CITTADINANZA (fr. droit de cité; sp. ciudadanía; ted. Staatsangehorigkeit; ingl. citizenship)
È l'appartenenza di una persona allo stato. Nel diritto privato, la cittadinanza non è più condizione indispensabile per il godimento dei diritti, giacché per l'art. 3 del nostro codice civile "lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini". Da ciò, però, non può trarsi la conseguenza che la cittadinanza abbia cessato di avere ogni importanza nel diritto privato. Basta ricordare che lo straniero rimane sempre soggetto alla legge dello stato cui apparteneva per tutto quanto riguarda il suo stato, la sua capacità personale e i rapporti di famiglia. Da ciò deriva che vi possono essere dei diritti civili che la legge nostra ammette, e che, tuttavia, non appartengono agli stranieri o appartengono ad essi con maggiori o minori limitazioni di quelle riconosciute dalla legge.
Il legislatore italiano collocò le disposizioni relative alla cittadinanza, ai modi come si acquista, si perde, si riacquista nel 1° titolo del cod. civ. (articoli 4 a 15). Ma esse si rivelarono inadeguate di fronte alle mutate condizioni politiche e sociali dell'Italia, specie per l'influenza dell'imponente fenomeno dell'emigrazione transoceanica; sicché occorse modificare le norme esistenti. A ciò si provvide in parte con la legge sull'emigrazione del 31 gennaio 1901, n. 23, e in parte con la legge Sonnino 17 maggio 1906, n. 217. La riforma organica e complessa dell'istituto si è attuata poi con la legge 13 giugno 1912, n. 555, anch'essa in seguito modificata. Una riforma radicale della legislazione vigente sulla cittadinanza contiene un progetto di legge, presentato al Senato, e già approvato da questo, che pur facendo tesoro delle norme migliori della legge 1912, le modifica, tenendo conto delle nuove esigenze nazionali.
La cittadinanza può essere originaria, in quanto si nasce cittadini, e acquisita, in quanto si diventa cittadini di uno stato.
Cittadinanza originaria. - Nell'attribuzione della cittadinanza per effetto della nascita, due principî opposti si sono disputati la prevalenza: il rapporto di filiazione (ius sanguinis) e il rapporto territoriale (ius loci); ma il primo, negli stati d'Europa, ha finito col trionfare, meutre negli stati americani predomina il secondo. Sennonché il principio dello ius sanguinis, pur essendo fondamentale per l'acquisto della cittadinanza per nascita, non può essere assoluto ed esclusivo, ma deve contemperarsi col principio dello ius loci. È cittadino per nascita il figlio di padre cittadino, o di madre cittadina, se il padre è ignoto o non ha la cittadinanza italiana, né quella di altro stato, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza del padre straniero secondo la legge dello stato al quale questi appartiene (articoli 1, n. 1 e 2 della legge 13 giugno 1912). Lo stesso avviene per il figlio naturale riconosciuto o dichiarato durante la minore età, con prevalenza della cittadinanza del padre anche se la paternità sia riconosciuta o dichiarata posteriormente alla maternità. Se, però, il figlio riconosciuto o dichiarato è maggiorenne o emancipato, conserva il proprio stato di cittadinanza, ma entro l'anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale, può dichiarare di eleggere la cittadinanza determinata dalla filiazione (art. 2 di detta legge). Nel nuovo progetto il principio è capovolto: cioè il figlio maggiorenne o emancipato acquista la cittadinanza del padre, ma può rinunziarvi entro l'anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale (art. 2). Gli stessi effetti del riconoscimento per l'acquisto della cittadinanza per nascita produce la legittimazione. Viceversa, nessun effetto può avere nell'acquisto della cittadinanza il rapporto di adozione, giacché l'adottato conserva i diritti e i doveri verso la famiglia naturale (art. 212 cod. civ.). La legge del 1912 esplicitamente, poi, stabilisce nello stesso art. 2, che le sue disposizioni si applichino anche ai figli la cui paternità e matemita consti in uno dei modi indicati nell'art. 193 del cod. civ. A particolare deroga del principio secondo il quale la cittadinanza è attribuita in base allo ius sanguinis, il n. 3 dell'art. 1 della legge del 1912 dispone che è cittadino per nascita chi è nato nel regno se entrambi i genitori siano ignoti, o, pur essendo noti, siano privi di qualsiasi cittadinanza, ovvero appartengano a uno stato la cui legislazione non attribuisca ai figli la cittadinanza per vincolo di sangue; e l'ultimo capoverso dello stesso articolo dispone che il figlio d'ignoti trovato in Italia si presume, fino a prova contraria, nato nel regno.
Cittadinanza acquisita. - La cittadinanza italiana si acquista: per beneficio di legge; per naturalizzazione; per matrimonio; per mutamento di cittadinanza del marito o del genitore; per annessione territoriale.
a) Per beneficio di legge. - Il legislatore italiano ha contemplato speciali circostanze per le quali alcune categorie di persone, benché straniere per nascita, hanno con la patria nostra un qualche legame, che deve valere loro per acquistare la cittadinanza italiana senza bisogno di chiedere e ottenere la naturalizzazione, ma solo con un atto o fatto dal quale si rilevi la volontà di divenire cittadini italiani (acquisto della cittadinanza per beneficio di legge).
La legge (art. 3 della legge del 1912) stabilisce un doppio ordine di condizioni per accordare la cittadinanza per beneficio di legge, generali e particolari, che presuppongono l'esistenza delle prime e che consistono in atti o fatti coi quali si manifesta la volontà di acquistare la cittadinanza italiana. Le condizioni generali sono: a) esser nato nel regno; b) essere figlio di genitori residenti nel regno almeno da 10 anni al tempo della nascita; c) discendere da padre e madre o da avo paterno, che siano stati cittadini per nascita. Non occorrono tutte queste condizioni, ma solo una perché, congiunta a una delle condizioni particolari, possa ammettere all'acquisto della cittadinanza per beneficio di legge. Nel recente progetto di legge si riduce a 5 anni la residenza minima nel regno da parte dei genitori al tempo della nascita e non si richiede più che il padre o la madre o l'avo paterno siano stati cittadini per nascita: basta che siano stati comunque cittadini (art. 3). Le condizioni particolari sono: a) prestazione di servizio militare o accettazione d'un impiego pubblico dello stato; b) residenza nel regno al 21° anno e dichiarazione, entro il 22° anno, di eleggere la cittadinanza italiana; c) residenza nel regno da almeno 10 anni senza manifestare la volontà di conservare la cittadinanza straniera.
