la marcia da Roma a Munda compose un poemetto d'impressioni di viaggio: Iter. Raccolse anche modi di dire arguti (Dicta o Apophthegmata). Dell'oratoria, tutta politica, di C., molto ammirata dai suoi contemporanei ed esaltata da Cicerone stesso e dopo da Quintiliano e altri, non resta niente. Si occupò anche di teorie linguistiche nel trattato De analogia, del 54, dedicato a Cicerone, in due libri; vi insegnava che base di ogni eloquenza è la scelta delle parole e che bisogna fuggire le parole insolite; principio basilare ne era la ratio, l'analogia degli Alessandrini. Importante doveva essere l'Anticato, finta orazione giudiziaria in risposta al panegirico di Cicerone per Catone morto. Delle lettere di C. abbiamo solo alcuni saggi nella collezione delle lettere ciceroniane: brevi, limpide, concise. Grave soprattutto è la perdita delle relazioni al Senato sulle operazioni in Gallia. I Commentarii de bello Gallico, composti rapidamente nell'inverno 52-51, e quelli de bello civili dovrebbero essere, come dice la parola commentari, semplice raccolta di materiale per storici e poeti futuri; ma già Cicerone giudicandoli dal punto di vista letterario, li diceva nudi, recti, venusti, aggiungendo che C. aveva tolto al futuro storico la possibilità di raccontare quei fatti meglio di lui. Il carattere evidentemente apologetico di essi rende necessarie delle riserve sulla verità del contenuto, specialmente per i Commentarii de bello civili. Il Bellum Gallicum dà in 7 libri il racconto degli anni di guerra dal 58 al 52: dalla spedizione contro gli Elvezi fino alla vittoria definitiva. Il Bellum civile in tre libri dà il racconto dei fatti dal 49 al 48: dal Rubicone ad Alessandria. Ufficiali di C. completarono l'opera: Aulo Irzio scrisse un ottavo libro del Bellum Gallicum comprendente gli avvenimenti del 51 e del 50, sforzandosi di seguire nello scrivere la maniera di C.; non lontano da lui (e secondo i più, ora, da identificarsi con lui) è l'autore del primo dei tre scritti in continuazione del Bellum civile contenenti gli eventi di guerra degli anni 47, 46, e 45: Bellum Alexandrinum, Bellum Africanum, Bellum Hispaniense (incompleto). Gli autori degli altri due, ignoti, sono molto inferiori per pregi di lingua e di stile.