Ente dotato di potestà territoriale, che esercita tale potestà a titolo originario, in modo stabile ed effettivo e in piena indipendenza da altri enti.
Lo S. può definirsi come organizzazione di una comunità, in grado di prendere delle decisioni, in ultima istanza sovrane, in nome della comunità, sia nei confronti dei membri o dei gruppi interni a essa, sia nei confronti di altre comunità. Tuttavia il concetto e il termine stesso di S. sono relativi a una particolare strutturazione del potere politico, come meccanismo centralizzato di sovranità territoriale, che in quanto tale appartiene a un’esperienza storica che si forma e si evolve in tempi relativamente recenti, a partire grosso modo dal 16° secolo. Nulla di veramente paragonabile a ciò che definiamo comunemente come S. è possibile rinvenire in epoche precedenti, nonostante l’applicazione che si è soliti fare di questo termine anche con riferimento a esse.
Nella cultura ellenica non esiste lo S., esiste solo la pòlis come dimensione al tempo stesso sociale e politica della vita di relazione. L’uomo è uomo in quanto ‘politico’, cioè in quanto vive in simbiosi con la propria pòlis, altrimenti è ‘idiota’, ovvero un essere difettivo, che manca di qualcosa di vitale, il vivere in koinonìa, associato in comunità. Il tema della pòlis come naturale orizzonte della vita dell’individuo è al centro del discorso di Pericle, nel secondo libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Con la sofistica si ha invece un atteggiamento critico nei confronti degli ordinamenti politici, in quanto si pretendono in ogni caso portatori di valori positivi. Protagora è notoriamente relativista; Antifonte distingue nettamente tra natura e giustizia, tra leggi naturali e leggi positive, svalutando le leggi positive e affermando anche la naturale eguaglianza degli uomini; anche per Ippia la legge commette ingiustizie. Si rompe così l’equilibrio tra le esigenze del singolo e le istituzioni politiche. Sulla necessità di tale equilibrio insiste invece il Socrate platonico, il quale critica vivamente la democrazia ateniese, ma, in termini teorici, contrappone al relativismo sofistico e alla democrazia un regime fondato su valori stabili e sulla virtù-scienza, ossia non sulla virtù politica bensì su quella virtù che si fonda sulla conoscenza del bene. In sostanza Socrate esalta le leggi in quanto educatrici e portatrici di una tradizione e afferma la necessità di prestare loro obbedienza sia per la riverenza che meritano, sia perché il cittadino che le ha accettate non può venir meno all’impegno di rispettarle.
Il motivo della pòlis come istituzione etica ed educativa, ossia come organismo sociale che ha il fine di rendere migliore il cittadino, è riaffermato con estrema nettezza da Platone. Egli delinea una pòlis teocratica, fondata su una teologia astrale, molto oppressiva nei confronti dei cittadini specialmente in fatto di religione. A un Consiglio di sapienti, forniti di conoscenze teologiche, che poi costituiscono i principi informatori di tutta la vita della pòlis, spetta il compito di una superiore generale sorveglianza. Anche per Aristotele la pòlis è luogo naturale della vita etica del cittadino, e in sostanza politica ed etica per lui coincidono. L’uomo è per natura un essere socievole, e chi vive fuori della comunità statale senza sentire il bisogno di entrarvi è o bestia o dio. Quanto alle forme di Costituzione, esse sono buone o cattive a seconda che il governo sia esercitato a vantaggio della comunità o a vantaggio di chi governa.
Nemmeno nel mondo romano troviamo parole ed esperienze che corrispondano all’idea moderna dello Stato. Dove i Greci dicevano pòlis, i Romani traducevano con res publica e civitas. Ma la civitas non organizza il ‘vivere politico’, bensì il vivere in società secondo legami giuridici. La città dei Romani non ha dunque gli stessi orizzonti antropologici e i confini delle ‘città-S.’: è una civilis societas ricondotta a una iuris societas, non un’aggregazione sociale qualsiasi – per Cicerone – ma un’aggregazione pattizia fondata sul consenso alle norme di legge. Anche quando la res publica travalica i limiti della città per estendersi, con l’Impero, alla cosmopoli, la sua organizzazione istituzionale non è mai vista come separata dalla società in cui si colloca.
Con il cristianesimo si introduce nei confronti dell’organizzazione politica, allora storicamente rappresentata dall’Impero romano, una riserva di carattere religioso. Il cristianesimo infatti pretende di possedere criteri di giudizio sicuri in base ai quali valutare la legittimità morale degli atti che l’autorità politica viene compiendo. E la prima posizione che da ciò deriva, suggerita anche dal trovarsi il cristiano all’interno dell’Impero, è una posizione di difesa, una rivendicazione di libertà religiosa. La sfera religiosa, però, che il cristiano vuole intangibile, è considerata qualitativamente superiore a quella politica, e può perciò voler estendere il suo controllo, non contentarsi della difensiva. Questo dualismo di religioso e di politico, di spirituale e di temporale, non implica soltanto una rivendicazione di libertà individuale, ma anche la rivendicazione della libertà di un’altra società a cui il cristiano appartiene. Il cristiano fa parte di una Chiesa, che ha proprie gerarchie, cui è dovuta obbedienza. Agostino ribadisce la superiorità della Chiesa sullo S.; ciò non esclude però che lo S. abbia una sua legittimità e una sua autonomia, anche se non cristiano. Tuttavia il principe cristiano fa qualche cosa di più: non si limita a essere umile e moderato, ma sottopone il suo potere «alla maestà di Dio, per estendere il più possibile il suo culto» (De civitate Dei, V, cap. 24). Per questa via i doveri religiosi del principe possono diventare prevalenti e la distinzione dei due poteri può tendere a cancellarsi.