b) Per naturalizzazione. - Il codice civile contemplava due forme di naturalizzazione: l'una, ottenuta per legge, detta grande naturalità; l'altra, per decreto reale, detta piccola naturalità. La prima conferiva allo straniero tutti i diritti politici; l'altra, invece, gli conferiva tutti i diritti, eccetto quelli dell'elettorato politico e dell'essere giurato, a meno che si trattasse di italiani non regnicoli. La legge sull'emigrazione 31 gennaio 1901, n. 23, introdusse la naturalizzazione per decreto del ministro dell'Interno, innanzi ricordato, e la legge del 17 maggio 1906 ammise, per speciali circostanze, la naturalizzazione per decreto reale, previo parere favorevole del Consiglio di stato, con la conseguenza di fare acquistare i diritti politici, eccettuata l'eleggibilità a membro del parlamento, sino a che non fossero trascorsi sei anni dal decreto di concessione. Per la legge del 13 giugno 1912, essendo semplificato tutto il complesso sistema che si era venuto formando, e risultando abrogati l'art. 10 del cod. civ., l'art. 36 della legge sull'emigrazione dal 1901 e la legge 17 maggio 1906, le forme della uaturalizzazione sono: a) la naturalizzazione per decreto reale (art. 4); b) la naturalizzazione per legge (art. 6). È poiché anche la naturalizzazione per decreto reale produce l'acquisto dei diritti politici, non ha ragione d'essere la distinzione tra grande e piccola naturalità. Appunto per questo maggiore effetto attribuito alla naturalizzazione per decreto reale, essa non è più lasciata alla libera discrezione del govenno, ma è subordinata all'esistenza di particolari condizioni.
Essa, cioè, può essere concessa, previo parere . favorevole del Consiglio di stato: a) allo straniero che abbia prestato servizio per tre anrii allo stato italiano anche all'estero; b) allo straniero che risieda da almeno cinque anni nel regno; c) allo straniero che risieda da tre anni nel regno e abbia reso notevoli servigi allo stato o abbia contratto matrimonio con una cittadina italiana; d) dopo un anno di residenza, a chi sarebbe potuto diventare cittadino italiano per beneficio di legge, se non avesse omesso di farne, in tempo utile, espressa dichiarazione. Nel nuovo progetto sono contemplati altri due casi: di chi abbia ottenuto da almeno tre anni la piccola cittadinanza, e dello straniero adottato da un cittadino italiano (art. 6). Eccezionalmente, per il r. decr.-legge 10 settembre 1922, n. 1387, modificato dal r. decr.-legge 14 gennaio 1923, n. 1418, l'osservanza delle suddette condizioni non occorre allorché si tratti di maggiorenni o emancipati celibi, monogami, o vedovi, anche non residenti nel regno, che: o appartengano a famiglie di origine italiana, le quali abbiano perduta la cittadinanza originaria; o godano la protezione italiana o l'abbiano goduta anteriormente e non siano attualmente protetti da alcun altro stato; o abbiano dato prova non dubbia di sentimenti d'italianità e offrano serie garanzie di contribuire al mantenimento del buon nome e del prestigio italiano. Ricorrendo uno di tali casi, la naturalizzazione per decreto reale può essere concessa su proposta del ministro dell'Interno di concerto col ministro degli Affari esteri. Però il decreto reale non avrà effetto se la persona a cui la cittadinanza è concessa non presti giuramento di essere fedele al re e di osservare lo statuto e le altre leggi dello stato (art. 4 legge 13 giugno 1912). Il nuovo progetto stabilisce che il giuramento dev'essere prestato entro 10 giorni dalla concessione (art. 7).
Accanto alla naturalizzazione per decreto reale, è rimasta, nel sistema della legge del 1912, ma con una funzione assolutamente subordinata, la naturalizzazione per legge, la quale ha perduto ogni importanza dopo che anche alla naturalizzazione per decreto reale fu attribuito l'effetto dell'acquisto dei diritti politici. Anzi, deve dirsi che, dopo il r. decr.-legge 10 settembre 1922, la legge, come forma di concessione della naturalizzazione, ha perduto anche quella relativa importanza che aveva nel sistema della legge del 1912; in essa infatti era disposto che la cittadinanza potesse essere concessa "con legge speciale a chi avesse reso all'Italia servizî di eccezionale importanza", non richiedendosi, per questa formia di naturalizzazione, l'adempimento delle condizioni prescritte dall'art. 4 della legge, e prescindendosi, in specie, dall'elemento della residenza. Il regio decr.-legge del 1922 ha però reso possibile la naturalizzazione per decreto reale anche a chi non si trova in alcuna delle condizioni prescritte dall'art. 4 della legge del 1912, compresa quella della residenza; ed esige, tra le altre, la condizione di aver dato prova non dubbia di sentimenti d'italianità; lo scopo cui si mirava con la forma più solenne della legge è quindi perfettamente raggiunto dal decreto reale e la naturalizzazione concessa per legge si differenzia ormai da quella concessa per decreto reale solo in quanto spiega i suoi effetti immediatamente, cioè dal giorno successivo a quello in cui la legge è entrata in vigore, e ciò anche a norma dell'articolo 13 della legge del 1912, non essendo la legge speciale attributiva di cittadinanza subordinata a condizioni o formalità di sorta.
