Cittadinanza
Quello di cittadinanza è un concetto squisitamente occidentale, che deve la sua forma attuale alla Rivoluzione francese e alla tradizione repubblicana, benché le sue origini risalgano al mondo greco-romano. Sia sul piano astratto sia su quello concreto il concetto di cittadinanza ha a che vedere con la legittimazione del potere politico piuttosto che con l'idea di obbligo politico, anche se cittadinanza e obbligo politico sono correlati (v. Vernon, 1986, p. 11). Una relazione tra gli individui e lo Stato è sia reale che ideale, dato che include potenzialmente sia l'obbligo concreto del servizio militare che la fedeltà astratta alla propria nazione. Gran parte di ciò che è stato scritto sulla cittadinanza è un miscuglio di descrizione della pratica politica quotidiana e di idealizzazioni prescrittive dei ruoli che Stati e individui dovrebbero avere. Tracciare lo sviluppo dell'idea e della pratica di cittadinanza significa allora fare la storia dello sviluppo dello Stato e delle mutevoli relazioni tra Stati e individui, nonché la storia delle teorie sugli Stati e sul loro rapporto con gli individui posti sotto la loro giurisdizione. Il termine 'cittadinanza' deriva dal latino civis e civitas, e nel mondo antico denotava il rapporto politico di un individuo con il governo della città. La grande maggioranza dei membri della comunità nel mondo antico erano soggetti passivi piuttosto che partecipanti attivi.
Nel linguaggio giuridico attuale il termine 'cittadinanza' indica la relazione tra un individuo e uno Stato - qual è definita da quest'ultimo - e i diritti e i doveri che tale relazione comporta per l'individuo. I diritti politici, ovvero la possibilità di ricoprire pubblici uffici e il diritto di voto, sono di solito riservati ai cittadini; i doveri includono il servizio militare e la fedeltà alla nazione. La cittadinanza si acquisisce generalmente attraverso la nascita da un genitore che sia un cittadino (jus sanguinis), la nascita in un determinato territorio (jus soli), o la combinazione di questi due principî giuridici. La naturalizzazione, un altro mezzo per acquisire la cittadinanza, può richiedere, tra le altre cose, da 2 a 15 anni di residenza (periodo abbreviato dal matrimonio con un cittadino), l'età adulta, un attestato di buona salute e di buona condotta, una fonte di reddito e la rinuncia alla precedente cittadinanza.
L'idea greca di cittadinanza era comunitaria: metteva in rilievo l'appartenenza alla collettività e la partecipazione individuale alle cariche politiche. I cittadini erano figli di genitori a loro volta liberi cittadini, che di solito erano possidenti e guerrieri cui era proibito occuparsi di commercio. I cittadini potevano ricoprire cariche pubbliche e amministrare la giustizia, combinando in questo modo il ruolo sociale con obblighi e diritti: come afferma Aristotele, i cittadini partecipavano alla vita della città come governanti e come governati.
La base della comunità politica era data dalla partecipazione alla vita religiosa della città, la base della comunità sociale dalla struttura della famiglia. Le piccole dimensioni e l'autosufficienza delle città-Stato resero relativamente praticabile questo sistema di diritti e doveri connessi al rapporto di cittadinanza.
Agli stranieri era vietato prendere parte alla vita religiosa della città e diventare membri di una famiglia di cittadini. Tuttavia i meriti acquisiti nel prestare il servizio militare per le città greche potevano garantire alcuni dei diritti di cittadinanza (come la proprietà privata), e la protezione degli stranieri da parte di cittadini mitigava leggi e usanze altrimenti rigide. L'usanza romana di dichiarare cittadini gli schiavi liberati soltanto se entravano a far parte di una famiglia e ne prendevano il nome (di solito il nome del capostipite, che ne diventava il patrono) dimostra quanto importanti fossero i legami familiari per la cittadinanza.
