Condizione di appartenenza di un individuo a uno Stato, con i diritti e i doveri che tale relazione comporta; tra i primi, vanno annoverati in particolare i diritti politici, ovvero il diritto di voto e la possibilità di ricoprire pubblici uffici; tra i secondi, il dovere di fedeltà e l’obbligo di difendere lo Stato, prestando il servizio militare, nei limiti e modi stabiliti dalla legge.
La c. nel mondo greco. La nozione di c. affonda le sue radici nel mondo antico. Nasce e si afferma con la polis greca, dove si era cittadini in quanto nati da genitori entrambi liberi e cittadini, e si esercitavano i diritti civili, di norma, appena raggiunti i 20 anni, ma a determinate condizioni (proprietà fondiaria, raggiungimento di un determinato censo minimo ecc.). Negli Stati federali (lega acarnana, achea, beotica, licia ecc.), i cittadini avevano una doppia c., federale e municipale. Ovunque lo status di cittadino era permanente: si perdeva solo per atimia o per esilio.
La c. nell’esperienza giuridica romana. La nozione di c. trapassa nell’esperienza giuridica romana. Nel diritto romano, civilitas («cittadinanza») designava l’appartenenza alla civitas. Si diventava civis per nascita da padre cittadino, o, in assenza di giuste nozze, attraverso la nascita da madre, o per adozione da parte di pater cittadino, o per volontà collettiva di chi già possedeva la cittadinanza. Anche lo schiavo manomesso da un cittadino romano acquistava, con la libertà, la c.; erano altresì assimilati ai cittadini romani i cittadini legati a Roma da un foedus aequum, se però rinunciavano alla c. originaria. In particolare, nella Roma repubblicana soltanto i cives potevano esercitare il diritto di voto nelle assemblee popolari (comitia); porre in essere i negozi solenni previsti dallo ius civile (➔ mancipazione, in iure cessio, e sponsio); essere titolari della patria potestas e del dominium su cose e schiavi, con i relativi poteri di emancipazione; sottrarsi alla condanna a morte tramite exilium ecc. La c. si perdeva oltreché con la morte, per alienazione a estranei da parte di colui del quale l’individuo fosse in potestate, o per solenne esclusione (aquae et ignis interdictio), o per servitù da prigionia di guerra, o per migrazione in città legate da foedus aequun con rinuncia alla c. romana (exilium). In conseguenza dell’espansione territoriale di Roma, la c. fu estesa ad altre popolazioni: nell’89 a.C., a conclusione della cosiddetta guerra sociale, venne concessa a tutti gli uomini liberi dell’Italia e nel 49 a.C. anche ai Transpadani. Nel 212 d.C., con la Constitutio Antoniniana, l’imperatore Caracalla concesse la c. a tutti gli uomini liberi dell’Impero, ponendo con ciò le premesse per una successiva eclissi della nozione, eclissi che si protrasse per tutto il Medioevo e per parte dell’età moderna, fino alla fine del 18° secolo.
Rinascita del concetto. Con la Rivoluzione francese, la c. riacquistò la centralità perduta: alla figura del suddito si sostituì quella del citoyen, quale componente della nazione e depositario della sovranità (art. 3 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen 1789; artt. 1 e 2, titolo III, della Cost. francese del 1791). Tra la c. e l’esercizio dei diritti politici rimase tuttavia una discrasia, in quanto la titolarità dei secondi non era riconosciuta a tutti cittadini, ma solo ai più benestanti (citoyens actifs); discrasia che fu superata soltanto con l’affermazione storica del suffragio universale (➔ voto) e del principio della sovranità (➔) popolare.
La c. nella Costituzione italiana. La Costituzione italiana, oltre a proclamare nella sua prima parte in capo ai cittadini la titolarità di alcuni diritti e di alcuni doveri, si occupa specificatamente della c. solo all’art. 22, stabilendo il principio per cui non si può essere privati di essa, così come del nome e della capacità giuridica, per motivi politici. La ratio di questa disposizione va inquadrata nella contestazione degli arbitri compiuti dal fascismo, che non solo aveva privato della c. italiana tutti gli antifascisti in esilio (l. n. 108/1926), ma aveva altresì stabilito (R.d.l. n. 1728/1938) delle gravi limitazioni alla c. e alla capacità giuridica nei confronti dei cittadini di «razza ebraica».