Nel nuovo progetto si è riprodotta la cosiddetta piccola naturalità perché con l'art. 4 si dispone che la cittadinanza italiana, "senza il godimento dei diritti politici e senza gli obblighi del servizio militare" può essere concessa per decreto reale, udito il Consiglio di stato, a stranieri anche non residenti nel regno, i quali appartengano a famiglie di origine italiana, e abbiano dato prove non dubbie di sentimenti d'italianità, ed offrano serie garanzie di contribuire al mantenimento del buon nome italiano. Si attribuisce, inoltre, la piccola cittadinanza ai cittadini delle isole italiane dell'Egeo, pur conservando ad essi lo statuto personale. Ai medesimi può essere concessa la cittadinanza comprendente l'acquisto dei diritti politici e l'obbligo del servizio militare, con decreto reale, udito il governatore delle isole e su parere favorevole del Consiglio di stato.
c) Per matrimonio. - L'art. 10 della legge del 1912, dopo aver fissato il principio generale che la donna maritata non può assumere cittadinanza diversa da quella del marito, anche se esista separazione personale fra i coniugi, ha ammesso, di conseguenza, che, per effetto del matrimonio con un italiano, la donna straniera acquista la cittadinanza del marito. La donna straniera che col fatto del matrimonio ha acquistato la cittadinanza italiana, la conserva anche vedova senza aver l'obbligo di continuare a tenere il domicilio o la residenza nel regno, salvo che, ritenendo o trasportando all'estero la sua residenza, riacquisti la cittadinanza d'origine, ciò che le è facilitato dall'art. 12 del nuovo progetto.
d) Per mutamemo di cittadinanza del marito o del genitore. - Se il marito straniero diviene cittadino, la moglie acquista la cittadinanza quando mantenga comune con lui la residenza. Se però i coniugi siano legalmente separati e non esistano figli dal loro matrimonio, può la moglie dichiarare di voler conservare la cittadinanza propria (art. 11 della legge). Del pari, i figli minori non emancipati, legittimi o naturali riconosciuti, di chi acquista o ricupera la cittadinanza, divengono cittadini, salvo che, risedendo all'estero conservino, secondo la legge dello stato cui appartengono, la cittadinanza straniera. Il figlio, però, dello straniero per nascita, divenuto cittadino, può, entro l'anno dal raggiungimento della maggiore età o della conseguita emancipazione, dichiarare di eleggere la cittadinanza d'origine. Quando, però, la madre vedova, esercente la patria potestà, acquista una nuova cittadinanza, in conseguenza del passaggio a nuove nozze, tale cittadinanza non si comunica ai figli di primo letto, la cittadinanza dei quali rimane inalterata (art. 12 della legge). Sicché nel caso di nuove nozze, l'acquisto della cittadinanza da parte della madre rimane pienamente individuale. Si noti, però, che la legge parla di madre vedova nell'esercizio della patria potestà; di passaggio a nuove nozze, di figli di primo letto; quindi la non estensione dell'acquisto della cittadinanza non si applica come, forse, sarebbe stato logico, ai figli naturali.
e) Per annessione territoriale. - Un modo eccezionale di acquisto della cittadinanza è quello che si verifica per annessione all'Italia del territorio già appartenente ad altro stato. Questo modo di acquisto, che, in sostanza, è una naturalizzazione collettiva, differisce da tutti gli altri perché non considera gl'individui personalmente, ma come collettività. Né il codice civile, né la legge 13 giugno 1912 hanno contemplato questo modo di acquistare la cittadinanza, che, data la sua eccezionalità, non può essere regolato con norme fisse, ma con trattati speciali tra gli stati, o con una legge interna.
Perdita della cittadinanza. - La cittadinanza italiana si perde: per rinunzia espressa; per rinunzia tacita; per matrimonio della cittadina italiana con uno straniero; per mutamento di cittadinanza del marito o genitore; per cessione di parte del territorio nazionale; per indegnità.
a) Par rinunzia espressa. - In due soli casi la legge del 1912 fa dipendere la perdita della cittadinanza da rinunzia espressa.
Il primo è contemplato dall'art. 7 il quale dispone: "salvo speciali disposizioni da stipulare con trattati internazionali, il cittadino italiano nato e residente in uno stato estero dal quale sia ritenuto proprio cittadino per nascita, conserva la cittadinanza italiana, ma divenuto maggiorenne o emancipato può rinunziarvi". Si è voluto così provvedere allo stato dei figli dei nostri emigrati nati in un paese estero, la legge del quale, nell'attribuzione della cittadinanza per nascita, faccia prevalere lo ius loci, come accade specialmente in America. Tale rinunzia dev'essere fatta innanzi all'agente diplomatico o consolare del luogo dove il rinunziante risiede (art. 5 regol. 2 agosto 1921). L'altro caso è contemplato dal n. 2 dell'art. 8, secondo il quale perde la cittadinanza "chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana, e stabilisca o abbia stabilito all'estero la propria residenza".
b) Per rinunzia tacita. - Essa dipende da alcuni fatti tassativamente determinati dal legislatore, inconciliabili col mantenimento della cittadinanza italiana.
Il primo, e più notevole, è l'acquisto spontaneo di una cittadinanza straniera con lo stabilire all'estero la propria residenza (art. 8, n. 1). Il secondo caso, secondo la legge del 1912, si verificava in rapporto a colui che, avendo accettato impiego da un governo estero o essendo entrato al servizio militare di potenze estere, vi persistesse nonostante l'intimazione del governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l'impiego o il servizio, senza esimersi, però, dagli obblighi del servizio militare (art. 8, n. 3). La legge del 1912 aveva in questo punto notevolmente modificato il codice civile secondo il quale la perdita della cittadinanza avveniva per la semplice assunzione d' impiego o di servizio militare all'estero, senza il preventivo permesso del governo italiano. Un'ultima modificazione è stata apportata dalla legge 16 gennaio 1927, n. 1170, la quale obbliga il cittadino che voglia accettare un pubblico impiego o una carica pubblica all'estero, a farne preventiva notificazione al Ministero degli affari esteri (art.1), il quale può opporre il veto, o anche imporre l'abbandono dell'impiego o della carica regolarmente accettati (art. 2). L'accettazione di tale impiego o carica pubblica non produce la perdita della cittadinanza per rinunzia tacita, nemmeno nel caso di disobbedienza all'ordine di abbandono; è però comminata la multa da 1000 a 5000 lire per chi non adempia all'obbligo della notificazione, e la reclusione da 3 mesi a un anno per chi persista nell'impiego anche dopo una formale ingiunzione di lasciarlo entro un termine perentorio (art. 4). La perdita della cittadinanza, secondo lo stesso art. 4, si verifica solo come effetto della condanna nel caso di impiego o carica conferita da enti che siano diretta emanazione di governi esteri o da istituti o uffici pubblici internazionali. Si può dubitare se tale conseguenza si verifichi anche quando non sia pronunziata condanna, per effetto di amnistia o di morte, di fronte alla disposizione poco felice di questo art. 4, il quale mentre dice che "la condanna produce la perdita della cittadinanza nei casi di impiego o carica conferiti da enti, ecc.", lascia, d'altra parte, "fermo il disposto dell'art. 8, n. 3, della legge 13 giugno 1912, per cui la perdita della cittadinanza era l'effetto della disobbedienza all'ordine di lasciare l'impiego". Radicali modificazioni apporta il nuovo progetto alla perdita della cittadinanza. Infatti non si ammette più la perdita de iure o dipendente dalla mera volontà dell'interessato e si stabilisce che può perdere la cittadinanza italiana colui il quale acquisti una cittadinanza straniera e dichiari di voler rinunziare a quella italiana e stabilisca effettivamente la sua residenza all'estero. Inoltre, perché la rinunzia sia efficace è necessario che il governo ne prenda atto. Si stabilisce poi che il governo può dichiarare la perdita della cittadinanza di chi, senza il suo permesso, accetti nel regno o all'estero un impiego o una carica di carattere pubblico da un governo estero, o da una corte che ne sia diretta emanazione (art. 9).
