Virtù eminentemente sociale che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge. In altre accezioni, il potere di realizzare il diritto con provvedimenti aventi forza esecutiva e l’esercizio di questo potere e il sistema che ne consente la realizzazione.
Secondo la definizione data da Ulpiano nel Digesto, la g. è principio e virtù morale che consiste nel dare a ciascuno il suo (suum cuique tribuere). Tale formula – criticata da H. Kelsen, che ne ha dato una lettura formalistica, qualificando il principio come una norma – ha una valenza ontologica: essa esprime che ciascuno, nessuno escluso, ha sempre qualcosa di propriamente ed esclusivamente suo, ossia è titolare di un qualcosa che ciascun altro ha il dovere incondizionato di riconoscergli e, se ne ha la possibilità, di dargli. Si tratta, dunque, di un principio forte, che ha una valenza antropologica, ed è per questo una virtù: un valore che induce l’uomo ad acquisire la consapevolezza del dovere di riconoscere le spettanze proprie di ogni essere umano e di operare per la loro realizzazione. La percezione del principio di g. da parte dell’uomo avviene come un fatto della ragione, ossia è innata, come l’idea di verità, di bene e di bellezza. Il contesto di realizzazione della g. è il rapporto, ossia la coesistenza intersoggettiva, nell’ambito della quale la g. si estrinseca dapprima in un atto di riconoscimento delle spettanze altrui e solo in seguito nella restituzione di tali spettanze all’individuo (iustitia est ad alterum). La g., pertanto, è il principio che garantisce la possibilità di instaurare qualsiasi forma di coesistenza sociale e in quanto tale coincide con il diritto, ossia con l’insieme di pratiche sociali giuste, capaci di promuovere la coesistenza, garantendo la simmetria tra le parti sociali. Esiste quindi un nesso inscindibile tra diritto e g.: secondo una prospettiva giusnaturalistica, infatti, il diritto è giusto quando capace di dare a ciascuno il suo, garantendo la coesistenza tra gli uomini.
La tematizzazione del significato antropologico-strutturale della g. è oggetto della teoria fondamentale della g., che ha il compito di rivelare il senso strutturale del diritto: non può esistere coesistenza sociale senza ordinamento giuridico. E l’ordinamento non è tale se in esso la g. non coincide con la legalità, ossia con l’obbligatorietà delle sue norme (g. formale): il dovere dei consociati di ubbidire alle leggi in virtù del portato di g. insito in esse. Ma proprio perché la g. si riferisce alla realizzazione di un valore, esiste, pur sempre, il diritto di criticare le leggi ingiuste e di operare, nei limiti delle proprie possibilità di azione, affinché siano abrogate o modificate.
Il significato storico, invece, del concetto di g. è oggetto delle innumerevoli teorie della g., per le quali essa è essenzialmente concepita come un ordine dinamico e complesso nel suo determinarsi storico, nel quale l’eguaglianza tra gli uomini è al tempo stesso un presupposto e un obiettivo. In tale ultimo senso, la g. può essere commutativa, in una logica privatistica di scambio sociale di beni tra soggetti privati, o distributiva, in una logica pubblicistica di distribuzione dei beni all’interno della società. La g. distributiva può essere attuata sulla base di criteri diversi: il rango, l’appartenenza politica o sociale, le consuetudini, il merito o l’efficienza, le competenze, l’utile sociale, la felicità del maggior numero di persone, i bisogni o le necessità individuali, le convenzioni stabilite e accettate dalla comunità sociale. Quale che sia il criterio privilegiato sul piano politico e dottrinale, non si può mai negare la fondamentale e costitutiva parità e uguaglianza che esiste tra gli esseri umani: la parità, infatti, non è criterio, ma presupposto antropologico della giustizia.