In Isidoro di Siviglia (560-636) la figura del principe cristiano è essenzialmente quella del protettore della Chiesa, del garante della sua disciplina, del promotore di virtù cristiane nei sudditi. L’autonomia dello S. invece, oltre a essere riaffermata dai diretti avversari delle pretese teocratiche, è sostenuta da s. Tommaso, per il quale la socialità è un fatto naturale, come naturali sono le disuguaglianze, le diversità fra gli uomini. Questo mondo di diversi ha e deve avere però una sua armonia, una sua unità, unità rappresentata da Dio rispetto al cosmo, dalla ragione nell’uomo, dall’autorità politica nella società umana. Dato il carattere unitario di questa autorità, il governo monarchico è per Tommaso il governo migliore, ma Tommaso accenna anche all’opportunità di strumenti giuridici che evitino la degenerazione della monarchia in tirannia. Il re è il medievale re nella legge e sulla legge Tommaso insiste a lungo in termini generali: la legge è l’espressione stessa della razionalità, e la razionalità permea di sé il mondo e non può non permeare di sé gli ordinamenti e le leggi positive. Siamo chiaramente di fronte a una logica giusnaturalistica: c’è una giustizia naturale-razionale che costituisce e deve costituire la trama delle leggi positive. Ma questa giustizia e la correlativa ragione, pur essendo autonome, non sono tuttavia indipendenti, perché al di sopra di esse c’è la legge eterna, la ragione sovrana di Dio. Torna il motivo della preminenza del potere spirituale su quello politico: l’autonomia della sfera temporale è incontestabile, ma spetta al potere spirituale delimitarne l’ambito.
In termini radicali questa autonomia è invece teorizzata da Dante, da Marsilio da Padova, da Guglielmo di Occam, da J. Wycliffe. Per Dante l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio, mentre la Chiesa è estranea alle faccende temporali; il sovrano temporale deve riverenza al pontefice, ma solo in quanto questi è guida verso la vita eterna. La superiorità dello spirituale nei confronti del temporale è riaffermata anche da Marsilio, da Occam, da Wycliffe, ma questa superiorità è, per così dire, sublimata: lo spirituale è ciò che attiene alla salvezza, non ha nulla a che vedere con i valori terreni. Questa emancipazione della politica dalla religione e quindi dello S. dalla Chiesa caratterizza la politica moderna. Non che la religione non continui a essere oggetto importante dell’attenzione del politico, ma egli la guarda con occhi appunto politici, mondani, ossia la prende in considerazione nella misura in cui essa può influire sui fatti politici. Ed è soprattutto a partire da questa emancipazione che, storicamente, si forma il moderno concetto di Stato.
Occorre arrivare a N. Machiavelli e J. Bodin per scoprire la dimensione ‘verticale’ della politica, separata dalla sfera della religione e dall’etica, su cui si situa la nozione e l’esperienza dello S., inteso correttamente come una struttura gerarchica della vita associata. Si fa risalire a Machiavelli l’invenzione della parola nella sua accezione moderna, distinta da status in quanto ceto o condizione sociale, e correlata con la figura del Principe. Il Principe è la metafora delle grandi monarchie accentratrici che si legittimano sulla forza e sulla separazione della politica dall’etica e dalla religione. Per la fondazione dello S. tutto è lecito, forza, astuzia, crudeltà. Ma una volta che lo S. c’è, allora bisogna governarlo con spirito repubblicano (la repubblica romana è il modello da imitare), ossia con assoluto rispetto delle leggi, della libertà, della sicurezza dei cittadini. Grave errore è per il governante la violazione della legge, e la legge è, classicamente, anche educatrice dei cittadini. Il cittadino virtuoso è il cittadino probo, disposto a rinunciare al suo utile privato per il bene comune. Il cittadino tuttavia non partecipa al governo dello S., perché governare è affare di pochi, ma fruisce della sicurezza. Accanto alle buone leggi Machiavelli vuole le buone armi, milizia cittadina e non mercenaria, essenziali perché lo S. vive fra S. con i quali è possibile venire in conflitto, e in caso di guerra (cioè di difesa dello S.) è anche lecito ogni mezzo: razionale e legalitario all’interno, lo S. moderno è potenzialmente violento nei rapporti con gli altri Stati.
Sulla sovranità dello S. e sull’assolutezza di questa sovranità (anche se con qualche temperamento) insiste Bodin, nel quale troviamo anche il concetto di tolleranza religiosa. Questa tolleranza deriva dalla convenienza politica del rispetto delle fedi: la religione è un fattore positivo di coesione politica, ma lo S. non deve intervenire in questa materia. Con T. Hobbes si giunge a una teorizzazione rigorosa della sovranità assoluta dello Stato. Hobbes ricorre alla distinzione di stato di natura e stato civile e allo schema del contratto. Nello stato di natura gli uomini, uguali tra loro, perseguono fini eguali, fini di illimitata appropriazione delle cose e anche di dominio sugli altri, e ciò dà luogo a una situazione di perenne guerra reciproca, e quindi di miseria e infelicità. La ragione suggerisce di uscire da questa condizione e di ricercare la pace, che sola può garantire l’autoconservazione. Ciò avviene mediante un contratto di ciascuno con ciascuno, consistente in una concorde rinuncia alla libertà naturale, ossia al diritto di appropriarsi di tutte le cose e di comportarsi secondo i propri desideri. Questa rinuncia viene fatta in favore di un sovrano (singolo uomo o assemblea), il quale però non è da parte sua contraente, non ha obblighi verso i sudditi, è cioè un sovrano assoluto. Qualunque atto egli compia, lo compie per delega dei sudditi. Vero dio mortale, egli è la fonte stessa della razionalità e della legittimità. Suo compito è naturalmente di garantire la sicurezza della comunità contro ogni violenza interna o esterna.