c) Per matrimonio. - La donna cittadina che si marita a uno straniero perde la cittadinanza italiana sempre che il marito possieda una cittadinanza che, per il fatto del matrimonio, a lei si comunichi (art. 10, ult. capov., legge del 1912).
d) Per mutamento di cittadinanza del marito o del genitore. - Se il marito cittadino diviene straniero, la moglie che mantenga comune con lui la residenza perde la cittadinanza italiana sempre che acquisti quella del marito (art. 11 legge del 1912). Ma se i coniugi siano legalmente separati e non esistano figli dal loro matrimonio, i quali, ai termini dell'art. 12, acquistino la nuova cittadinanza del padre, può la moglie dichiarare di voler conservare la cittadinanza propria (art. 11 ult. capov.). L'art. 13 del nuovo progetto, ispirandosi al principio difensivo della cittadinanza, dispone che, se il marito cittadino diviene straniero, la moglie non perde la cittadinanza italiana, ma può rinunziarvi, sempre che il Governo ne prenda atto. I figli minori non emancipati di chi perde la cittadinanza, divengono stranieri quando abbiano comune la residenza col proprio genitore esercente la patria potestà o la tutela legale, e acquistino la cittadinanza di uno stato straniero.
e) Per cessione di parte del territorio nazionale. - Come per l'acquisto della cittadinanza italiana per aggregazione politica, anche in questo caso la condizione giuridica di coloro che appartengono al territorio ceduto deve essere regolata da trattati e da leggi speciali che possono tener conto delle circostanze particolari, specialmente di carattere politico, nelle quali la cessione avviene.
f) Per indegnità. - Né il codice civile, né la legge del 1912 contemplavano il caso di perdita della cittadinanza per indegnità. Esso è stato regolato dalla legge 31 gennaio 1926, n. 108.
Per detta legge perde la cittadinanza colui che commette o concorre a commettere all'estero un fatto diretto a turbare l'ordine pubblico nel regno, o da cui possa derivare danno agl'interessi italiani o diminuzione del buon nome o del prestigio dell'Italia, anche se il fatto non costituisca reato. La perdita della cittadinanza in tal caso è pronunciata con decreto reale su proposta del Ministro dell'interno di concerto col ministro degli Affari esteri, sentito il parere di una commissione composta di un consigliere di stato, presidente, del direttore generale della pubblica sicurezza, di un direttore generale del Ministero degli esteri designato dal ministro per gli Affari esteri, e di due magistrati d'appello designati dal ministro per la Giustizia. Alla perdita della cittadinanza può essere aggiunto, su parere conforme della commissione di cui sopra, il sequestro, e, nei casi più gravi, la confisca dei beni. La perdita della cittadinanza importa perdita dei titoli, assegni e dignità spettanti all'ex-cittadino. Ma essa non influisce sullo stato di cittadinanza del coniuge o dei figli dell'ex-cittadino.
Riacquisto della cittadinanza. - Secondo l'art. 9 della legge del 1912, chi ha perduto la cittadinanza può riacquistarla: 1) se presti servizio militare nel regno o accetti un impiego dello stato; 2) se rinunzî alla cittadinanza straniera o all'impiego o servizio militare esercitato nonostante divieto del governo straniero, e stabilisca la residenza in Italia; 3) se sia risieduto due anni nel regno quando la perdita della cittadinanza era derivata da acquisto di cittadinanza straniera. Si deve notare, però, che il n. 2 del predetto art. 9 è stato tacitamente abrogato dalla legge 16 gennaio 1927 nella parte che riguarda l'accettazione dell'impiego o del servizio militare, giacche per questa legge, come abbiamo visto, la mancata notificazione al Ministero degli affari esteri o la disobbedienza all'ordine di questo di accettare o mantenere l'impiego, non produce la perdita della cittadinanza italiana, ma solo la condanna penale. Nei casi indicati dai numeri 2 e 3 sarà inefficace il riacquisto della cittadinanza se il governo lo inibisce. Tale facoltà potrà esercitarsi dal governo per ragioni gravi e su parere conforme del Consiglio di stato entro il termine di tre mesi dal compimento delle condizioni stabilite nei detti numeri 2 e 3, se l'ultima cittadinanza straniera sia di uno stato europeo, o altrimenti entro il termine di sei mesi. È ammesso, poi, il riacquisto della cittadinanza senza obbligo di stabilire la residenza nel regno in favore di chi abbia da oltre due anni abbandonato la residenza nello stato cui apparteneva, per trasferirsi in altro stato estero di cui non assuma la cittadinanza: è necessario, però, il preventivo permesso del riacquisto da parte del governo.
Il riacquisto della cittadinanza si verifica anche nei rapporti della moglie, come conseguenza del riacquisto della cittadinanza da parte del marito, e ciò in virtù del principio generale, consacrato nella prima parte dell'art. 10 della legge del 1912, per cui "la donna maritata non può assumere una cittadinanza diversa da quella del marito, anche se esista separazione personale fra coniugi", sempre, s'intende, che anche la moglie stabilisca o abbia stabilito nel regno la sua residenza a norma dell'art. 9. Come, del pari, per espressa disposizione dello stesso art. 10, la donna che per effetto del matrimonio ha perduto la cittadinanza, in caso di scioglimento di questo, ritorna cittadina se risieda nel regno o vi rientri, e dichiari in ambedue i casi di voler riacquistare la cittadinanza. Alla dichiarazione equivarrà il fatto della residenza nel regno protratta oltre un biennio dallo scioglimento, qualora non vi siano figli di detto matrimonio.