L'autosufficienza della città greca significava l'isolamento politico e territoriale dalle altre città. Come scrive Fustel de Coulanges (v., 1864), "era più facile per una città sottometterne un'altra che annetterla". Per questo si rivelò quasi impossibile creare unità politiche ampie e durature, al di là di alleanze a breve termine strette per combattere pericoli immediati. I cittadini appartenevano completamente alle rispettive città: non soltanto i loro diritti e i loro doveri, ma tutti gli aspetti della loro vita privata - dall'istruzione al matrimonio, dal modo in cui si vestivano al modo in cui esprimevano il proprio dolore - riflettevano la loro appartenenza alla città. La libertà individuale era sconosciuta.
Due concezioni greche della cittadinanza ebbero un impatto profondo sui sistemi politici successivi: quella di Platone e quella di Aristotele. Secondo Platone un'élite attiva e responsabile avrebbe dovuto governare una comunità politicamente passiva, chiamata a condividere i benefici dell'amministrazione cittadina, ma senza prendere parte alle decisioni. Le città-Stato greche, dove una minoranza di cittadini maschi governava su una maggioranza di schiavi, donne e residenti privi di cittadinanza, probabilmente rispondevano abbastanza bene a questo modello, anche per quanto riguarda l'indicazione di Platone secondo cui il gruppo dirigente avrebbe dovuto sviluppare un rapporto affettivo nei confronti dei concittadini. Secondo Aristotele, invece, il potere doveva essere diviso tra i cittadini attraverso la partecipazione all'attività legislativa e giudiziaria, il che era contemporaneamente un onore e un dovere oneroso. Dato il suo fine superiore, l'associazione politica poteva esigere una lealtà maggiore di quella dovuta a ogni altra associazione collettiva. L'idea della partecipazione dei cittadini al governo doveva diventare la base della cittadinanza nelle democrazie moderne.
Guerre civili e guerre esterne portarono alla rovina le città-Stato greche, ma la loro struttura sociale e le loro basi filosofiche avevano già subito un considerevole cambiamento in conseguenza del loro declino. Cinici, epicurei e stoici attaccarono il rapporto tradizionale che aveva caratterizzato la condizione individuale nella società antica, sostenendo il valore dell'individuo indipendentemente dall'associazione politica di cui faceva parte. Tuttavia, mentre questa posizione "apriva la strada a un individualismo radicale fondato sull'interesse personale e rivolto all'autosufficienza" (v. Wolin, 1960, p. 79), non ci fu una chiara sostituzione dei ruoli sociali che gli individui avevano ricoperto. La 'legge' naturale e una 'simpatia' e una 'cittadinanza' universali presero il posto dell'ordine creato dall'uomo, con il risultato che la fedeltà ora era dovuta al 'cosmo'. La cittadinanza divenne un credo più che un rapporto politico e fu così privata di contenuti.
Nell'Impero romano la cittadinanza divenne un'istituzione sempre più astratta e formale. A mano a mano che l'Impero si estendeva, fino a comprendere popolazioni diverse sparse su vasti territori, divenne sempre più difficile ingenerare nella comunità politica il senso di uno scopo condiviso da tutti, com'era stato possibile quando lo Stato si limitava alla città di Roma. La cittadinanza, che garantiva i diritti politici ai plebei (diritti che non erano, dunque, un'esclusiva dei patrizi), nel 212 d. C., con l'editto di Caracalla, fu estesa a tutti gli abitanti liberi dell'Impero.
L'universalizzazione della cittadinanza in un vasto Impero governato da una piccola classe privilegiata rese necessario sostituire i simboli dell'autorità e accentuare il rispetto per la personificazione del potere a danno della partecipazione politica dei singoli. I cittadini divennero sudditi con diritti e doveri nei confronti delle autorità politiche, diritti determinati fondamentalmente dal censo romano. Molti aspetti della cittadinanza - tassazione, servizio militare, eleggibilità ai pubblici uffici, ecc. - dipendevano dal censo, che, pur rappresentando "un compromesso [...] tra merito individuale e interesse collettivo" (v. Nicolet, 1976), fissava esattamente compiti e libertà individuali. Il conferimento della cittadinanza diventò così "più un simbolo onorifico che una funzione civile" (v. MacIver, 1947, p. 180).
