Tattica di guerra, condotta, con specifica conoscenza delle condizioni ambientali, da parte di formazioni di limitata entità, per lo più irregolari, contro le truppe regolari dello stesso Stato o di uno Stato estero; si sviluppa con imboscate, attentati, sabotaggi, attacchi di sorpresa e conseguenti brevi scontri, generalmente effettuati in zone montane, boscose o impervie, particolarmente favorevoli allo spostamento rapido di piccole formazioni. La g. è conosciuta e praticata sin dall’antichità. In talune circostanze ha svolto funzioni ausiliarie rispetto alle operazioni convenzionali condotte da forze regolari. In altre, quando uno Stato, o comunque una delle parti in lotta, era troppo debole per combattere direttamente l’avversario, la g. ha assunto importanza centrale sia per la difesa dell’indipendenza di paesi occupati da eserciti stranieri, sia come braccio armato di una guerra civile o rivoluzionaria o di liberazione nazionale, mirante a rovesciare il governo in carica e a modificare gli assetti politici e sociali esistenti. Il termine g., o ‘piccola guerra’, si diffuse con la resistenza spagnola all’occupazione napoleonica. La g. ha avuto poi notevole fortuna nel 20° sec., a partire dall’insurrezione araba contro il dominio turco (1916-18) e si è sviluppata con la resistenza contro l’occupazione tedesca in Europa e, con obiettivi diversi, nelle guerre rivoluzionarie e di liberazione nazionale condotte sia nell’Est e nel Sud-Est asiatico, sia nelle colonie europee, sia in America Latina, a partire da Cuba.
La g. serve a evitare il combattimento diretto con le superiori forze avversarie e a estendere la lotta nello spazio e nel tempo. Nello spazio, punta a far frazionare le forze nemiche sul territorio, obbligandole a difendere tutti i punti sensibili. Con ciò determina condizioni favorevoli alla realizzazione di superiorità locali, che le consentono di colpire il nemico con piccoli ma violenti attacchi effettuati di sorpresa, seguiti da rapidi sganciamenti e ripiegamenti in zone rifugio o fra la popolazione civile. Nel tempo, la g. mira a prolungare la lotta per logorare l’avversario anche psicologicamente e diminuire il consenso politico alla prosecuzione della controguerriglia: viene utilizzata in questo modo la dissimmetria esistente fra le forze della g., che combattono per obiettivi che considerano vitali per la propria sopravvivenza e per la conquista del potere politico, e quelle della controguerriglia che, specie in caso d’interventi al di fuori del territorio nazionale, hanno minore capacità di tenuta psicologica e politica, perché si battono per interessi che non considerano vitali. Alla g. generalmente partecipano sia forze reclutate localmente, sia piccoli nuclei di forze regolari destinate a operazioni specialistiche e che ne costituiscono l’ossatura tecnica; è sempre collegata con un’organizzazione politica clandestina, che ne costituisce l’infrastruttura logistica, e con fonti di informazioni.
Le tecniche belliche sono quelle proprie delle operazioni di guerra non convenzionale, per molti versi simili alle operazioni delle forze speciali; caratteristica della g. è che essa può procedere sia attraverso un innalzamento sia attraverso un abbassamento del livello di violenza e della consistenza delle azioni. Ciò è avvenuto nel caso della resistenza palestinese nei territori occupati, passata al terrorismo dopo il fallimento della g. nel 1967-1968. Fondamentale è il sostegno della popolazione. Qualora il sostegno attivo non sia realizzabile, viene ricercato almeno un sostegno passivo, anche attraverso atti terroristici, per evitare delazioni.
Le operazioni di g. non si prefiggono in via prioritaria né di occupare territori, né di distruggere le forze nemiche. Scopo essenziale della g. è non essere distrutta. Priva dello spazio istituzionale e territoriale, controllato dal nemico, deve recuperare uno spazio sociale sufficiente per guadagnare tempo. La g. provoca sempre enormi sofferenze, distruzioni e perdite fra la popolazione, maggiori di quelle delle operazioni convenzionali e produce effetti politici e psicologici dannosi anche quando l’esito è vittorioso, perché abitua alla violenza e destabilizza per lunghi periodi le società che vi fanno ricorso.