- Nella speculazione greco-romana il concetto di g. è essenzialmente naturalistico, poiché se ne cerca il fondamento non nell’uomo, ma nella realtà naturale comunque concepita, come principio materiale o come principio spirituale. Per primi i pitagorici intesero la g. come il riflesso nel mondo morale e politico dell’armonia cosmica espressa simbolicamente nei numeri e nelle loro combinazioni. Questo concetto, come quello che discendeva dalla tradizione mitico-religiosa, viene radicalmente discusso nell’età dei sofisti, in cui la contrapposizione tra ciò che è ‘giusto’ per natura e ciò che è ‘giusto’ per semplice convenzione prepara in qualche modo il nuovo concetto socratico, per cui la g., come suprema virtù e salute dell’anima, consiste non solo nel non fare il male, ma anche nel non renderlo quando lo si sia ricevuto. La riflessione socratica e gli aspetti rilevati da Pitagora nella g. naturale sono svolti da Platone e Aristotele. Per Platone la g. è l’armonia sia tra le diverse facoltà dell’anima sia tra le diverse classi dei cittadini, in quanto assegna a ogni facoltà, a ogni ceto quello che a ciascuno spetta, come ‘attuazione del proprio compito’. Trattando della g. in generale, Aristotele la contrappone all’ingiustizia e la teorizza come giusto mezzo non tra opposte tendenze soggettive, ma tra due quantità estreme che sono il troppo e il troppo poco nell’assegnazione degli onori e beni pubblici o nello scambio privato dei beni.
Nell’età postaristotelica e soprattutto in Roma si conserva il significato oggettivo, naturalistico della g., ma è posto in maggior rilievo il suo aspetto soggettivo. Nell’insegnamento stoico la g. diventa una virtù attiva; non è solo scienza o ratio che segue la natura, ma si afferma come arte, come voluntas. D’altra parte ciò che la natura assegna a ogni essere diventa il suo diritto, e una misura comune di g., ossia di eguaglianza proporzionale, è invocata a regolare il sistema dei rapporti tra individui aventi diritti diversi.
- Alla concezione naturalistica della g. succede con il cristianesimo la concezione spiritualistica, in rapporto alla nuova realtà divina che costituisce l’oggetto della speculazione. Il fondamento della g. non è più cercato nella natura, ma nella volontà di Dio. Più che come sistema di norme fondate su un ordine naturale, la g. si presenta come sistema di precetti sostenuti da sanzioni religiose ed estesi quanto la pietas. La scolastica, più che a svolgere gli elementi volontaristici insiti nella concezione patristica della g., procedette ad associarli con la concezione intellettualistica aristotelica. Per s. Tommaso la g. è la ragione stessa di Dio che governa il mondo. La volontà non determinata da ragione è arbitrio e può giustificare la legalità, non la giustizia. Dio stesso non può non volere cose giuste e una causa razionale. Subordinata alla g. divina è la g. naturale, che è la g. eterna attuata dagli esseri razionali nei loro rapporti.
- La nuova filosofia iniziata da Bacone e da Cartesio deriva invece dal senso o dalla ragione la nozione della giustizia. La concezione empiristica della g. culmina in D. Hume, per il quale l’idea della g. deriva dall’esperienza psicologica dell’uomo, il quale è portato ad associarsi con i suoi simili. Da qui la necessità di norme di g. tendenti a garantire con la vita in comune la nostra stessa esistenza individuale: tali norme obbligano non per la loro verità o razionalità intrinseche, ma per il sentimento della loro comune utilità e necessità. La concezione razionalistica della g. originatasi dalla riforma cartesiana trova la sua alta espressione in G. Leibniz, per il quale la g. fondata su considerazioni di utilità e di convenienza sociale è la forma imperfetta della g. eterna, aspetto dell’essenza stessa di Dio, innata nell’anima umana.
I giusnaturalisti della scuola di Grozio muovono dall’affermazione di una g. naturale fondata sul riconoscimento di tendenze ed esigenze della personalità empirica e razionale dell’uomo; a essa contrappongono la g. civile che si origina da un patto di rinuncia totale o parziale alla g. naturale, diretto a garantire un miglior godimento degli inviolabili diritti naturali.
In I. Kant il concetto della g. risulta da elementi empirici e razionali unificati dall’attività formale e sintetica della coscienza. Ma la g. non è solo un concetto della ragione pura, è anche un’idea della ragion pratica; e sotto questo aspetto s’identifica con la libertà esterna, cioè si pone come idea di relazione tra esseri mossi dalle tendenze più diverse, ma che devono coesistere tra loro secondo una legge universale di ragione.
