Modo di essere di un rapporto obbligatorio con più debitori (s. passiva) o con più creditori (s. attiva), caratterizzato dal fatto che la prestazione può essere richiesta a uno solo o adempiuta nei confronti di uno solo, avendo effetto anche per gli altri. Nel diritto tributario, qualora più soggetti siano tenuti all’adempimento dell’obbligazione si ha una situazione di s. passiva tale per cui, ai sensi dell’art.1292 del c.c., ciascun debitore è tenuto al pagamento per la totalità e il suo adempimento ha un effetto liberatorio nei confronti degli altri condebitori; l’applicazione della disciplina prevista può essere argomentata in ragione o della portata generale delle regole del codice civile o della loro applicazione in via analogica al diritto tributario. Il diverso legame tra il soggetto obbligato e il presupposto permette di distinguere due diverse ipotesi di s. passiva: in quella cosiddetta paritetica la pluralità dei soggetti passivi è accomunata dall’identità del titolo, in quanto tutti, in misura uguale o diversa, hanno, comunque, realizzato il presupposto e, quindi, a ciascuno è attribuibile almeno una parte della capacità contributiva manifestata dal presupposto stesso; in quella cosiddetta dipendente la situazione dei coobbligati è distinta in quanto solo uno o più hanno realizzato il presupposto e hanno, quindi, manifestato la ricchezza oggetto del prelievo mentre uno o più sono per legge affiancati al debitore o ai debitori principali per ragioni di garanzia e tutela del credito erariale. La disciplina civilistica trova applicazione salvo limitare gli effetti della definitività degli atti impositivi non impugnati ai soli destinatari e non anche ad altri coobbligati ignari dell’atto notificato, dovendosi negare qualsiasi ipotesi di supersolidarietà; la stessa, inoltre, non può impedire una ricostruzione unitaria del presupposto realizzabile, in sede processuale, solo attraverso un litisconsorzio necessario (➔ litisconsorzio) e l’applicazione ex art. 1306 del c.c. del giudicato favorevole a uno solo dei coobbligati.
Il principio di s. è diretto a garantire il benessere dell’Unione Europea (UE) attraverso l’adempimento degli obblighi di ordine economico, politico e sociale da parte di tutti gli Stati membri.
Il Trattato di Lisbona del 2007 (in vigore dal 2009), nel modificare il Trattato istitutivo della Comunità Europea (CE) – ora denominato Trattato sul funzionamento dell’UE – vi ha introdotto un’esplicita clausola di s. (art. 222). Questa dispone che gli Stati membri agiscano congiuntamente, “in uno spirito di solidarietà”, qualora uno Stato membro che sia oggetto di un attacco terroristico sul suo territorio o vittima di una calamità naturale o causata dall’uomo, chieda assistenza. In particolare, l’UE utilizza tutti i mezzi di cui dispone, compresi, eventualmente, mezzi militari messi a disposizione dagli Stati membri, per prestare assistenza allo Stato che l’abbia richiesta, al fine di proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da attacchi terroristici o dagli effetti di una calamità. Le modalità di attuazione della clausola di solidarietà sono decise dal Consiglio dell’Unione Europea a maggioranza qualificata, salvo che le misure da adottare ricadano nel settore della difesa, nel qual caso è richiesta l’unanimità.
Sul piano etico e sociale, rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività sulla base del sentimento di comune appartenenza a essa e di condivisione di un’identità collettiva, e in funzione della coscienza di comuni interessi e finalità da perseguire. Nel dibattito sociofilosofico in atto fra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., si possono distinguere due principali orientamenti teorici in tema di s.: il primo è rappresentato dalla teoria della giustizia, il secondo da un approccio postmodernista che si contrappone alle riflessioni sul problema della s. in termini di filosofia morale.
R. Rorty, uno dei maggiori esponenti di quest’ultimo indirizzo, rifiuta di richiamarsi a «qualcosa al di là della storia e delle istituzioni», all’idea di umanità, o all’ipotesi di una natura umana comune a tutti. Bersaglio polemico della sua critica è «l’universalismo etico secolare» mutuato dal cristianesimo. Nel suo pensiero, la s. deve trascendere le differenze ed estendersi a categorie sociali sempre più ampie. Al contrario, N. Geras invoca gli ideali della comune natura umana, dei diritti universali e ritiene che ragionando insieme gli uomini possano scoprire ingiustizie e sofferenze evitabili. Proprio su questo terreno si sviluppa un articolato dibattito che parte dalla questione della giustizia.
Nella sua critica all’utilitarismo, J. Rawls riprende in forma modificata l’idea contrattualistica e sviluppa una propria teoria della giustizia ispirata a I. Kant. Poiché la società crea costantemente delle differenze, sorge il problema di come sia possibile la giustizia nonostante l’ineguaglianza. La soluzione potrebbe consistere nel riconoscimento dei due principi della differenza e delle pari opportunità. L’‘etica della condotta’ di Rawls si impernia intorno al concetto chiave di fairness, cioè l’equità, che può essere definito come correttezza di rapporti tra persone che competono o cooperano tra loro. La fairness, dunque, è anche un presupposto della solidarietà. Il senso di fairness, rafforzato dal rispetto delle regole, fa nascere un obbligo morale ad agire in modo corretto, sicché colui che beneficia dell’azione collettiva senza impegnarsi in prima persona contravviene al requisito della fairness.
Il riconoscimento reciproco delle persone, dei principi di giustizia e dell’obbligo della correttezza sono strettamente legati. Per J. Habermas nel processo di socializzazione in senso ampio hanno la loro origine comune sia l’identità dell’individuo sia quella della collettività a cui questi appartiene. L’identità non può essere affermata per sé stessa, in quanto dipende da un intreccio di relazioni di riconoscimento. Per tale ragione la prospettiva complementare all’eguale trattamento non è la benevolenza, ma la solidarietà. Poiché giustizia e s. sono interdipendenti, le norme morali hanno la funzione di tutelare sia gli uguali diritti dell’individuo e la sua libertà sia il bene della comunità cui l’individuo stesso appartiene. La s. diventa così parte integrante di una morale universalistica e perde il carattere particolaristico della s. operaia. Habermas ritiene che ogni esigenza di universalizzazione resterebbe lettera morta se dall’appartenenza a una comunità comunicativa ideale non scaturisse anche la coscienza di una s. permanente.
Da parte sua, la teoria etica femminista della s. sottolinea la rilevanza della differenza. S. Benhabib critica le teorie morali maschili e la figura dell’‘Altro generalizzato’ da esse creata. A ciò Benhabib contrappone la prospettiva dell’‘Altro concreto’, che impone di considerare ogni singolo essere razionale come individuo specifico, con una precisa identità e una determinata costituzione affettiva-emozionale. Solo tale prospettiva consente di praticare una s. concreta. Non si tratta, peraltro, di abbandonare del tutto il costrutto dell’Altro generalizzato, bensì di riconoscere che ogni Altro generalizzato è anche un Altro concreto. Nell’Altro generalizzato si realizza l’esigenza di universalizzazione, nell’Altro concreto è garantita la necessaria liberazione del singolo individuo che mette in atto la s. e la concretizzazione dell’universalizzazione.
Per il commercio equo e solidale ➔ commercio.