Nelle città la g. ha caratteristiche diverse da quelle che ha nelle campagne. La grande concentrazione non solo di cittadini, ma anche di forze di polizia e militari, garantisce al governo una copertura informativa pressoché completa e quindi non è possibile costituire in città consistenti reparti di guerriglieri, che verrebbero rapidamente scoperti. Possono agire solo piccoli nuclei clandestini o, al limite, singoli guerriglieri, che adottino tattiche e tecniche analoghe a quelle del terrorismo, che colpiscano obiettivi non solo militari, quali sono prevalentemente quelli della g. rurale, ma anche civili. La g. urbana può conseguire notevoli successi propagandistici, perché sfida le forze governative od occupanti nei loro centri di potere e perché i suoi attentati diretti contro obiettivi di valore simbolico ottengono una notevole amplificazione attraverso i media, ma non ha mai conosciuto grandi successi. In alcuni casi, tuttavia, ripetute azioni di g. urbana (come gli attentati dell’IRA, dell’ETA ecc.) hanno determinato effetti di destabilizzazione, logorando e indebolendo la credibilità e il prestigio del governo o delle forze di occupazione. In sostanza, è assimilabile al terrorismo come effetti, tattiche e tecniche e non può conseguire risultati decisivi.
Le forze regolari hanno avuto sempre difficoltà ad adeguarsi alla lotta contro i movimenti di g., che non consentono loro di esprimere appieno la potenza di cui dispongono. Una seconda difficoltà deriva dall’esigenza di uno strettissimo coordinamento tra i responsabili militari e quelli politici e amministrativi. Le stesse operazioni militari di controguerriglia non conseguono i risultati sperati soprattutto perché i loro effetti di distruzione e di disorganizzazione delle forze della g. sono temporanei e perché l’uso anche vittorioso della forza può provocare reazioni negative nella popolazione e nell’opinione pubblica interna e internazionale. Esiste poi una fortissima dissimmetria fra l’entità delle perdite e delle distruzioni che i guerriglieri sono disposti a subire, nonché il livello di violenza che possono impiegare, da una parte, e l’entità delle perdite considerate accettabili dalle forze governative, militari e di polizia, dall’altra. I guerriglieri sono estremamente motivati, se non fanatizzati, le forze della controguerriglia sono invece molto più sensibili all’entità delle perdite, soprattutto se sono forze di occupazione e non vedono coinvolti nella lotta interessi vitali del proprio paese. Ciò può determinare il venir meno della volontà politica di continuare la lotta. Infine, il tempo e lo spazio hanno per le forze regolari un significato completamente diverso da quello che rivestono per le forze della g., la cui strategia si basa sul rifiuto dello scontro decisivo e sulla ‘lunga durata’.
L’estensione del termine g. dal linguaggio della tattica a quello della politica non manca di produrre pregiudizi ed equivoci. Uno riguarda l’idea che la g. sia per antonomasia ‘l’arma dei poveri’. In realtà, vi hanno fatto ricorso anche le grandi potenze; sia direttamente, in caso d’invasione del proprio territorio (la Russia nel 1812 e nel 1941-44, e come prevedevano i piani della NATO in caso d’invasione sovietica), sia indirettamente, sfruttando o favorendo insorgenze in territori esterni. Un altro pregiudizio riguarda il carattere ‘popolare’ della g., senza considerare che la sua natura resta necessariamente settaria e non democratica, anche quando conquista il sostegno popolare e si batte per una causa democratica. Popolari e democratiche sono la guerra regolare e la difesa contro la g., perché dipendono dal consenso attivo e dalla mobilitazione militare e civile della nazione. Formate da pochi quadri e selezionate dalla stessa g., le forze partigiane operano invece in ambienti almeno inizialmente ostili, cui impongono (spesso con il terrore) un consenso passivo e che a volte usano freddamente come scudi umani, speculando sulle rappresaglie indiscriminate. Lo scopo della g. non è infatti quello di mobilitare masse che non si potrebbero armare né nutrire, e che incrementerebbero la vulnerabilità, bensì di sabotare la mobilitazione decretata dal nemico.