Apolitia e doppia cittadinanza. - Uno degli scopi precipui che la legge del 1912 si propose fu quello di evitare, per quanto possibile, il fenomeno dell'apolitia che molto facilmente si verificava invece secondo il sistema dell'art. 4 e seguenti del codice civ. Ma nemmeno essa ha potuto cancellare questo fenomeno e, quindi, ha dovuto regolarlo, e nell'art. 14 ha stabilito che "chiunque risieda nel regno e non abbia la cittadinanza italiana, né quella di altro stato, è soggetto alla legge italiana per quanto si riferisce all'esercizio dei diritti civili e agli obblighi del servizio militare". Sicché la legge italiana ha preferito il criterio della residenza a quello del domicilio, prevalente nella dottrina. L'apolide, dunque, che abbia residenza in Italia, gode dei diritti che la legge italiana attribuisce ai cittadini, e li esercita in conformità della stessa legge. Egli, perciò, in rapporto ai diritti privati, è equiparato ai cittadini.
Un fenomeno inverso a quello dell'apolitia, e altrettanto anormale, è quello della doppia cittadinanza, che è impossibile eliminare per i criterî diversi che regolano nei varî paesi l'attribuzione, la perdita e il mutamento della cittadinanza. Una larga corrente di idee, criticata, però, dallo Scialoja al secondo congresso degl'Italiani all'estero, si è manifestata negli ultimi tempi, per dare al fenomeno della doppia cittadinanza un riconoscimento giuridico, in guisa, cioè, che la contemporanea appartenenza politica a due stati sia affermata e regolata. Il problema fu studiato, nell'elaborazione della legge del 1912, ma unanime fu il parere di non accettare il sistema della doppia cittadinanza. Esiste, così, nella nuova legge, la possibilia che un individuo abbia una doppia cittadinanza, ma essa è l'effetto inevitabile del conflitto tra leggi ispirate a principî fondamentali diversi nell'attribuzione della cittadinanza; infatti, mentre per la prevalenza dello ius sanwinis, su cui è fondato il nostro sistema legislativo, è cittadino italiano il figlio, dovunque nato, di genitori italiani, costui può essere contemporaneamente cittadino dello stato ove è nato, se in esso prevalga lo ius loci.
Tale anormale fenomeno di individui con doppia cittadinanza non può essere eliminato se non per via di accordi internazionali. Il legislatore italiano ha cercato, però, di temperarlo, riconoscendo al cittadino, ritenuto contemporaneamente cittadino d'un altro stato, il diritto a rinunziare alla cittadinanza d'origine.
Bibl.: F. S. Bianchi, Corso di cod. civ., IV, Torino 1890; P. Fiore, Della cittadinanza e del matrimonio, Napoli-Torino 1909; N. Samama, Contributo allo studio della doppia cittadinanza, Firenze 1910; S. Gemma, Legge 13 giugno 1912 sulla cittadinanza, Roma 1913; Capalozza, La cittadinanza nell'odierno ordinamento giuridico, Napoli 1913; Riv. di dir. civile, 1916, pp. 485, 506; 1918, p. 146. F. Marinoni, Della condiz. giuridica degli apolidi secondo il diritto it., in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, II (1913-1914); G. C. Buzzati, La legge sulla citt. 13 giugno 1912, in Riv. di dir. civile, (1914), pp. 289, 441; F. De Dominicis, Commento alla legge sulla citt. it., Torino 1916; Ravizza, Naturalizzazione, in Digesto it., Torino; O. Sechi, Cittadinanza, in Digesto it., Torino; F. Degni, Della cittadinanza, Napoli-Torino 1921.
Storia.
La cittadinanza in Grecia. - Il concetto di cittadinanza greca è inscindibile dal concetto stesso di città. Si è cittadini in quanto si fa parte di una πόλις, la quale d'altronde non è un'espressione geografica né topografica dacché entro la cerchia delle mura d'una città sono anche raccolti molti che non partecipano affatto del diritto di cittadinanza; la πόλις invece, è, secondo la definizione di Aristotele "niente altro che la moltitudine dei cittadini". Dato questo, non sarà concepibile una vera interpretazione del concetto di cittadinanza se non attraverso la pratica della effettiva partecipazione alla vita pubblica della città in tutte le sue forme, cioè una partecipazione, almeno in potenza o in teoria, alla pubblica amministrazione, alle magistrature, al culto, a tutte le forme collettive di autorità civica. Il cittadino si avvicinerà sempre più alla realtà e alla perfezione del concetto di cittadinanza, quanto più potrà partecipare alle funzioni pubbliche, giudiziarie e amministrative, cioè eserciterà i suoi diritti come giudice e membro delle assemblee pubbliche, grazie alle quali mansioni è assicurato permanentemente (e non accidentalmente) l'esercizio dell'appartenenza alla città e dei diritti derivanti dal titolo di cittadino.
I diritti fondamentali del cittadino. - Il cittadino che partecipa all'attività legislativa e giudiziaria della πόλις è tenuto a obbedire a quei verdetti e a quelle leggi che egli ha, almeno virtualmente, contribuito a formulare. Il cittadino dunque, in quanto tale, deve obbedienza alla legge e ossequio ai culti della città; ed ha diritto alla tutela e a tutte le facoltà che la legge gli consente.
Acquisto e perdita della cittadinanza. - Nascita o acquisto sono i due fondamenti del legittimo godimento del diritto di cittadinanza.
Il diritto di cittadinanza per nascita veniva ipso iure a chi nasceva da unione regolare di un cittadino e una cittadina della stessa città. Tuttavia l'avversione ai matrimonî fra cittadini di città diverse non fu sempre prevalente. Per una consuetudine risalente all'età omerica, nelle famiglie più elevate e aristocratiche permase l'uso di matrimonî con donne d'insigni famiglie straniere. Naturalmente le teorie democratiche, attuando la concezione rigida del diritto di cittadinanza, resero meno agevole l'acquisto del diritto di cittadinanza, e interpretarono il diritto di nascita con l'esclusione dei nati da un solo gemtore cittadino. Il riconoscimento del diritto di cittadinanza ai nati da genitori di città diverse era solo possibile in seguito a una generica ammissione di una città al diritto di connubio. Queste restrizioni non si trovano applicate dai tiranni, per i quali non esistono che sudditi.