L’idealismo hegeliano integra sotto diversi aspetti il concetto kantiano della g., grazie al processo dialettico in virtù del quale la g., così come lo spirito che la produce, non è, ma diviene, risolvendo progressivamente in sé il suo contrario. Anche per Hegel la g. è libertà, ma questa non esclude, anzi postula la necessità e la naturalità; essa si attua astrattamente nell’individuo e nei rapporti interindividuali, ma solo nello Stato si afferma in forma concreta e universale. La g. non è solo eguaglianza, coordinazione interindividuale, ma è progressiva subordinazione e coordinazione armonica, unitaria, di parti al tutto.
Il positivismo di A. Comte, di H. Spencer, di R. Ardigò, reagendo alle concezioni metafisiche o idealistiche della g., ne cerca il fondamento nella biologia e nella sociologia. Per Spencer la g. è l’‘etica della vita sociale’, è un fatto naturale, sottoposto alla duplice legge della causalità universale e dell’evoluzione. Le leggi della vita nello stato di associazione si convertono nella legge di ‘retribuzione’, secondo cui ogni individuo deve raccogliere i vantaggi e i danni della sua natura e della sua condotta. Se la g. è retribuzione, la libertà ne costituisce l’elemento essenziale, perché l’individuo ha il diritto naturale di non essere ostacolato nell’estrinsecazione della sua attività e nel godimento dei risultati della condotta, rispettando l’uguale diritto negli altri. Nel 20° sec. si sono svilup;pate posizioni o di reazione a tale concezione positivista, con il ritorno a formulazioni kantiane o idealistiche, o di rinuncia a una definizione filosofica di g., identificata talvolta, come nel caso di Kelsen e C. Perelman, con la rispondenza alle norme del diritto positivo.
Nozione fondamentale della filosofia morale e dell’economia politica, che indica l’ordine di una totalità organica in cui a ciascuna delle parti viene attribuito ciò che le spetta. Il primo autore ad averne dato una definizione organica e rigorosa è stato Aristotele, per il quale la g. distributiva è l’insieme dei principi che presiedono alla divisione delle risorse e dei beni comuni nella misura del contributo portato da ciascuno alla loro produzione. Il principio di fondo della g. distributiva stabilisce che nell’attribuzione di benefici od oneri viene dato o tolto a ciascuno secondo i requisiti che possiede in base a criteri prestabiliti. Tali criteri possono essere deontologici, se si riferiscono agli obblighi e agli imperativi cui si sottostà in quanto membri di una collettività, o conseguenzialisti, se riguardano le conseguenze che obblighi e imperativi comportano e il grado di accettazione che queste conseguenze hanno da parte della collettività. In entrambi i casi ciascuna collettività si regola sulla base di norme fondamentali, consensualmente accettate, che costituiscono i contenuti stessi dei valori di uguaglianza.
La g. distributiva fu trattata dagli economisti classici, in primo luogo da A. Smith, in relazione alla teoria del valore e della distribuzione del reddito. Per D. Ricardo, e ancora più esplicitamente per tutti gli autori che si sono ispirati alle teorie dell’utilitarismo etico, la g. distributiva è stata interpretata come criterio per la massimizzazione del benessere del maggior numero di individui. Nelle moderne teorie dell’economia del benessere, la g. distributiva entra nella definizione dei criteri per sommare le utilità dei singoli individui e misurare il benessere della collettività. Anche nell’economia del benessere, come in quella classica e neoclassica, gli assunti di fondo sono utilitaristici: da ciò deriva la difficoltà a ricavare dal confronto di utilità individuali una funzione del benessere sociale che incorpori criteri di g. distributiva e non faccia ricorso a istituzioni non di mercato, come le autorità pubbliche. La letteratura contemporanea sulla g. distributiva tenta di superare queste contraddizioni facendo ricorso al neocontrattualismo come metodo alternativo all’utilitarismo per esprimere un giudizio di preferibilità sociale tra stati alternativi. Il contributo più importante è quello di J. Rawls, secondo cui la g. distributiva consiste nell’offrire le medesime opportunità a ogni membro di una collettività in termini di ‘beni principali’, quali i diritti e la libertà. Se tale eguaglianza di opportunità non esiste o non può esistere, un assetto sociale corrisponde a principi di g. distributiva se i suoi meccanismi decisionali permettono di ripartire le risorse disponibili in modo da favorire i gruppi più svantaggiati (➔ etica). In Italia, l’approccio di Rawls è stato seguito in varia misura sia da economisti (F. Forte, S. Zamagni) sia da filosofi (S. Maffettone, S. Veca) sia, infine, da politologi ed esperti di studi sociali in senso lato (P. Martelli).