La connessione greca tra cittadinanza e religione della città, così come l'influenza della cristianità sull'Impero romano, spianarono la strada alla cittadinanza medievale. La distinzione rilevante non era più tra cittadino e straniero, ma tra cittadinanza religiosa e cittadinanza politica. Tertulliano e sant'Agostino misero l'accento sulla cittadinanza celeste, nella Chiesa di Cristo, in Dio, ma nessuno di questi aspetti della cittadinanza aveva a che fare con l'ordine politico terreno. I cristiani erano cittadini di una comunità di credenti, ma si consideravano stranieri sulla terra, senza una dimora permanente. La fede cristiana implicava anche l'uguaglianza di tutti i credenti davanti a Dio, il che rappresentava una minaccia per l'ordine gerarchico a cui essi potevano essere soggetti. La cittadinanza cristiana si svincolò quindi dalla comunità politica creando una nuova comunità di credenti.Il declino e il collasso delle città romane e, soprattutto, il crollo dell'Impero comportarono l'atomizzazione della società politica nel Medioevo e la preminenza del concetto di suddito su quello di cittadino. Il primo feudalesimo era caratterizzato da forme di commercio e di produzione fortemente localizzate, dal ruolo predominante della Chiesa anche nel campo dell'istruzione e da rapporti politici fondati sul legame vassallo-signore.
Doveri e subordinazione nei confronti della gerarchia erano i motivi dominanti, giustificati e sostenuti dalla dottrina religiosa.Il concetto di cittadino non riemerse fino alla rinascita delle città e delle aree urbane, nel tardo periodo feudale (v. Bloch, 1939). Le città garantivano una qualche protezione dagli arbitrî del potere, anche se spesso scoppiavano conflitti armati tra città e proprietari terrieri aristocratici. I doveri nei confronti della città, e specialmente quello di partecipare alla sua difesa, rimpiazzarono i doveri nei confronti del signore. Il sistema delle corporazioni di artigiani e di mercanti, una sorta di estensione dell'istituto familiare, e la scomparsa delle servitù personali crearono un ambiente più egualitario e adatto alla cooperazione per quanti risiedevano in città, completando l'eguaglianza predicata dalla fede cristiana.
La definizione in termini giuridici di ciò che un cittadino poteva fare variava notevolmente da città a città. Nella maggior parte dei casi erano necessari il possesso di terra e la residenza nella città per avere la cittadinanza, e veniva fatta una distinzione tra cittadini, residenti e ospiti. I cittadini non costituivano un ceto distinto, ma erano riuniti in un 'terzo stato' insieme ai contadini e a tutti quelli che non erano né aristocratici né ecclesiastici. Come nelle città-Stato greche, comunque, le forme di eguaglianza esistenti erano locali e specifiche, e non nazionali.
Durante i secoli XVI-XVIII i rapidi cambiamenti economici, la mobilità sociale, lo stato di guerra endemico, la disintegrazione dell'unità religiosa, l'impatto della Riforma protestante e dell'illuminismo crearono insicurezza e desiderio di ordine e stabilità. Nel XVI secolo, venuta meno la tendenza, tipica del feudalesimo, a distinguere diversi tipi di sudditi (cittadini contrapposti a residenti, dipendenti, ecc.), Jean Bodin definiva ancora il cittadino come un uomo libero, soggetto al potere supremo di un altro. Anche Thomas Hobbes considerava i cittadini tutt'al più come sudditi, uguali nella loro sottomissione a un sistema di norme pubbliche emanate da un potere sovrano. Tuttavia altri scrittori di questo periodo, pur continuando a sostenere la sottomissione dei cittadini ai dettami dei governanti, cominciarono a mettere l'accento su diritti e doveri dei cittadini e sul principio della rappresentanza dei ceti (v. Riedel, 1972).