La cittadinanza può anche essere acquisita: e l'acquisto può avvenire o collettivamente o individualmente. Fra gli esempî di concessìbne collettiva si ricordano quelli di accoglimento in un corpo di cittadinanza dei superstiti di altra cittadinanza di città distrutta. Notevole, per es., fu la concessione fatta nel 405-4, dopo Egospotami, del pieno diritto di cittadinanza ateniese ai Samî, in premio della loro fedeltà; nel sec. VI Delfi, per riconoscenza verso Creso, concesse il diritto di cittadinanza a ciascun Lidio che ne facesse richiesta. Le concessioni collettive avvenivano poi anche con i trattati di συμπολιτεία (v. appresso). Particolari concessioni collettive furo1io quelle a gruppi o classi di persone, come per esempio quella fatta in Atene, nel 406, ai meteci arruolatisi come rematori volontari nella flotta che vinse alle Arginuse.
Tuttavia la maggior parte dei decreti di concessione di cittadinanza erano a beneficio dei singoli, e per solito motivati con servigi resi alla città, o con benemerenze acquisite. Anche queste concessioni, però, potevano essere variamente graduate, dacché insieme con l'ammissione alla cittadinanza, si poteva lasciare alla libera scelta, oppure determinare d'autorità, l'iscrizione alle suddivisioni religiose, politiche e amministrative della città, o anche sottoporre l'iscrizione della patria prescelta al consenso della stessa; ma per lo più si concedevano pieni diritti di cittadinanza, non escluso quello di ricevere eredità. All'infuori di qualche periodo, di regola la concessione dei diritti di cittadinanza era, in tutta la Grecia in generale, e particolarmente in qualche città, come a Sparta, assai difficile e assai cautelata. La motivazione di queste concessioni è (ad Atene per legge) quasi sempre l'ἀνδραγαϑία (oppure altre indicazioni simili) di chi ne beneficia; solo eccezionalmente delle concessioni collettive vengono motivate con l'ὀλιδρανϑρωπία cioè la crisi della popolazione. Come minori concessioni per benemerenze si potevano dare diritti parziali dei cittadini, come l'inviolabilità della persona e dei beni (ἀσυλία), l'esenzione da ogni peso o tributo (ἀγκέλεια), la facoltà di sottoporvisi soltanto nella misura fissata per i cittadini (ἰσοτέλεια), la facoltà di possedere case e terreni (ἔγκτησις). Connesso ordinariamente con l'una o con l'altra di queste concessioni era la προξενία, ufficio onorifico il cui compito era di dare aiuto e assistenza ai cittadini di passaggio per la città del prosseno. Alla prossenia fu talvolta unito il titolo di benefattore (εὐεργέτης), spesso congiunto alla concessione dell'intero diritto civico per benemerenze. Di regola poi, chi acquistava la cittadinanza in una città, non perdeva i suoi diritti nella città di origine.
La cittadinanza, oltre che volontariamente, per partecipare alla fondazione di una colonia, si poteva perdere per motivi penali, in parte o del tutto, temporaneamente o definitivamente, e cioè per ἀτιμία, per bando o per esilio. Chi era colpito da ἀτιμία perdeva i diritti legali spettanti alle persone, alla famiglia e ai beni del cittadino. Ogni rapporto contrattuale con il condannato perdeva vigore, come con uomo divenuto straniero. Il bando, pena più grave, consisteva nel dichiarare l'ἄτιμος anche nemico pubblico (πολέμιος). Fra l'una e l'altra pena vi era l'esilio. Competente per applicare siffatte pene, comportanti la totale o parziale abrogazione del diritto di cittadinanza, era soltanto chi aveva la sovranità; e cioè, nelle democrazie, l'assemblea popolare.
Suddivisioni della cittadinanza. - La cittadinanza, come s'è visto, non coincide con la massa degli abitanti entro le mura d'una città. Naturalmente, però, fra i cittadini vi erano per ragioni genetiche, familiari, religiose, politiche, amministrative o fiscali, diverse suddivisioni. Varie necessità imposero o consigliarono lo sviluppo autonomo di antichissime associazioni sorte senza intervento statale, come i fidizî spartani o le agele cretesi, e aventi carattere giudiziario e religioso. A rendere più rigide queste libere eterie, per solito mutevoli ed effimere, s'introdusse la pratica di farle ereditarie, introducendovi ogni padre i suoi figli quando questi avessero raggiunta una certa età: e con questa modificazione la libera associazione si mutò in fratria, che assunse il carattere di associazione familiare o gentilizia. Da gruppi di fratrie si istituirono in seguito (v. fratria) le antiche tribù (ϕυλαί) gentilizie, che ebbero in guerra e in pace funzioni simili e più importanti di quelle delle fratrie (v. file). Accanto a questi ordinamenti svoltisi per forza propria nell'orbita dello stato-città, vi sono altre associazioni, come le genti (il γένος), sorte artificialmente, fondate sul concetto della nobiltà familiare e sulla comune origine illustre o pretesa tale che unisce i singoli aderenti (v. gente). In seguito, quando l'elemento aristocratico delle fratrie si era raccolto nelle genti, coloro che ne erano esclusi, per non restare isolati si riunivano in gruppi o collegi detti tiasi o orgeoni (v. tiaso). Nell'epoca classica le fratrie ateniesi, divise in genti e tiasi, ebbero la funzione di tutelare le liste dei cittadini e di registrare lo stat0 civile per farsene garanti in caso di contestazione. Questi ordinamenti antichissimi subirono notevoli modificazioni anche in seguito alle lotte politiche e di classi. Nell'epoca più antica la città comprende quattro classi sociali: i nobili (o cavalieri), i piccoli proprietarî (o zeugiti), i demiurghi ed i teti.