Per avere un quadro esauriente della disciplina vigente in tema di c. intesa quale legame dell’individuo con lo Stato (c.d. c.-nazionalità), occorre, invece, fare riferimento alla legislazione ordinaria (l. n. 555/1912 e, successivamente, l. n. 91/1992). In particolare, per ciò che riguarda l’acquisto della c., la l. n. 91/1992 fissa tre criteri fondamentali: il c.d. ius sanguinis, secondo cui è cittadino italiano chi nasce da uno o da entrambi i genitori italiani, principio accolto anche nella vecchia normativa; il c.d. ius soli, secondo il quale è cittadino italiano chi nasce nel territorio italiano, se i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non abbia acquistato la c. dei genitori in base alla legge del loro Stato; la volontà dell’interessato, secondo cui lo straniero o l’apolide possono chiedere la c., qualora si trovino in determinate condizioni, cioè rapporti di parentela con cittadini italiani, ovvero una residenza legale e ininterrotta nel territorio italiano per un non breve periodo di tempo (dieci anni nel caso dello straniero; cinque in quello dell’apolide), ovvero avere prestato servizio, anche all’estero, alle dipendenze dello Stato italiano.
La l. n. 91/1992 non prevede più, nel caso di cittadini che acquistino anche la c. di altri Stati, la decadenza automatica da quella italiana, ma, anzi, configura l’ipotesi non più eccezionale della doppia cittadinanza. In virtù di questo cambiamento, si è reso più impellente il problema di garantire l’esercizio del voto ai cittadini italiani residenti all’estero, che ha portato all’approvazione della l. cost. n. 1/2000 e della l. cost. n. 1/2001.
La decadenza dalla c. italiana viene limitata in due ipotesi tassative: quando il cittadino abbia accettato un impiego pubblico o una carica pubblica da uno Stato estero o da un ente internazionale cui l’Italia non partecipa, ovvero abbia prestato servizio militare per uno Stato estero e non ottemperi all’intimazione rivoltagli dal Governo italiano di abbandonare la carica, l’impiego o il servizio militare, oppure quando il cittadino, durante lo stato di guerra con uno Stato estero, abbia accettato o non abbia abbandonato un impiego pubblico o una carica pubblica o abbia prestato servizio militare per quello Stato senza esservi obbligato, ovvero ne abbia acquistato la c. volontariamente. Al di fuori di queste ipotesi, la c. italiana si può perdere per rinunzia espressa. Nel caso di perdita della c. italiana, è prevista, comunque, la possibilità di riacquistarla, se si soddisfano alcune condizioni, quali, ad esempio, la prestazione del servizio militare o l’assunzione di un impiego pubblico o lo stabilimento della propria residenza in Italia.
Nel diritto internazionale privato la c. costituisce un criterio di collegamento (giuridico e soggettivo). Le norme italiane (l. 218/1995, di riforma del sistema di diritto internazionale privato) utilizzano il criterio della c. per identificare l’ordinamento straniero cui rinviare nei seguenti casi: giurisdizione volontaria, rapporti patrimoniali tra i coniugi, filiazione, legittimazione, successione per causa di morte.
Istituita dal Trattato di Maastricht (1992), la c. europea è la condizione giuridica propria di ogni persona appartenente a uno Stato dell’Unione Europea. In base al Trattato di Amsterdam (1997), essa non sostituisce la c. nazionale, ma ne rappresenta un complemento, essendo finalizzata a instaurare la solidarietà tra i popoli che fanno parte dell’Unione Europea e a favorire il processo di integrazione politica tra gli Stati membri. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la c. di uno Stato membro. I cittadini dell’Unione godono dei diritti, e sono soggetti ai doveri, previsti dal Trattato. In particolare, possono circolare e soggiornare liberamente nei territori dell’Unione, hanno diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del parlamento europeo nello Stato membro di residenza; ove si trovino in un Paese terzo in cui lo Stato di provenienza non sia rappresentato, hanno diritto di beneficiare della tutela diplomatica e consolare di qualsiasi Stato membro dell’Unione; hanno diritto di petizione al Parlamento europeo e possono adire il Mediatore europeo. Tali diritti sono suscettibili d’integrazione, grazie a una clausola che consente al Consiglio dell’UE di adottare disposizioni intese a completarli.