Anche lo S. di B. Spinoza è assoluto, è fondatore di diritto e di eticità, ma, a differenza che in Hobbes, la società politica spinoziana non presuppone un sovrano istituito da un contratto che gli conferisca illimitati diritti; essa risulta da un contratto che potenzia il singolo, facendone un membro di una comunità razionale e fondamentalmente democratica.
Le teorie contrattualistiche, che sono alla base delle prime concettualizzazioni dello S. moderno, presentano un’ambivalenza originaria: da un lato giustificano la nascita dello S. assoluto, dall’altro si pongono come fondamenti di legittimazione del potere ‘limitato’, che prelude alla nascita del costituzionalismo liberale. A questo tipo di limitazione del potere possono ricondursi le posizioni dei monarcomachi e del pensiero giusnaturalistico. I monarcomachi sono degli scrittori calvinisti e anche cattolici che nella seconda metà del 16° sec. e nei primi anni del secolo seguente rivendicano il diritto di resistere al sovrano e in genere alcune autonomie tradizionali di contro alle pretese accentratrici delle grandi monarchie. Il potere politico non emana dal sovrano, ma dalla società nel suo insieme, e il sovrano deve esercitarlo nel rispetto delle comunità minori che popolano la società. J. Althusius, che è il più importante e sistematico di questi scrittori, parla di un supremo magistrato eletto dal collegio degli efori, che rappresentano la collettività, e controllano e in casi estremi possono deporre il supremo magistrato, il cui potere è dunque limitato dalle leggi, dal diritto naturale, dai doveri religiosi. Oltre questi limiti il potere diventa tirannico ed è lecito resistergli. Il giusnaturalismo moderno si fa in genere cominciare con U. Grozio, il quale nel De iure belli ac pacis (1625) sostiene che alcuni principi essenziali del diritto (rispetto dei beni altrui, obbligo di mantenere le promesse, risarcimento del danno arrecato) sono validi perché conformi alla ragione e alla natura umana, e tale validità sussiste in sé, senza alcun bisogno di fondazione teologica. Neppure Dio potrebbe mutare quei principi, come non potrebbe mutare l’esattezza di una proposizione matematica. Si tratta in sostanza dell’affermazione dell’autonomia della ragione, da cui deriva un’impostazione affatto laica del problema dello Stato. Il motivo contrattualistico torna in S. Pufendorf. Sia Grozio sia Pufendorf sono però assolutisti in fatto di dottrina dello S.: il contratto è irrevocabile, il popolo non può resistere al principe. Alcuni scrittori però si serviranno della dottrina di Grozio in funzione antiassolutistica (per es., P. Jurieu contro l’assolutismo di Luigi XIV). E tesi più liberali in tema di sovranità sosterranno, sempre in ambito giusnaturalistico, J. de Barbeyrac (1674-1744) e J.-J. Burlamaqui (1694-1748).
Stato di natura e contratto sono utilizzati anche da J. Locke. Lo stato di natura lockiano è descritto in termini ottimistici e ‘liberali’: l’uomo naturale è socievole, pensa alla sua conservazione ma anche a quella degli altri, ha il senso della giustizia. Stato di natura e stato di guerra, dice Locke in evidente polemica con Hobbes, sono tra loro distanti come uno stato di pace e di reciproca benevolenza e assistenza e uno stato di violenza e reciproca distruzione. L’uomo naturale di Locke si prolunga nella proprietà, che è l’istituto fondamentale dello stato di natura: proprietà comune in origine, essa diventa poi proprietà privata mediante il lavoro. Dallo stato di natura però si esce perché la «corruzione e la perversità di uomini degenerati» (Two treatises of government, II, cap. IX, par. 128) rendono necessaria un’associazione in cui il diritto sia certo e sia effettiva un’autorità che lo faccia rispettare. Sorge così la società politica o civile, fondata su un contratto: un gruppo di individui si accorda per costituire un corpo politico, senza ledere la libertà di quanti volessero rimanere nello stato naturale. Le decisioni di questo corpo politico sono prese a maggioranza, come è ragionevole che sia. Il popolo dunque è e rimane sovrano. La vita costituzionale dello S. lockiano deve svolgersi nel pieno rispetto della legalità, dell’interesse del popolo, della proprietà. In caso di infrazioni il popolo ha diritto di riprendere il potere e di resistere anche con la forza. Lo S. di Locke è poi tollerante: la vita religiosa come tale sfugge all’interesse dello Stato. Tuttavia questa tolleranza non è illimitata: non possono beneficiarne quanti diventerebbero intolleranti come i papisti, quanti attraverso la loro religione dipendono da un’altra autorità, gli atei per la loro asocialità. La caratteristica più tipica dello S. di Locke, quella che fa del suo pensiero politico un pensiero politico liberale, è che questo S. non ha in sé il suo fine, perché il fine della sua azione è la proprietà, ossia il lavoro umano e il rigoglio della società come sede e risultato di questo lavoro.
Questi motivi, che pongono l’accento sulla società anziché sullo S., sul lavoro produttivo anziché sulla politica, sono i motivi della moderna civiltà borghese e trionfano nel pensiero illuministico. L’Illuminismo è in questo senso antipolitico, ossia nemico di una concezione della politica che si fa risalire a Machiavelli e che considera essenziali la forza e l’espansione dello Stato. Per il politico illuminista lo S. deve invece favorire il progresso dell’industria, il crescere della ricchezza, il commercio e i traffici. Le forme di governo possono essere varie, e accettabili o criticabili a seconda del loro assolvere o meno tale funzione. Il potere politico deve essere tollerante, ma inflessibile con gli intolleranti, deve governare il meno possibile, ma intanto deve favorire lo sviluppo di quelle condizioni che gli consentano di governare il meno possibile. La logica di questa impostazione razionalistica è democratica ed egualitaria: è democratica nel senso che non è concepibile altra fonte legittima del potere all’infuori del consenso degli interessati, è egualitaria perché la ragione è possesso di tutti e non tollera privilegi.