In opposizione a Rawls, R. Nozick ha proposto una teoria della g. distributiva basata sulle forme piuttosto che sui contenuti (nel senso, tuttavia, che la g. formale precostituisce le condizioni della g. sostanziale). Per Nozick, infatti, la g. distributiva consiste nel rispetto delle procedure in base alle quali gli individui acquisiscono i ‘titoli validi’ (ossia le risorse e i diritti). Nel distinguere tra g. distributiva nell’acquisizione dei ‘titoli’ e g. distributiva nel trasferimento dei ‘titoli’ medesimi, Nozick si richiama all’‘utilitarismo delle regole’ di R.M. Hare, in base al quale il rispetto delle regole viene incorporato nell’utilitarismo tradizionale: nel massimizzare la propria utilità l’individuo rispetta le regole di condotta sociale anche dove dette regole implicano comportamenti che, sotto il profilo particolaristico, potrebbero sembrare subottimali. Un modo diverso di impostare il problema è quello di A. Sen, che propone un concetto di g. distributiva fondato sulle ‘capacità fondamentali’, ossia quelle capacità garantite da un livello minimo di reddito o di consumo e che permettono a un individuo di soddisfare i propri bisogni e avere un ruolo nella società.
La g. amministrativa – che nell’esperienza giuridica si caratterizza tradizionalmente rispetto ad altre espressioni note di g., rilevanti per il rapporto con il diritto, come la g. civile o penale – è il complesso dei mezzi di tutela amministrativa e giurisdizionale cui qualsiasi soggetto, privato o pubblico, può ricorrere per tutelare la propria posizione giuridica nei confronti della pubblica amministrazione, laddove questa assuma una posizione di supremazia nello svolgimento della sua attività, e ottenere quindi una pronuncia oggettiva e imparziale in merito alla controversia. Tali garanzie – che alcuni definiscono giustiziali – si distinguono sia da quelle politiche, cioè dai controlli parlamentari sull’attività del potere esecutivo, sia da quelle amministrative, ossia dai controlli amministrativi d’ufficio, preventivi e successivi, sugli atti di amministrazione attiva, anche in funzione di autotutela (in quest’ambito, i mezzi di tutela amministrativa sono affidati a organi della stessa o di altra amministrazione, che esercitano tale attività in forme non giurisdizionali).
- Si tratta, in particolare, delle forme di tutela consistenti nel ricorso amministrativo, sia esso ‘in opposizione’, ‘gerarchico’ (proprio e improprio) o ‘straordinario al capo dello Stato’.
Il ricorso straordinario al capo dello Stato – che affonda le sue radici nelle istanze rivolte dai sudditi al principe negli Stati assoluti per ottenerne una pronuncia, quale manifestazione di ‘grazia sovrana’ – si pone in alternativa rispetto al ricorso al giudice amministrativo e, dunque, ai mezzi di tutela giurisdizionale (di cui si dirà oltre), il che ne ha accentuato i caratteri giustiziali, pur essendo prevista la possibilità, per cointeressati, controinteressati e amministrazione resistente (quanto meno nel caso si tratti di ente pubblico diverso dallo Stato), di chiedere la trasposizione della controversia davanti al giudice amministrativo (possibilità che evidenzia la preferenza del legislatore per i rimedi giurisdizionali, ritenuti forme di tutela del cittadino più raffinate ed efficaci).
Il rimedio in esame è definito straordinario perché presuppone che sia esaurita la possibilità di esperire altri rimedi amministrativi, essendo infatti ammesso nei confronti di atti amministrativi definitivi; è stato tradizionalmente classificato come un rimedio impugnatorio, in quanto finalizzato all’annullamento di un provvedimento (benché sia stato ammesso anche nei confronti di ipotesi di silenzio-inadempimento), ed eliminatorio, in quanto comporta, in caso di accoglimento, solo decisioni di annullamento; infine, è proponibile, a tutela di interessi legittimi e diritti soggettivi, soltanto per vizi di legittimità.
Quanto all’ambito di applicazione, l’art. 7, comma 8 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) stabilisce che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica "è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa", superando la precedente concezione dell’istituto come rimedio di carattere generale.