John Locke considerava inerente allo 'stato di natura' dell'uomo la difesa della proprietà, cioè della propria vita, della propria libertà e dei propri averi. La difesa della proprietà era compito della società politica o civile, istituita tramite un accordo fra i suoi membri. Ciascun uomo aveva un "eguale diritto [...] alla propria libertà naturale" e il principio che regolava la comunità politica era la norma della maggioranza: la monarchia assoluta, secondo Locke, era incompatibile con la società civile. Le formulazioni politiche di Locke, maturate nel contesto della rivoluzione inglese antimonarchica, nel corso della quale venne promulgata una dichiarazione dei diritti, dovevano diventare la base del moderno concetto di cittadinanza. Locke giustificò la separazione tra potere esecutivo e potere legislativo, una tappa cruciale lungo il cammino che porta alla partecipazione dei cittadini alla vita politica. Un patto sociale fondato sul diritto eguale e naturale alla libertà introduceva una forma di legittimazione per un governo basato sulla società, piuttosto che su pretese ereditarie o divine. Agli individui dovevano essere richiesti "un impegno positivo e una promessa e un accordo espliciti" per appartenere alla società politica; gli stranieri non diventavano membri di una comunità politica per il solo fatto di essere soggetti alle sue leggi.
Jean-Jacques Rousseau, più tardi, sostenne che la coscienza degli interessi comuni era ciò che univa gli uomini, e l'interesse comune più importante consisteva nell'impedire la diseguaglianza. Così, i legami tra i cittadini dovevano essere i più deboli possibili, mentre il rapporto con lo Stato doveva essere il più forte possibile. L'autocontrollo e il rispetto reciproco avrebbero creato una cittadinanza molto più forte di quella che si poteva realizzare in una monarchia, dato che Rousseau ricavava la legittimazione politica "dalla struttura delle relazioni sociali per liberarla da ogni dipendenza da sanzioni divine" (v. Vernon, 1986, p. 54).
La distinzione tipicamente francese tra bourgeois e citoyen, introdotta da Bodin e condivisa da Rousseau e Diderot prima della Rivoluzione, poggiava sull'analisi della società in termini di ceti o stati. La dichiarazione del 1789 dell'Assemblea francese, per unificare aristocrazia, clero e terzo stato in una 'nazione' che desse diritti giuridici a tutti i citoyens, rendeva irrilevante la distinzione. Il rovesciamento delle argomentazioni sulle quali si fondavano i privilegi, attuato dall'abate Sieyès per dimostrare come il terzo stato coincidesse con la nazione, e l'idea di sovranità popolare di Diderot, filtrata attraverso la nozione lockiana del diritto a "libertà, proprietà e sicurezza", qual era stata codificata nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, dovevano creare i parametri della moderna cittadinanza (v. Bendix, 1978). Ma, mentre questi nuovi cittadini potevano concorrere a formulare le leggi sotto cui vivere, l'autorità suprema era demandata alle assemblee rappresentative. La creazione di governi rappresentativi generò tensioni tra gli aspetti attivi e passivi della cittadinanza, tensioni che non si sono ancora risolte nei due secoli che ci separano dalla Rivoluzione.
La Rivoluzione francese segnò solo l'inizio dell'epoca dell'idea di nazione in Europa. L'idea di nazione trasformò l'entità politica a cui gli uomini dovevano fedeltà: dalla famiglia, dal vicinato, dalla città, dalla regione o dall'aristocrazia alla nazione come entità geografica, culturale, politica e psicologica. Gli Stati divennero nazioni quando "governo e cittadinanza diventarono un compito comune, che richiedeva [...] cooperazione attiva da parte di tutti", e non c'era più semplicemente un rapporto sovrano-sudditi (v. Kelly, 1979, p. 26). Allo stesso tempo, la prospettiva lockiana poteva realizzarsi soltanto con la nascita del liberalismo economico. Il sorgere di una classe media di commercianti e l'ingresso delle classi inferiori nell'arena politica nazionale costituirono l'elemento cruciale di questo sviluppo (v. Bendix, 1977). La crescente partecipazione politica di queste classi, prima escluse dalla politica, può essere studiata nel modo più istruttivo facendo riferimento alla storia e allo sviluppo della Camera dei Comuni britannica.