Non sempre però gli illuministi trassero tutte le conseguenze di questa impostazione, e spesso considerarono la sovranità del popolo come un principio non pienamente operante, l’eguaglianza come un’idea plausibile ma dalla quale non era possibile trarre conseguenze economiche radicali. Voltaire, D. Diderot, C.-A. Helvétius, Holbach sviluppano questi motivi, presenti anche, in forma sistematica, in Montesquieu, il quale parte da premesse razionalistiche: il mondo è abitato da una razionalità che è anche stampata nei cuori degli uomini, le leggi sono l’espressione eminente di questa razionalità. In astratto la forma più razionale è la democrazia, perché in essa il popolo è per un verso sovrano, per un altro suddito; seguono l’aristocrazia, governo di pochi, e la monarchia, governo di uno solo. Il dispotismo infine rappresenta il potere nella sua manifestazione brutale. È evidente la degradazione dovuta al progressivo dualismo di governanti e governati, a partire dalla loro unità rappresentata dalla democrazia. A questi tipi ideali Montesquieu commisura una serie di fattori concreti, di condizioni, ma la sua preoccupazione maggiore è che in ogni caso il potere non schiacci il singolo, che la legalità trionfi. Perché ciò si abbia, è necessario che ‘il potere freni il potere’. Di qui la celebre teoria della divisione dei poteri, e non solo e non tanto in senso tecnico-giuridico, quanto in senso politico: si tratta di forze effettuali che devono equilibrarsi.
Lo S. democratico, cioè lo S. fondato sulla sovranità assoluta del popolo, è invece per J.-J. Rousseau l’unico S. legittimo, l’unico S. fondato sul diritto. Attraverso una convenzione consensuale unanime, ossia attraverso il contratto sociale (che, beninteso, non è un fatto, ma un concetto della ragione), ciascuno rimette ogni suo diritto naturale nelle mani di tutti gli altri contraenti, e diventa così membro della società politica, uomo non più naturale ma sociale. Con questo l’individuo ritrova, rafforzata, la sua libertà naturale, la possibilità di operare con sicurezza secondo i suoi più veri interessi e secondo i dettami della ragione. Ogni atto della comunità è un suo atto, perché egli è intrinseco alla comunità in virtù del contratto. Rousseau chiama questa razionalità volontà generale: i suoi atti razionali-universali sono le leggi (la volontà generale non si volge mai a casi singoli). La volontà generale è l’intima razionalità di una comunità politica, quella razionalità che la comunità dovrebbe manifestare ed essere nelle condizioni di manifestare. Quando si parla di volontà generale e di sovranità ci si riferisce al potere legislativo (che Rousseau vuole si eserciti direttamente e non attraverso rappresentanti). Questo potere è indivisibile e anzi è l’unico vero potere, ma esso deve limitarsi a fare le leggi. Le funzioni governativa e giudiziaria sono funzioni autonome (non indipendenti) e affidate a magistrati. Ed è soprattutto sulla distinzione di legislativo ed esecutivo, di sovrano e governo, che Rousseau insiste. Il governo è un delegato del sovrano e il governo che Rousseau preferisce è l’aristocrazia elettiva. Il governo democratico (inteso da Rousseau nella sua accezione rigorosa, come quello cioè in cui la maggioranza direttamente governi) non è realizzabile. La dipendenza del governo dal sovrano è effettiva: si hanno delle assemblee periodiche, convocate a date fisse, nelle quali si vota su due proposizioni: se piaccia al sovrano conservare l’attuale forma di governo, se gli piaccia lasciarne l’esercizio ai governanti attuali. Il consapevole modello di Rousseau è la pòlis, il piccolo S. abitato da cittadini virtuosi e interessati alla sua conservazione. Socialmente è uno S. fondato sulle fortune mediane (in questo senso egualitario). Le tendenze della società moderna verso il prevalere del capitale mobile, verso l’unificazione di ricchezza e potere (anziché di virtù e potere) e il dominio del ricco sul povero sono fattori di corruzione e di decadenza culturale-morale. Nel Contrat social (1762) Rousseau elenca le condizioni necessarie perché un popolo possa avere delle buone leggi: tali condizioni sono un’implicita conferma del suo giudizio sull’irreversibile decadenza del mondo moderno.
Anche per I. Kant lo S. si fonda sulla sovranità del popolo e sulla divisione degli organi del potere. Accanto al potere sovrano o legislativo si trovano il potere esecutivo e quello giudiziario. Ma il potere esecutivo, cioè il governo, è sottoposto non solo alle leggi, che sono naturalmente opera del sovrano-legislatore, ossia del popolo, ma anche al controllo politico da parte di questo, che può deporlo o può riformare il tipo di amministrazione. Potere legislativo e potere esecutivo devono essere distinti; se sono nelle stesse mani si ha il dispotismo. Autonomo è anche il potere giudiziario; con giuria popolare nei tribunali. Questo S., a rigore, non fa politica: non deve occuparsi della felicità dei cittadini, non deve pensare a ingrandirsi, ma soltanto ad allearsi con altri S. per la conservazione della pace. L’unica politica dunque che lo S. kantiano deve fare è quella mirante all’attuazione del diritto: coesistenza di liberi cittadini e di liberi Stati. Lo S. kantiano è perciò liberale, perché bada soltanto alla libertà di cittadini, ed è democratico perché fondato sulla sovranità del popolo.