Inoltre, l’art. 120, comma 1, c.p.a. ha stabilito che gli atti concernenti le procedure di affidamento relative a pubblici lavori, servizi o forniture sono impugnabili unicamente mediante ricorso ai Tar e, quindi, ha codificato l’esclusione del ricorso straordinario in tale materia.
I ricorsi amministrativi ordinari rivestirono particolare importanza dopo la formazione dello Stato unitario, giacché l’abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo (in forza della l. 2248/1865) e la conseguente devoluzione al giudice ordinario della sola tutela dei diritti soggettivi lasciò scoperti da tutela giurisdizionale gli interessi legittimi. Tali ricorsi assunsero rilevanza anche per effetto dell’istituzione, nel 1889, della giurisdizione amministrativa e delle norme che richiedevano, per esperire il ricorso al Consiglio di Stato, la definitività del provvedimento amministrativo (poi abolita dall’art. 20 della l. 1034/1971), la quale si acquisiva, dove il provvedimento non fosse definitivo per natura o per legge, proprio a seguito della proposizione del ricorso in via gerarchica. La decisione in esito al ricorso, peraltro, non provenendo da un organo estraneo alla pubblica amministrazione (anche se da un organo amministrativo diverso da quello che aveva emesso l’atto impugnato, tranne che nel caso dell’opposizione), poteva non essere considerata pienamente imparziale. Solo il ricorso a rimedi giurisdizionali, caratterizzati dalla assoluta estraneità del giudice rispetto alle parti in causa, avrebbe consentito un’effettiva tutela nei confronti della pubblica amministrazione.
Il sistema italiano di g. amministrativa è incentrato su due giurisdizioni, quella ordinaria e quella amministrativa, che hanno pari importanza e carattere generale, e si qualifica pertanto come sistema a ‘doppia giurisdizione’. La stessa Carta costituzionale ha elevato la distinzione tra diritto soggettivo, la cui tutela è rimessa al giudice ordinario, e interesse legittimo, la cui tutela è rimessa al giudice amministrativo, a canone e criterio generale della giurisdizione, recependo un criterio di distribuzione delle controversie prevalso dal 1891. Secondo l’insegnamento della dottrina tradizionale, il secondo si caratterizzerebbe per una tutela ‘affievolita’, ‘occasionale’ e ‘indiretta’ o, meglio, limitata e funzionalizzata, di fronte all’azione della pubblica amministrazione, specie in ambito economico-sociale, il primo configurerebbe una situazione giuridica direttamente e pienamente tutelata dalla norma che lo riconosce degno di protezione anche nei confronti della pubblica amministrazione, pure preposta alla cura di interessi generali. La distinzione tra situazioni giuridiche soggettive aveva poi comportato la distinzione tra norme di azione (a fronte delle quali si è titolari di un interesse legittimo a che l’amministrazione ne osservi pienamente il dettato, essendo dirette a regolare l’attività amministrativa in sé e, specialmente, il procedimento di formazione degli atti) e norme di relazione (a fronte delle quali si è titolari di un diritto soggettivo, poiché esse regolano i rapporti tra amministrazione e cittadini, attribuendo diritti e obblighi reciproci), la classificazione degli interessi legittimi in ‘diritti affievoliti’ o ‘diritti in attesa di espansione’, l’individuazione giurisprudenziale di un obbligo di intermediazione dell’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo delle situazioni giuridiche soggettive per ottenere il diritto al risarcimento del danno.
Questa tradizionale impostazione del nostro sistema di g. amministrativa ha dato luogo a uno dei più forti punti di tensione tra diritto comunitario e diritto amministrativo italiano. Il primo, infatti, non conosce la figura dell’interesse legittimo, non prevede alcuna distinzione tra norme di azione e norme di relazione, non richiede alcuna intermediazione dell’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo ai fini dell’azione di risarcimento danni e, più in generale, non legittima alcun regime di deroga o di attenuazione della responsabilità dell’amministrazione in relazione alla consistenza della situazione giuridica soggettiva.
D’altro canto, la posizione della giurisprudenza e della dottrina è ormai unanime nel ritenere che l’interesse legittimo non costituisca più soltanto una figura processuale ma rappresenti una posizione giuridica sostanziale strettamente connessa a un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione può determinare un pregiudizio.