Queste divisioni facilitarono l'ordinamento, instaurato per ragioni fiscali, delle classi censitarie. Classi che rappresentavano, più che altro, il riconoscimento dello stato di fatto preesistente, e servivano per agevolare la determinazione del livello delle imposte (v. censimento). Questi distretti fiscali furono assai impopolari e vennero poi aboliti da Clistene. Successive divisioni della cittadinanza furono introdotte con criterio territoriale tanto nell'Attica quanto in altre parti della Grecia. Ma così l'antica suddivisione in tribù e fratrie come quella a puro scopo fiscale non parvero rispondenti alle esigenze dello sviluppo statale: perciò Clistene prendendo a fondamento una divisione territoriale, ordinò la popolazione attorno ai centri di effettiva residenza, i demi, i quali regolacono l'esercizio dei diritti politici e curarono, accanto alle fratrie, le iscrizioni nelle liste dei cittadini. Con questa riforma, dopo Clistene, in Atene il possesso del titolo di cittadino non era più esclusivamente annesso all'appartenenza a una fratria, ma richiedeva altresì l'iscrizione a un demo. I gruppi di demi formarono trittie e le trittie costituirono le dieci nuove tribù territoriali, suddivisioni, a un tempo, del territorio e della popolazione. Questa organizzazione, nella quale i nuovi ordinamenti vivevano accanto a quelli tradizionali, non subì , più notevoli mutamenti: solo le istituzioni più antiche assunsero un valore soprattutto culturale e non ebbero più importanza neppure per l'ordinamento militare.
Forme complesse di cittadinanza. - La συμπολιτεία creava, per mezzo di rapporti contrattuali fra due o più città, una tale situazione di diritto pubblico per cui i singoli contraenti riconoscevano come loro cittadini i cittadini delle altre città legate al trattato; simili accordi potevano intervenire tra due città, però la forma più frequente era quella che creava un nuovo diritto di cittadinanza, come nei sinecismi (v. sinecismo). Συμπολιτεία vi era anche nelle leghe o nelle confederazioni quando si creava un doppio diritto di cittadinanza, non come nei semplici trattati, per i quali i cittadini di una città erano tali anche nell'altra o nelle altre contraenti, bensì nel senso che vi era oltre al diritto di cittadinanza che i singoli avevano nelle loro rispettive città, una κοινοπολιτεία o diritto di cittadinanza federale: così, p. es., il diritto di cittadinanza federale che coesisteva con i particolari diritti di cittadinanza delle città componenti le leghe. Organo competente per concedere (o ritirare, per atimia) il diritto di cittadinanza federale era quello corrispondente all'assemblea popolare nelle πόλεις; cioè il supremo consesso della federazione, qualunque nome esso avesse e comunque fosse composto. Poteva anche essere dato il diritto di cittadinanza federale, per motivi onorarî o simili, a chi non fosse ancora cittadino di alcuna città federata: però in questi casi è verosimile che fosse obbligatorio ottenere da una città quel diritto di cittadinanza onoraria, l'acquisto del quale non faceva perdere il diritto nella città di origine e che doveva essere condizione necessaria per il diritto di cittadinanza federale. Anche più complesso era il diritto di cittadinanza quando interveniva il principio della ἰσοπολιτεία, cioè la concessione dei diritti eguali a quelli dei cittadini, ai cittadini dell'altro stato contraente, o a quelli che ne facessero richiesta.
Nell'età ellenistica, nelle città greche permasero sostanzialmente immutate, anche se notevolmente diminuite di significato, le antiche istituzioni relative al diritto di cittadinanza, dacché queste città erano in rapporti di puri e semplici legami federali (almeno apparentemente) con le monarchie; mentre nei territorî di diretto dominio dei re, non si può più, per contro, parlare di diritto di cittadinanza come era inteso dal pensiero politico e dalla dottrina costituzionale greca. Infatti, ove il potere politico deliberativo ed esecutivo risieda in una sola persona, secondo la tradizionale teoria greca, questa persona è lo stato stesso, e nessun altro ha cittadinanza, cioè diritti e potere politico, all'infuori di costui. Nelle monarchie ellenistiche tutti sono sudditi, anche i Macedoni e i Greci, mentre nelle città rimaste, di nome, libere e nelle repubbliche federali, come in quella della Cirenaica, permane l'antico diritto di cittadinanza con molte delle tradizionali regole relative. Però anche nelle monarchie, se non si può parlare di cittadini come sono intesi dal punto di vista classico, vi sono varie categorie di sudditi e i Macedoni e i Greci non sono pari con le altre genti. Gli uni vivono κατὰ πόλεις, gli altri κατὰ κώμας; e, per es., in Egitto e anche a Pergamo, i Greci sono πολῖται, s'iscrivono ai demi e ricevono i privilegi efebici, e, dal punto di vista amministrativo, hanno quelle autonomie che le monarchie hanno tolto nel campo politico. Non si tratta quindi di cittadinanza altro che di nome: in realtà non sono che privilegi a particolari categorie di sudditi.
Fonti: La maggior copia di notizie su questo argomento si attinge alla Politica e alla Costituzione di Atene di Aristotele: ma tutti i dati relativi alle città greche all'infuori di Atene si devono desumere da documenti epigrafici, per i quali (oltre che ricorrendo alle più importanti raccolte di iscrizioni, e, in questo caso, principalmente a Collitz-Bechtel-Hoffmann, Sammlung der Griechischen Dialekt-Inschrijten, Gottinga 1886-1915) si troveranno i dati necessarî nelle opere principali che qui si indicano.
Szanto, Das griech. Bürgerrecht, Friburgo in B. 1895; Busolt, Griech. Staatskunde, I, Monaco 1920; Glotz, La cité grecque, Parigi 1928.