Nelle linee successive di sviluppo, la dottrina dello S. liberale finisce per approdare alla concezione organicistica dello ‘S. etico’. Anche lo S. di J.G. Fichte ha fondamenti democratici e la sua genesi è contrattuale; è nondimeno forte la suggestione illuministica del ‘despota illuminato’. L’organizzazione di questo S. comprende due poteri, l’esecutivo e l’eforato. L’esecutivo contiene in sé la funzione legislativa e quella giudiziaria. L’eforato, che è il tratto più caratteristico dello S. fichtiano, è un contropotere, un potere negativo avente il compito di controllare la legalità degli atti dell’esecutivo e, in caso d’infrazione, di sospenderne l’efficacia. Chi decide sulla giustezza o meno dell’accusa degli efori (che sono eletti dal popolo) è il popolo riunito. Ora il giudizio del popolo (e questa è la nota più tipicamente democratico-rousseauiana) è naturalmente giusto, ha valore di legge costituzionale, ha effetto retroattivo. Altra caratteristica dello S. fichtiano è il suo intervento nella vita economica, volto a garantire a ciascuno ciò che gli spetta, a garantire cioè non tanto il diritto di proprietà quanto il diritto alla proprietà. Lo S. regola dunque la vita economica secondo un criterio di giustizia. In una fase di ripensamento della sua teoria politica Fichte, pur lasciando immutate le strutture del suo S., ha a esse sovrapposto un nuovo potere, un potere straordinario avente compiti educativi: ha parlato di un despota altamente ispirato e ha indicato nella comunità dei dotti gli uomini capaci di educare il popolo. Il popolo, di diritto fonte della razionalità, di fatto è ancora incapace di governarsi. Si ripropone a Fichte il tema del despota illuminato o del legislatore rousseauiano che elevi il popolo alla razionalità.
I motivi democratici e contrattuali scompaiono invece in G.W.F. Hegel. Lo S. di Hegel infatti non è più uno S. ideale, ma vuole essere lo S. del tempo di Hegel, lo S. moderno, rispecchiante effettive tendenze moderne, in conformità con la concezione hegeliana della filosofia, come comprensione di una razionalità realizzata. Tale S. è una monarchia costituzionale ereditaria, fondata sulla distinzione dei poteri. I poteri sono il potere legislativo, il potere governativo, il potere del sovrano. Nel potere del sovrano i poteri distinti si raccolgono in unità individuale. In realtà il monarca ha il potere di grazia e quello di nominare e revocare quanti ricoprono gli uffici più importanti dello Stato. Solo simbolicamente esso è l’organo delle decisioni ultime, perché in uno S. bene ordinato il monarca sanziona dei contenuti anteriormente elaborati. L’autentico potere è quello dei funzionari, dei componenti il potere governativo, che accedono agli uffici a seconda delle loro attitudini. Questo S. non è e non deve essere invadente, deve anzi operare con una certa discrezione, ossia rispettare i diritti delle comunità minori. Anche nella vita economica l’intervento dello S. non deve essere eccessivo, ma deve limitarsi a temperare gli inconvenienti cui essa dà luogo, cioè squilibri e crisi. La vita economica è vista da Hegel con occhi smithiani, e il suo intervenzionismo è di tipo liberale. Ritroviamo in Hegel il dualismo moderno di politica ed economia, di S. propriamente detto e di società civile. Per un altro verso questo dualismo si estende a tutto il mondo moderno-borghese e si trasforma anche in polemica contro l’assolutismo livellatore in favore dello S. articolato nei ceti e nelle comunità minori.
Non allo S. ma essenzialmente alla società volgono la loro attenzione gli scrittori socialisti, i quali non riconoscono allo S. una funzione autonoma, perché lo considerano uno strumento al servizio degli interessi predominanti nella società. Essi valutano lo S. sotto un duplice profilo: nello S. esistente vedono un semplice mezzo per la conservazione di un assetto sociale ingiusto, e dunque un fattore di oppressione; nello S. futuro, cioè quello della società giusta da essi voluta, vedono un garante e un coadiutore di questa società. Alla politica subentra l’amministrazione, la società può fare da sé e farà da sé. La società disegnata da H. de Saint-Simon è quella del lavoro organizzato, in cui lo S. ha il ruolo di pianificatore di questo lavoro e svolge tale ruolo con criteri scientifici e non opinabili. La società disegnata da C. Fourier si fonda su un’organizzazione decentrata della produzione, ossia su unità produttive autonome, a cui sono estranee preoccupazioni di tipo politico. E anche in J.P. Proudhon la produzione è decentrata; il principio nazionale e statale è sostituito da quello federativo, il governo diventa un organo scientifico, regolatore della produzione.
Per K. Marx lo S. è sempre uno strumento di oppressione: lo è lo S. borghese perché serve soltanto all’esercizio del dominio, ma lo è anche lo S. che seguirà alla rivoluzione (la dittatura del proletariato) perché opprimerà i nemici della rivoluzione. Tuttavia quest’ultimo S. è uno S. democratico perché la dittatura è una dittatura di classe ed è una dittatura di maggioranza, della larga maggioranza interessata alla rivoluzione e al nuovo assetto sociale. Ma è democratico anche in un senso più tecnico, perché la sua organizzazione, modellata sulla Comune parigina, viene raffigurata in termini di democrazia diretta. Terminato il periodo di transizione, distrutte cioè definitivamente le basi economiche del dominio capitalistico, a questo S. democratico succederà una società non più politica, ma fondata su un autogoverno tecnico dei singoli e sulla loro piena espansione. Negli sviluppi del pensiero marxista si hanno soprattutto delle discussioni di carattere tattico sulla possibilità di operare all’interno dello S. democratico-borghese per il raggiungimento non violento dei fini socialisti, o viceversa sulla necessità o meno di atti di forza, sul ruolo della dittatura proletaria. Dopo la rivoluzione russa queste discussioni diventano particolarmente vive. Resta comunque fermo il concetto dello S. come strumento di dominio di classe.