Tra i criteri sussidiari di ripartizione delle competenze tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo – che pure trae origine dalla teoria dell’affievolimento dei diritti di fronte al potere discrezionale della pubblica amministrazione – vi è poi quello che si basa sulla distinzione fra ‘carenza di potere’ ed ‘esercizio illegittimo’ del potere stesso. In particolare, di fronte a un atto amministrativo che incida su diritti soggettivi sarebbe competente il giudice amministrativo laddove si contestino le modalità di esercizio del potere discrezionale, mentre la competenza spetterebbe al giudice ordinario qualora si contesti l’appartenenza del potere stesso alla pubblica amministrazione.
In particolare, l’art. 7 del codice del processo amministrativo (d. lgs. n. 104/2010) stabilisce che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie concernenti l’esercizio il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio del potere. Secondo un pacifico orientamento della giurisprudenza, infatti, esulano dalla giurisdizione amministrativa e appartengono alla cognizione del giudice ordinario quelle controversie in cui l’amministrazione abbia agito non attraverso strumenti autoritativi ma secondo moduli di diritto comune.
- Un diverso criterio, invece, fondato sull’esame della materia, è alla base della cosiddetta ‘giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo’, introdotta nel 1923 per il Consiglio di Stato e per le giunte provinciali amministrative e poi confermata per il Consiglio di g. amministrativa della Regione siciliana e per i tribunali amministrativi regionali istituiti nel 1971.
Tale forma di giurisdizione consente al giudice amministrativo di conoscere delle controversie, in particolari materie espressamente indicate dalla legge, in cui siano coinvolte posizioni giuridiche aventi la connotazione non solo di interessi legittimi, ma anche di diritti soggettivi. Le ipotesi che ricadono nell’ambito della giurisdizione esclusiva sono espressamente indicate dall’art. 133 del codice del processo amministrativo: sono, infatti, attribuiti al giudice amministrativo alcuni settori, a prescindere dal tipo di situazione giuridica soggettiva da tutelare, una scelta il cui fondamento viene solitamente rinvenuto nella difficoltà di distinguere in questi settori i diritti dagli interessi.
La Corte costituzionale, nelle sentenze n. 204/2004 e 191/2006, ha ridimensionato e circoscritto il potere del legislatore di individuare le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva, ribadendone il carattere eccezionale rispetto a quella di legittimità. Nello specifico, la Corte costituzionale ha precisato che l’art. 103 Cost. stabilisce espressamente che il legislatore può attribuire la giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo solo in «particolari materie» e solo quando la pubblica amministrazione «agisce come autorità».
- Di g. amministrativa nell’ordinamento canonico si può parlare soltanto in seguito alla riforma della Curia romana attuata dal pontefice Paolo VI con la costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967, che ha istituito presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica una seconda sezione (Sectio altera) con il compito specifico di giudicare sui ricorsi contro gli atti emessi dall’autorità amministrativa ecclesiastica. Nelle sue linee generali questo sistema di contenzioso amministrativo (per la cui disciplina legislativa occorre ora fare riferimento alla costituzione apostolica di riforma della Curia romana Pastor Bonus, promulgata da Giovanni Paolo II il 28 giugno 1988) appare ispirato soprattutto ai sistemi di g. amministrativa italiano e francese. Il giudizio demandato alla Sectio altera è infatti un giudizio di mera legittimità, diretto ad accertare la conformità dell’atto amministrativo impugnato alle prescrizioni legislative che ne disciplinano il contenuto e le modalità d’emanazione.
Il procedimento inizia con un ricorso da inoltrarsi alla cancelleria del tribunale entro il termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione (o dalla legale conoscenza) dell’atto amministrativo che si intende impugnare. Sia il ricorrente sia l’amministrazione che ha emanato l’atto impugnato devono essere rappresentati e difesi in giudizio da un avvocato (che viene nominato d’ufficio dal segretario, dove le parti non provvedano a costituirne uno di fiducia). Abilitati al patrocinio dinanzi alla Sectio altera sono gli avvocati iscritti all’Albo generale degli avvocati della Curia romana.