La cittadinanza in Roma. - Nel mondo latino, come col termine gentilitas s'indicò l'appartenenza dell'individuo al gruppo gentilizio, così con quello di civilitas si designò l'appartenenza alla civitas, formata oltre e sopra le genti. Vincolo permanente. Il civis (urbanus, municeps, oppidanus) si contrappose non pure al peregrinus che veniva di fuori per dimorare transitoriamente nella città, ma all'incola che, immigrando dal di fuori, collocava i suoi lari intra fines civitatis acquistandovi magari delle terre o all'advena (hospes), che si collocava sulle terre del cittadino. Così nel mondo greco si contrapponevano πολῖται, πάροικοι, ξένοι. Il civis fu propriamente colui che stava con pienezza di diritti intra muros; più tardi lo fu anche chi si pose intra cominentia aedificia, dandosi così la possibilità di cittadini extramurani. La qualità di civis si acquistava originariamente attraverso la nascita da padre cittadino, o, se non vi fossero state giuste nozze, attraverso la nascita da madre cittadina (nativitas, origo), o attraverso un imparentamento artificiale che assoggettasse alla patria potestas del cittadino (adoptio), o per volontà collettiva di chi già avesse la cittadinanza (decretum civium, ovvero decurionum). Anche la manomissione fatta dal cittadino romano secondo i riti quiriti dava allo schiavo, con la libertà, la cittadinanza. Avevano altresì diritto di essere assimilati ai cittadini romani i cittadini delle città legate a Roma da un foedus aequum, purché avessero rinunciato alla cittadinanza originaria. La qualità di civis si perdeva d'altra parte, oltre che per morte, per alienazione ad estranei da parte di colui del quale l'individuo fosse in potestate, o per solenne esclusione dalla società dei cittadini (aquae et ignis interdictio), o per prigionia di guerra generatrice di servitù o per migrazione in città equamente confederate con rinuncia alla cittadinanza romana (exiliu). Lo status civitatis aveva effetti non solo nell'ambito del diritto politico, ma anche nel diritto privato. La perdita della cittadinanza era considerata dai Romani come una deminutio capitis media, i cui effetti annullatori della personalità potevano solo essere eliminati attraverso il postliminium o temperati, per riguardo alla successione, dalla fictio legis corneliae. Non vi fu però rigorosa uguaglianza fra i cittadini. Non sempre il nuovo cittadino fu cioè pienamente assimilato al vecchio. Ai vecchi cittadini poteva esser limitato infatti il privilegio di partecipare alle magistrature, ai consigli, alle cariche cittadine. La voce civis fu però in età più recente usata spesso per indicare il curialis. Così nel mondo greco i πολιτεύοντες poterono essere contrapposti ai πολῖται. Con l'estendersi della dominazione di Roma, già sotto la repubblica, la cittadinanza romana fu da una legge Iulia estesa a tutti coloro che già erano cives di città italiche e da una legge Roscia a quelli che erano cives di città cisalpine. Costituitosi l'impero, il principe poté poi da solo attribuire la cittadinanza romana singolarmente e collettivamente. Caracalla la conferì probabilmente a tutti i cives delle città dell'impero. Ma non è vero che per lui tutti i sudditi dell'impero siano diventati cittadini romani: non lo divennero nemmeno sotto Giustiniano. Il civis romanus ancora nel sec. VI non fu il suddito tipico, ma un privilegiato fra i sudditi, che i Longobardi stessi non esitarono a paragonare ai proprî arimanni.
Bibl.: H. Michel, Du droit de cité romaine, Parigi 1885; R. Lesage de Lahaye, De l'acquisition et de la perte de la "Civitas romana", Parigi 1892; E. Binoche, Acquisition du droit de cité romaine, Parigi 1893; A. Delécaille, Du droit de cité à Rome, Parigi 1893.
La cittadinanza nel Medioevo e nell'età moderna. - Erroneamente si credette che le invasioni barbariche avessero travolto, con l'organizzazione cittadina, il rapporto di cittadinanza e che il feudalesimo avesse completata la rovina, non ammettendo altro nesso che il feudale. In Italia almeno, la città continuò la sua vita. Nello stesso periodo longobardo colui che viveva nel distretto, teneva, se lo era, a dichiararsi civis della città cui il territorio stesso apparteneva: i cives appaiono spesso ancora come quelli che potevano concorrere a reggere i destini della civitas. Restò anche rigido il contrapposto tra questa e il rus: la districtibilitas fu la nota precipua che distinse i rustici dai cives. Perciò appunto la civitatinantia si contrappose alla comitatinantia. Il civis era già in qualche modo un nobilis. Era l'intramurano, che, possedendo una casa entro le mura, aveva diritto a partecipare al regime e ai consigli della città. I popolari erano in origine esclusi dalla cittadinanza. Ma lo spostarsi delle mura portò con sé un progressivo allargamento della cerchia dei cittadini. Da ultimo la cittadinanza fu estesa ai borghesi; e la borghesia ne rappresentò il tipo medio. Non ogni privilegio scomparve. Continuò per un pezzo la distinzione fra cittadini nuovi e vecchi, che fu vieppiù consolidata là dove i vecchi giunsero, come a Venezia, a formare un corpo chiuso; altrove bastavano tre generazioni perché la differenza fosse cancellata. Ma ancora si distingueva fra cittadino continuo o assiduo o domestico, che stava in città la maggior parte dell'anno, e cittadino silvatico, che, vivendo alla campagna, minacciava sempre di confondersi con i rustici; e tra cittadino e abitatore, anche se la lunga abitazione poteva dare, dopo un certo termine, il passo all'acquisto della cittadinanza. Il giuramento di cittadinanza era diverso da quello dell'abitacolo, derivando da quello il dovere di far oste e parlamento e di aiutare il comune con le armi e il consiglio. Dalla diversità degli oneri derivava anche una diversità nel conferimento degli onori. Cittadino per eccellenza era colui che partecipava ai consigli e alle cariche. In Venezia questa partecipazione divenne privilegio della nobiltà; la cittadinanza, distinta in cittadinanza interna ed esterna abilitava solo a coprire gli uffici esecutivi. In Firenze la cittadinanza che abilitava alle cariche fu detta beneficiale e i beneficiali si trovarono distinti dai cittadini statali e dagli aggravezzati. Distinzioni analoghe si ebbero in molte altre città.
L'esser diventate parecchie città centri di organizzazioni statali più ampie e la designazione di città data per più secoli allo stato considerato appunto come una città più grande, permise in seguito di dare alla voce cittadino un significato più ampio. La cittadinanza fu intesa come sudditanza optimo iuret. Questa accezione si diffuse specialmente con l'influenza della Rivoluzione francese, la quale creò e definì la figura astratta del cittadino con la famosa dichiarazione dei diritti e dei doveri del cittadino. Ma già sotto i principati la posizione fatta a quelli che erano sudditi ratione sanguinis o ratione loci poté essere accordata anche allo straniero attraverso una concessione del principe. E si ebbe la possibilità di una naturalizzazione per legge o per rescritto, che, secondo l'ampiezza degli effetti, poté essere grande o piccola. Vi fu sempre una certa resistenza ad assimilare in pieno ai cittadini naturali quelli assunti o aggregati ex privilegio ovvero de gratia.
Bibl.: D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comunale, Torino 1916 (estratto dagli Studi senesi, XXXII).