L’idea dello S. a servizio della società e garante della libertà del singolo torna negli sviluppi del pensiero liberale da K.W. von Humboldt a B. Constant, a Madame de Stäel. L’importante è che lo S. intervenga il meno possibile, che il singolo abbia una sufficiente sfera di liceità, non solo per le sue iniziative economiche, per il suo utile, ma anche per lo svolgimento della sua personalità culturale-morale. La costruzione politica di Constant, che è la più sistematica, parte appunto dall’assunto che l’uomo, in quanto tale, è libero nel senso di essere rivolto verso valori superiori, anche e soprattutto di tipo religioso. Conculcare la libertà è un peccato contro lo spirito. È perciò necessario che la sovranità sia limitata, cioè si arresti di fronte ai diritti dell’individuo. La sovranità a cui pensa polemicamente Constant è la sovranità democratica illimitata di Rousseau, che egli considera una pericolosa fonte di dispotismo. Il sistema politico di Constant è un sistema armonico, monarchico-costituzionale, con due camere, una ereditaria e una elettiva, con elezioni a suffragio ristretto censitario, con giudici inamovibili, con assoluto rispetto delle forme giudiziarie. Centro di questo sistema è il potere regio, a cui spetta con oculato arbitraggio conservare l’armonia delle parti. Constant non ha difficoltà a rilevare che negli S. moderni il popolo, che interviene a intervalli per eleggere i suoi rappresentanti, è sovrano solo in apparenza. Ciò tuttavia non ha per lui importanza, perché il mondo moderno non è un mondo politico come quello della città antica. L’importante è che in esso l’individuo possa operare e realizzarsi liberamente, possa perseguire le sue passioni, godere i suoi agi privati.
Una preoccupazione dello stesso genere, ossia nei confronti della democrazia e della conseguente eccessiva politicizzazione della vita dello S., è presente in alcuni giuristi tedeschi, come R. von Mohl, R. von Gneist, K.F. von Gerber, G. Jellinek, assertori dello S. di diritto, ossia dello S. come istituzione storico-giuridica autosufficiente, che fonda il diritto e garantisce la libertà dei cittadini. La sovranità popolare e le idee a essa relative sono concetti astratti, che di fatto conducono al parlamentarismo e, in generale, a una situazione di permanente contrasto tra governo e popolo, con danno per la stabilità dello Stato. La vera libertà non nasce dalla rivendicazione di astratti diritti del singolo, ma dall’evoluzione storica. Pur partendo da preoccupazioni analoghe, i rimedi che questi scrittori propongono contro gli eventuali abusi della democrazia sono opposti a quelli di Constant: non l’intangibile e sacra libertà del singolo, ma la saggia autorità dello S. è la garanzia ultima di una vita politica razionale.
La funzione riformatrice dello S., con J.S. Mill e dopo di lui, è teorizzata anche dai pensatori liberali: per la realizzazione delle loro idee, che postulano il pieno svolgimento dell’individuo, è necessario che lo S. non si limiti a un ufficio puramente negativo e socialmente neutro, ma operi in modo da assicurare una condizione economico-sociale che favorisca le libere iniziative. Mill parla di difesa della proprietà privata, purché fondata sul lavoro, di confisca del reddito non guadagnato, in particolare della rendita fondiaria, di promozione di forme di produzione sempre più associative. Altri pensatori liberali, quali T.H. Green, B. Bosanquet, L.T. Hobhouse, insistono sull’intervento dello S. in senso appunto liberale, volto cioè a riaffermare il valore primario dell’individuo. È comunque evidente in questo garantismo attivo la tendenza a far proprie certe istanze di giustizia del socialismo, tanto che Hobhouse parla di socialismo liberale. Da parte sua B. Croce tiene distinti i due piani, quello della libertà politica e delle libertà civili e quello del modo di produzione. Non c’è nessun legame necessario tra libertà politica e libero mercato. J. Dewey va invece più oltre, asserendo che solo un’economia pianificata (e democraticamente controllata) può ormai assicurare il pieno e sempre maggiore sviluppo dell’individuo.
Una forte enfatizzazione dell’ufficio dello S. e della stessa maestà dello S. si è avuta nei teorici dello S. autoritario, i quali hanno sostenuto che la società moderna ha bisogno di uno S. forte e presente in tutti gli aspetti della vita dei cittadini. Per molti versi questi teorici riprendono le dottrine controrivoluzionarie antilluministiche e criticano individualismo e democrazia. Il singolo non ha alcun senso fuori dello S., e lo S. ha una sua etica, ha fini propri di ordine nazionale e di ordine economico. Nel fascismo italiano questo statalismo fu teorizzato (e anche praticato in quanto legislatore del fascismo) da A. Rocco, proveniente dal nazionalismo, mentre G. Gentile insistette sull’unità di individuo e S., sostenendo che lo S. fascista, dopo la fase rivoluzionaria e illegalista, fosse in grado di realizzare e avesse in larghissima misura realizzato questa unità. Anche i teorici nazionalsocialisti partono da premesse antindividualistiche e stataliste. Lo S. non è un ente politicamente neutro, ma deve avere una sua ideologia e una sua politica, proporsi mete nazionali e razziali. C. Schmitt vede nel partito nazionalsocialista il custode di questi valori e nel suo permeare di sé le varie istanze dello S. la loro adeguata realizzazione. In sostanza queste dottrine pretendono di impegnare l’individuo in una direzione politica assunta come giusta, perché ritenuta conforme agli interessi di tutto il popolo, perché volta verso l’ordine e la disciplina sociale di contro al ‘disordine’ democratico. Sono perciò considerate inammissibili le libertà tradizionali (di stampa, di associazione ecc.) e si pensa a forme di partecipazione di tipo emotivo (raduni, acclamazioni, dedizioni alla causa nazionale).