L'industrializzazione portò a profondi mutamenti sociali ed economici per molti gruppi e alla formazione di nuove categorie sociali. Per Marx la nascita della borghesia voleva dire oppressione del proletariato e rivoluzione da parte di quest'ultimo. L'idea che lo Stato sarebbe scomparso con l'abolizione delle classi suggerisce un'utopia in cui la cittadinanza diviene così onnicomprensiva, che cessa virtualmente di esistere. Certamente la pratica comunista di usare il termine 'compagno' per indicare un nuovo status di uguaglianza e la fedeltà a una nuova ideologia presenta delle somiglianze con l'uso francese rivoluzionario del termine citoyen. Tuttavia l'Unione Sovietica, pur ispirandosi al pensiero di Marx, piuttosto che ampliare l'idea di cittadinanza, sembra averla ristretta; la Costituzione del 1977 proclama: "L'esercizio da parte dei cittadini dei diritti e delle libertà non deve ledere gli interessi della società e dello Stato" (art. 39) e "Il cittadino dell'URSS sarà obbligato a salvaguardare gli interessi dello Stato sovietico" (art. 62).
La distruzione del sistema dei tre 'stati' durante la Rivoluzione francese creò la prima forma di cittadinanza moderna collegata allo Stato-nazione. Nei due secoli successivi i cittadini hanno ottenuto sempre maggiori diritti civili, politici e sociali e si è continuamente allargata la cerchia dei cittadini nel senso pieno del termine. La cittadinanza è diventata lo "status conferito a chi è pienamente membro di una comunità", e questo status ha creato uguaglianza di diritti e doveri tra tutti i cittadini (v. Marshall, 1963).Molti autori contemporanei, tuttavia, avvertono che la cittadinanza, se non la civiltà stessa, è oggi in declino e che si devono prendere provvedimenti per restaurare ciò che è andato perso (v. Pranger, 1968; v. Janowitz, 1980 e 1983). Sono cambiate la natura della comunità e le basi dell'autorità, ma in questo processo di cambiamento non sono stati risolti i problemi di lealtà, diseguaglianza e obbligazione politica: la cittadinanza moderna "è fonte sia di inquietudine che di sicurezza e di orgoglio" (v. Walzer, 1970, p. 204).
Aristotele avvertiva che caratteristica del cittadino era la sua capacità di partecipare all'elaborazione delle leggi sotto cui viveva. La partecipazione politica veniva così riconosciuta come mezzo di protezione degli interessi, ma Aristotele avvertiva anche che la partecipazione aveva valore per lo sviluppo personale e morale dei cittadini (v. Carter, 1985). L'età dell'idea di nazione e dell'ideologia ha esaltato e contemporaneamente sminuito il valore della lealtà e della partecipazione. Già a partire dal XIX secolo la partecipazione al potere collettivo non sembrò più possibile per il cittadino moderno. La politica era astratta e distante, e portava gli individui ad accontentarsi del "godimento pacifico dell'indipendenza privata", ovvero della privacy e della proprietà protette legalmente dallo Stato (v. Wolin, 1960, p. 281).
L'effettiva dimensione della comunità rende l'obbligazione politica remota e irreale. Le grandi comunità con governi rappresentativi creano un abisso tra l'individuo e lo Stato: gli Stati sono vincolati nei confronti della società presa nel suo insieme, piuttosto che nei confronti di ciascun individuo. I cittadini possono estraniarsi dalla comunità politica e provare invece un profondo attaccamento per comunità a loro più vicine, quali la famiglia, il gruppo di interesse, il quartiere, la regione. Viceversa, i cittadini possono diventare esageratamente patriottici, offrendo la loro fedeltà alla nazione, un'entità astratta che ritengono di condividere con quanti hanno in comune lo status di cittadino. Legittimità e consenso possono essere ulteriormente compromessi dalla percezione dell'incapacità del governo di risolvere i problemi sociali, e la fedeltà incondizionata richiesta dai governi dittatoriali del XX secolo non è stata di aiuto alla cittadinanza politica. La cittadinanza per molti ha voluto dire il possesso di diritti privati e il senso dei diritti. Il possesso di diritti sociali ha certamente consentito a tutti i cittadini di "partecipare pienamente dell'eredità sociale e [...] vivere la vita di esseri civilizzati secondo gli standard prevalenti nella società" (v. Marshall, 1963, p. 74).