Le decisioni di questo tribunale riguardano per lo più casi di dimissione di religiosi dal proprio ordine. Si tratta di religiosi che rifiutano di ottemperare a precise disposizioni dei propri superiori (non accettando di vivere stabilmente in convento, di trasferirsi nella sede a loro designata ecc.), violando così l’obbligo all’obbedienza cui sono tenuti. Abbastanza frequenti sono anche le ipotesi di ricorso proposto da parroci o da altri sacerdoti contro provvedimenti del vescovo di rimozione dall’ufficio, di espulsione dalla diocesi, di privazione di qualche particolare facoltà (come quella di sentire le confessioni, di esercitare una professione ecc.).
Sistema costituito dai vari mezzi predisposti dall’ordinamento giuridico per disciplinare le condotte degli appartenenti alle Forze armate in tempo di pace e in periodi di guerra.
Organi principali dell’ordinamento giudiziario militare sono: il Consiglio della magistratura militare (CMM) e i tribunali militari. Il ministro della Difesa ha poi, rispetto ai magistrati militari e al CMM, le medesime attribuzioni che spettano al ministro della Giustizia rispetto al Consiglio superiore della magistratura e ai magistrati ordinari. Il CMM, infatti, è competente a deliberare su ogni provvedimento di Stato riguardante i magistrati militari (assunzione, assegnazione di sedi e di funzioni, trasferimenti, promozioni, sanzioni disciplinari ecc.) e su ogni altra materia a esso devoluta dalla legge. È composto dal primo presidente della Corte di cassazione, che lo presiede, dal procuratore generale militare presso la Corte di cassazione, da cinque componenti eletti dai magistrati militari, di cui almeno uno magistrato militare di Cassazione, e da due componenti estranei alla magistratura militare, scelti d’intesa tra i presidenti delle due Camere, fra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno 15 anni di esercizio professionale, di cui uno è eletto vicepresidente. Il ministro della Difesa può avanzare proposte e proporre osservazioni sulle materie di competenza del Consiglio; può inoltre intervenire alle adunanze del Consiglio, su istanza del presidente o quando lo ritenga opportuno, per fare comunicazioni o per dare chiarimenti. Il ministro, tuttavia, non può essere presente alle deliberazioni.
L’organizzazione militare giudiziaria si compone di organi requirenti (Procura generale militare presso la Suprema Corte di cassazione; Procura generale presso la Corte militare d’appello; nove procure militari presso i tribunali militari) e di organi giudicanti (tribunali militari, Corte militare d’appello e Tribunale militare di sorveglianza). In tempo di guerra i tribunali militari hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate (art. 103 Cost.). Presso ogni tribunale militare, organo giudiziario di 1° grado, è istituito un ufficio del giudice per le indagini preliminari e uno del giudice per l’udienza preliminare, la cui organizzazione non presenta particolarità rispetto ai corrispondenti uffici esistenti presso i tribunali ordinari. Ai sensi della l. 180/1981, i tribunali militari giudicano con l’intervento del presidente del tribunale militare, che lo presiede o, in caso di impedimento, di un magistrato militare di appello, con funzioni di presidente, di un magistrato militare di tribunale o di appello, con funzioni di giudice, di un militare di una delle Forze armate o della Guardia di Finanza, di grado pari a quello dell’imputato e comunque non inferiore al grado di ufficiale, estratto a sorte, con funzioni di giudice. Organo di secondo grado è la Corte militare d’appello, istituita con l. 180/1981, che giudica sull’appello proposto avverso i provvedimenti emessi dai tribunali militari. Il collegio giudicante della Corte militare d’appello è formato dal presidente della Corte stessa o, in caso di impedimento, da un magistrato militare di Cassazione o di Appello, con funzioni di presidente; da due magistrati militari di Appello, con funzioni di giudice; da due militari di una delle Forze armate o della Guardia di finanza, di grado pari a quello dell’imputato e, comunque, non inferiore a tenente colonnello, estratti a sorte, con funzioni di giudice. Infine il Tribunale militare di sorveglianza, istituito dalla l. 897/1986, è competente a vigilare sull’esecuzione delle pene; si compone di tutti i magistrati militari di sorveglianza e di esperti nominati dal CMM, professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia e psichiatria, nonché fra i docenti di scienze criminalistiche.
Con il r.d. 303/1941 sono stati approvati il Codice penale militare, di guerra e di pace, le cui disposizioni si applicano rispettivamente ai reati commessi dai militari in tempo di guerra e in tempo di pace.