Una concezione democratica dello S. si ha in alcuni teorici che risolvono l’idea dello S. in quella del diritto. Lo S. altro non è che l’ordinamento giuridico: un insieme di norme, naturalmente valide ed efficaci. Il più tipico rappresentante di questo punto di vista è H. Kelsen. Egli distingue due forme di S., quella democratica e quella autocratica: nella prima i cittadini concorrono alla creazione dell’ordinamento giuridico, nella seconda ne sono esclusi. Queste due forme sono da vedersi come tipi ideali, perché in concreto tutti gli S. partecipano in varia misura dell’una e dell’altra. Kelsen è assertore della superiorità della democrazia, ma fonda questa superiorità su una filosofia che egli definisce relativistica, tale cioè da escludere verità indiscutibili: chi è cosciente del fatto che la sua certezza vale quanto un’altra e quindi può essere smentita ascolta le ragioni degli altri e si rimette al parere dei più. Questa argomentazione, assai diffusa nelle correnti analitiche contemporanee, è un elogio della politica moderata e gradualista.
Tuttavia, la teoria dello S. contemporaneo ruota attorno alla riformulazione del concetto di cittadinanza, sia sul piano filosofico, come novazione del patto fondamentale fra individui e S. secondo regole di giustizia razionale e giustificabile per tutte le parti – che è la posizione del neocontrattualismo di J. Rawls (A theory of justice, 1971) – sia soprattutto sul piano sociologico, a partire dal saggio di T.H. Marshall (Citizenship and social class, 1950). La cittadinanza opera nell’ambito della sovranità dello S. moderno nelle sue componenti specifiche di cittadinanza civile, politica ed economica, ciascuna delle quali attribuisce poteri e diritti particolari agli individui, configurando storicamente una successione di modelli statali che, per successive stratificazioni, confluiscono tutti nella forma di S. tipica delle società sviluppate. Questa, di fatto, si caratterizza al tempo stesso come S. di diritto, che garantisce i diritti di libertà, come S. democratico, che afferma i diritti di partecipazione politica, e come S. sociale – o welfare State – in quanto promuove diritti di uguaglianza sostanziale attraverso politiche di redistribuzione della ricchezza.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il dibattito ha per sfondo e per dato il nuovo scenario del welfare state, divenuto l’arco voltaico in cui si tengono assieme, in una sorta di compromesso istituzionale, democrazia e capitalismo: mentre la teoria dello S. si presenta a sua volta come il tentativo di spiegare, talvolta giustificandolo, talaltra contrastandolo, questo compromesso. In questo senso possiamo distinguere contributi diversi e in parte contrapposti che maturano più nel campo degli studi sulle politiche pubbliche che non nell’ambito tradizionale delle dottrine giuspubblicistiche e del formalismo giuridico.
Un primo filone di analisi – di orientamento neo-marxista – porta alla rivalutazione dello S. come soggetto storico di unificazione di una determinata formazione sociale – il capitalismo – da cui dipendono sia i processi decisionali sia l’apparato amministrativo e repressivo. Lo S. nel capitalismo maturo, visto come ‘relativamente autonomo’ rispetto agli interessi di classe, interviene per strutturare il campo delle decisioni politiche, fissandone regole e confini. Per contro, vi è tutta una linea di pensiero di matrice liberale e liberista, che va dalla ‘Scuola austriaca’ dei primi anni del Novecento con autori quali C. Menger, L. von Mises, F. von Hayek, fino agli epigoni americani della rational choice, portata a considerare lo S. – al pari di altre entità collettive – un’astrazione concettuale priva di realtà concreta: nella realtà sociale esistono solo gli individui e le loro azioni guidate da criteri di razionalità strumentale, mentre lo S. e le istituzioni in genere non sono altro che il prodotto ‘irriflesso’ del modo in cui queste azioni si combinano per evoluzione storica, senza alcun progetto preordinato. Questi assunti di individualismo metodologico hanno come correlato etico e politico una visione di ‘S. minimo’ che deve limitarsi a provvedere una base di regole comuni e condivise senza pretese d’interferenza nella vita privata dei cittadini.
Un altro gruppo di teorie, che potremmo definire societarie, è portato, sulla scia delle concezioni pluralistiche della politica, ad accentuare l’importanza degli ambiti e dei meccanismi di regolazione che si producono al di fuori della sfera statale, spesso in conflitto o in concorrenza con questa, in ordine all’elaborazione, implementazione e controllo delle politiche pubbliche. Rientrano in questo gruppo gli approcci di derivazione funzionalista o cibernetica, che sostituiscono alla stessa nozione di S. quella più onnicomprensiva di sistema politico, in grado di dar meglio conto dei processi di diluizione e di ubiquità della politica nella società.
Più di recente, il cosiddetto policy approach ricolloca il processo di produzione e messa in opera delle politiche pubbliche in una serie di ‘reti decisionali’ (policy networks) in cui interagiscono fattori individuali e collettivi, e in cui il ruolo dello S. diventa obiettivamente marginale, o meglio può essere solo ricomposto come un aggregato ‘policentrico’. Alle teorie pluraliste, così diversamente connotate, si contrappongono posizioni di neo-istituzionalismo che propugnano un ritorno alla centralità del concetto di S., troppo a lungo e a torto trascurato nelle scienze sociali, nella convinzione che gli stessi comportamenti politici, sociali ed economici sono quanto meno strutturati entro modelli di regole che trovano nell’ordinamento e nell’organizzazione statale i loro criteri di regolazione e legittimazione. Rimettere lo S. all’ordine del giorno – come consigliano di fare questi autori della corrente new-statist – comporta peraltro conferire nuovo risalto all’idea relativamente antica di azione in quanto specifica base sociale dello S., caratterizzata da altre appartenenze ed esperienze – etniche, religiose, culturali, linguistiche – che non siano quelle di natura strettamente politica che lo S., nella sua identità di ‘S.-nazione’, controlla e difende.