La tendenza di questo secolo a collegare diritti e lavoro ha portato i cittadini a considerare sempre di più i diritti sociali sorti dalle battaglie per il posto di lavoro come parte integrante dei diritti connessi alla cittadinanza (v. Bennett, 1986). Eppure si tratta di diritti affermati contro lo Stato, anche se qualcuno sostiene ancora "la subordinazione dell'interesse privato all'interesse pubblico"(v. Tussman, 1960). Gli obblighi che lo Stato esige in cambio, in alcune società, sono diventati minimi: una competenza funzionale di base che favorisca il benessere della comunità attraverso un lavoro fisso e il pagamento delle tasse. I doveri possono diventare "simboli di appartenenza" piuttosto che oneri (v. Mead, 1986). La partecipazione alla vita politica nazionale è diventata, per molti, quasi priva di significato.
Sono possibili risposte diverse all'apparente declino della cittadinanza. Una è la partecipazione a unità più piccole della comunità politica nazionale. Nella società di massa sono sorte molte associazioni d'interesse e la partecipazione a queste associazioni può sostituire la partecipazione politica. La lealtà limitata e la conseguente limitata partecipazione possono creare una 'cittadinanza minore' (v. Carter, 1985). Comunque questa politicizzazione di gruppi altrimenti non politici, se costituisce forse il prezzo da pagare all'autodeterminazione individuale, finisce per negare il ruolo integrativo che la vita politica può svolgere (v. Wolin, 1960, p. 431).
Problemi analoghi sorgono a proposito di quella 'cittadinanza maggiore' che è la cittadinanza europea nell'ambito della Comunità omonima. Sono stati mossi i primi passi per concedere ai cittadini di ciascuna nazione della Comunità i diritti di libera circolazione, attività politica, voto e accesso ai pubblici uffici in tutte le altre nazioni della Comunità (v. Evans, 1984). A parte i problemi di lealtà plurima, comuni nei casi di doppia cittadinanza, sorge la questione se si possa ancora chiamare cittadinanza la relazione di un individuo con un'entità multinazionale. Il voto sovranazionale per il Parlamento europeo esiste già da qualche anno; sono stati fatti progressi per garantire agli stranieri il diritto di votare nel paese in cui lavorano, e le pratiche legali all'interno della Comunità sono state via via armonizzate. Esiste ancora una resistenza considerevole a permettere un pieno diritto di voto agli stranieri, sebbene questo accada localmente (ad esempio in Svezia e Olanda); la 'cittadinanza del lavoro', una forma di doppia nazionalità presa in considerazione già negli anni venti, non è stata riproposta nelle discussioni recenti (v. Brinkmann, 1931).
La cittadinanza è spesso concepita come un rapporto verticale tra ciascun cittadino e lo Stato. Lo Stato dovrebbe forse, invece, essere considerato come un'istituzione preposta a realizzare i desideri e i progetti dei cittadini. In tal caso l'obbligazione politica costituirebbe in primo luogo un vincolo nei confronti dei propri concittadini, piuttosto che essere collegata all'idea astratta di Stato o di nazione (v. Pateman, 1985). Vale la pena di notare che in questa soluzione, come nelle altre, la via d'uscita è individuata in una qualche modificazione dell'entità che è messa in relazione con gli individui nel rapporto di cittadinanza, piuttosto che in una modificazione degli individui stessi. Lo Stato viene così soppiantato dalle sottounità dei gruppi di interesse della società, o da una comunità sovranazionale di Stati, oppure l'obbligazione vale nei confronti dei concittadini.