In conclusione, la vicenda dello S. in epoca contemporanea è pervasa da numerose contraddizioni che prefigurano in qualche modo esiti di crisi. Al processo di progressiva espansione dello S.-apparato corrisponde, dopo la rimozione collettiva che se ne era avuta per via delle tragiche esperienze totalitarie consumate fra le due guerre, la riscoperta dello ‘S. nazione’; questo concetto si carica a sua volta di valenze localistiche e autonomiste, talvolta definite impropriamente come federaliste, in tutta una serie di conflitti che oppongono – in diverse parti del mondo – le ‘piccole patrie’ alla ‘madre patria’, le tante periferie al potere centrale dello Stato. In questa prospettiva vanno ricomponendosi, soprattutto in ambienti intellettuali statunitensi, alcuni movimenti critici nei confronti della civiltà liberale, che convergono a favore della creazione di piccole comunità organiche autonome le quali consentirebbero l’instaurazione di una nuova democrazia partecipativa all’interno di contesti federali. Il neo-comunitarismo – così si definisce unitariamente questo movimento – si riallaccia a una tradizione di ‘repubblicanesimo civico’, che contesta la politica rappresentativa, fatta da ‘consumatori-votanti’, e il centralismo burocratico dello S. nazionale, mentre sottolinea l’importanza vitale delle piccole comunità fondate su valori effettivamente condivisi. La tendenza alla frammentazione politica e territoriale va di pari passo con il processo di ‘globalizzazione’ di tutto un complesso di attività interdipendenti su scala planetaria – economiche, tecnologiche, ecologiche e culturali – che hanno effetti e campi d’azione comunque eccedenti i confini tradizionali di sovranità dello Stato. In questo quadro gli S. a regime liberal-democratico – sia che si assoggettino alla forza di questi processi, sia che tentino di dominarli – sembrano rivelare come un senso d’impotenza e d’insufficienza in quanto soggetti politici unitari.
In dottrina, la nozione internazionalistica di S. è stata variamente ricostruita, dalla concezione che identifica lo S. con l’ordinamento giuridico (H. Kelsen), a quella – accolta anche nell’art. 1 della Convenzione di Montevideo del 1933 sui diritti e doveri degli Stati – secondo cui lo S. è costituito da tre elementi: popolo, territorio e potere di governo, o sovranità (G. Morelli). Altri rileva che gli S., pur essendo enti complessi – apparentemente assimilabili alle persone giuridiche di diritto civile – sono in realtà, per il diritto internazionale, ciò che le persone fisiche sono per il diritto interno: persone ‘date’ o ‘reali’, costituenti la base sociale della comunità internazionale, così come gli individui sono base sociale delle comunità nazionali (G. Arangio-Ruiz); in tale accezione, lo S. è un ente non determinato ma presupposto dal diritto internazionale, e la cui persona materiale consiste in un’organizzazione governativa indipendente, il popolo e il territorio configurandosi quali elementi esterni, sebbene collegati, alla persona dello S. e di essa non costitutivi ma, al più identificativi. In effetti, nel concreto atteggiarsi delle relazioni tra S. (Comunità internazionale), viene rilievo, più che lo S.-comunità, lo S.-apparato.
Indipendentemente dalla nozione accolta, è da tutti ammesso che lo S. è automaticamente soggetto del diritto internazionale (Personalità internazionale), qualità che gli deriva non da un atto costitutivo della personalità, come è per le persone giuridiche di diritto interno, ma dalla mera esistenza (principio di effettività). Desuete sono infatti le teorie secondo cui lo S. acquisterebbe personalità internazionale in conseguenza del riconoscimento da parte di altri Stati (Riconoscimento di Stati e di governi).
Irrilevante per la persona dello S. è l’esiguità del territorio e del popolo, i cosiddetti ministati dovendosi considerare Stati a tutti gli effetti. Viceversa, il titolo originario della potestà territoriale e il requisito dell’indipendenza impediscono di includere nella nozione gli Stati membri di Stati federali e gli enti territoriali minori (come le regioni), pur se intrattengano relazioni sul piano internazionale e siano eventualmente dotati, in base al diritto interno costituzionale, del potere di stipulare accordi internazionali (Trattati).
Mutamenti costituzionali di governo, come pure variazioni quantitative del territorio e della popolazione non incidono sulla persona dello Stato. Questa può invece estinguersi in conseguenza di mutamenti rivoluzionari che comportino radicali trasformazioni politiche e dell’organizzazione di governo, o per la perdita totale della potestà sul territorio (a seguito di smembramento, fusione, annessione-incorporazione e, in passato, debellatio), ciò che può dar luogo a fenomeni successori tra S. preesistente e nuovo S. (Successione tra Stati).
È pertanto da ritenere che la personalità internazionale dei governi in esilio – come quelli formatisi nel corso della seconda guerra mondiale, in rappresentanza dei paesi occupati dalla Germania – abbia a fondamento una finzione giuridica, motivata da ragioni politiche e dalla prospettiva del riacquisto della potestà territoriale effettiva.
L’estinzione dello S. non si produce, infine, per la temporanea impossibilità di esercitare il controllo su parte del territorio nazionale a causa di una guerra civile (Insorti); né tale effetto sembra conseguire dall’incapacità, anche prolungata, delle autorità statali di esercitare le ordinarie funzioni pubbliche in ragione di conflitti interni, estrema povertà o altre cause (cosiddetti “failed states”, rispetto ai quali è invalsa la prassi dell’assistenza internazionale per favorire il ripristino delle funzioni di governo).