Tutti questi indirizzi attuali richiedono sostanzialmente che sia il diritto del cittadino a determinare la natura del rapporto con lo Stato. Se si ritiene che lo Stato sia creato e legittimato dall'insieme dei cittadini, c'è poco da discutere: il ruolo dello Stato diventa quello di obbedire e di fornire servizi ai cittadini. Tuttavia, se i cittadini hanno creato in qualche modo l'ordinamento politico in cui vivono, la Rivoluzione francese ha stabilito che anche l'ordinamento politico ha richieste legittime da rivolgere ai cittadini. Il governo rappresentativo crea inevitabilmente aspetti attivi e passivi della cittadinanza, ma ciò non toglie legittimità alla forma di governo: semmai rafforza la funzione integrativa della politica. È un diritto del cittadino essere completamente indifferente, ma i cittadini stessi possono concorrere a indebolire il rapporto di cittadinanza, quando esigono attivamente servizi dallo Stato ma mantengono un ruolo politicamente passivo. L'universalizzazione del rapporto di cittadinanza non può nasconderne la natura fondamentalmente reciproca, mentre, dando un rilievo esagerato ai diritti personali e alle ingiustizie cui si può essere soggetti stando sotto un governo, comunque rappresentativo, si dimentica che il rapporto classico di cittadinanza implicava anche una partecipazione alle decisioni.
Bendix, R., Nation-building and citizenship, Berkeley 1977.
Bendix, R., Kings or people: power and the mandate to rule, Berkeley 1978 (tr. it.: Re o popolo: il potere e il mandato di governare, Milano 1980).
Bennett, D., Immigration, work and citizenship in the American welfare State, in Annual meeting of the American Political Science Association, Washington, Aug. 28-31, 1986, Washington 1986.
Bickel, A., Citizen or person?, in The morality of consent, New Haven, Conn., 1975, pp. 33-54.
Bloch, M., La société féodale, 2 voll., Paris 1939 (tr. it.: La società feudale, Torino 1949).
Brinkmann, C., Citizenship, in Encyclopedia of the social sciences, vol. III, London 1931, pp. 471-474.
Carter, B., The recovery of citizenship?, Bloomington, Ind., 1985.
Coker, F., Readings in political philosophy, New York 1948.
Dahrendorf, R., Citizenship and beyond, in "Social research", inverno 1974, pp. 673-701.
Evans, A. C., European citizenship: a novel concept in EEC law, in "The American journal of comparative law", 1984, XXXII, pp. 679-715.
Fustel de Coulanges, N.-D., La cité antique, Paris 1864 (tr. it.: La città antica, 2 voll., Bari 1925).
Glotz, G., La cité grecque, Paris 1928 (tr. it.: La città greca, Torino 1948).
Janowitz, M., Observations on the sociology of citizenship, in "Social forces", 1980, LIX, 1, pp. 1-24.
Janowitz, M., The reconstruction of patriotism, Chicago 1983.
Kelly, G., Who needs a theory of citizenship?, in The State (a cura di S. Graubard), New York 1979, pp. 21-36.
MacIver, R., The web of government, New York 1947.
Marshall, T. H., Citizenship and social class, in Sociology at the crossroads, London 1963, pp. 67-127 (tr. it.: Cittadinanza e classe sociale, Torino 1976).
Mead, L., Beyond entitlement: the social obligations of citizenship, New York 1986.
Nicolet, C., Le métier de citoyen dans la Rome républicaine, Paris 1976 (tr. it.: Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, Roma 1980).
Pateman, C., The problem of political obligation, Berkeley 1985.
Pranger, R., The eclipse of citizenship, New York 1968.
Riedel, M., Bürger, Staatsbürger, Bürgertum, in Geschichtliche Grundbegriffe (a cura di O. Brunner e altri), vol. I, Stuttgart 1972, pp. 672-725.
Roelofs, M., The tension of citizenship: private man and public duty, New York 1957.
Schuck, P.,Smith, R., Citizenship without consent: illegal aliens in the American polity, New Haven, Conn., 1985.
Schwartz, N., Communitarian citizenship: Marx and Weber on the city, in "Polity", 1985, XVII, pp. 530-548.
Tussman, J., Obligation and the body politic, London 1960.
Vernon, R., Citizenship and order: studies in French political thought, Toronto 1986.
Walzer, M., The problem of citizenship, in Obligations, Cambridge 1970, pp. 203-229.
Walzer, M., Civility and civic virtue in contemporary America, in "Social research", inverno 1974, pp. 593-611.
Walzer, M., Spheres of justice, New York 1983.
Wolin, S., Politics and vision, Boston 1960. .