Capacità di farsi giustizia da sé. Tale comportamento è generalmente vietato dalla legge, non avendo il privato cittadino altra via per tutelare i propri diritti se non quella di adire l’autorità giudiziaria. È però riconosciuta alla pubblica amministrazione, in particolare attraverso il principio della esecutorietà degli atti amministrativi; ed è consentita ai privati in alcuni casi eccezionali.
Per a. si intende in generale una forma di reazione da parte del soggetto privato sia a un altrui fatto illecito, tanto di natura extracontrattuale quanto integrante un inadempimento, sia a un fatto che in ogni caso produca o possa produrre la lesione di un suo interesse giuridicamente rilevante. In presenza di un principio che vieta ai privati di farsi giustizia da sé medesimi (art. 392-393 c.p.), le ipotesi di a. sussistono esclusivamente in quanto previste e tassativamente determinate e, tra le principali, si annoverano: a) l’eccezione di inadempimento, in base alla quale nei contratti corrispettivi (salvo ipotesi particolari) ciascun contraente può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria (art. 1460 c.c.); b) il potere di sospendere l’esecuzione della propria prestazione se le condizioni patrimoniali dell’altro contraente siano divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione, salva la prestazione di idonea garanzia (art. 1461 c.c.); c) il diritto di ritenzione (art. 2756 e 2761 c.c.); d) la vendita e la compera coattiva (art. 1515 e 1516 c.c.). L’attività di a. può tradursi in un atto materiale, in un atto giuridico in senso stretto o anche in un negozio giuridico, ma suscita gravi problematiche la possibilità di considerarle espressione dell’autonomia (➔) privata.
Il concetto di a. fa riferimento al potere della pubblica amministrazione di annullare e revocare i provvedimenti amministrativi già adottati. In particolare, l’ a. esecutiva è il potere di eseguire unilateralmente e coattivamente provvedimenti che impongono obblighi a carico dei destinatari (per es., l’obbligo di consegnare il bene espropriato o di installare un depuratore), e implicano l’indicazione del termine e delle modalità di esecuzione cui deve attenersi il soggetto obbligato. L’a. esecutiva è un potere con un fondamento normativo specifico, che va rinvenuto caso per caso e deve essere, dunque, espressamente prevista e regolata dalla legge.
L’ a. decisoria è il potere della pubblica amministrazione di riesaminare, senza l’intervento del giudice, i propri atti sul piano della legittimità, al fine di confermarli, modificarli o annullarli. Il riesame amministrativo dà luogo a un procedimento di secondo grado, a iniziativa d’ufficio, che incide su un provvedimento (di primo grado) già adottato. In ogni caso, il provvedimento di secondo grado deve essere giustificato da un interesse pubblico concreto. La finalità dell’amministrazione non si esaurisce nell’accertamento in sé della legittimità o dell’illegittimità del provvedimento di primo grado, ma si concreta nel perseguimento di un interesse pubblico ad adottare il provvedimento di secondo grado. La conferma costituisce un nuovo provvedimento, che assorbe il precedente e si sostituisce a esso. Essa è adottata a seguito di una nuova valutazione degli interessi in gioco. Si distingue dall’atto meramente confermativo, con il quale l’amministrazione, su istanza di riesame presentata dal privato, si limita a confermare senza una nuova istruttoria e senza motivazioni. Diversamente dalla conferma, l’atto meramente confermativo non riapre i termini di impugnazione del provvedimento di primo grado. La convalida elimina un vizio sanabile del provvedimento di primo grado, attinente alla competenza o alla procedura, e ne riafferma l’efficacia. La convalida può adottarsi «sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole» (l. 241/1990, art. 21 nonies, co. 2). Se il vizio rimosso è di incompetenza, la convalida si denomina ratifica. Se si rimuove una semplice irregolarità, che non integra un vizio di legittimità in senso proprio, si ha la rettifica (nel caso, per es., di correzione di meri errori materiali). L’annullamento d’ufficio rimuove il provvedimento di primo grado. Il presupposto è che il procedimento di riesame abbia accertato la sussistenza di vizi non sanabili. E, in base a giurisprudenza consolidata, che vi sia un interesse concreto e attuale all’eliminazione del provvedimento illegittimo. Bisogna aggiungere che l’annullamento va adottato «entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati» (l. 241/1990, art. 21 nonies, co. 1). Ciò a garanzia della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento legittimo di coloro ai quali il provvedimento di primo grado da eliminare abbia recato vantaggio. Ne risulta che l’annullamento non si limita al ripristino della legalità, ma è provvedimento discrezionale, chiamato a ponderare l’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento invalido con gli altri interessi dei soggetti coinvolti. I provvedimenti di secondo grado hanno effetti retroattivi: retroagiscono al momento in cui i provvedimenti di primo grado sono divenuti efficaci.
Il potere di a. ha ricevuto espressa codificazione con l’art. 68 d.p.r. 287/1992 e successiva disciplina (art. 2 quater d. legisl. 564/1994, al quale è poi seguito il regolamento di attuazione 37/11 febbraio 1997). La normativa secondaria ha quindi provveduto a individuare l’organo competente per l’esercizio del potere di autoannullamento nell’ufficio che ha emanato l’atto o, in via sostitutiva o in caso di grave inerzia, nella Direzione regionale o compartimentale dalla quale l’ufficio stesso dipende, e ha ravvisato gli atti riesaminabili in tutti quelli in grado di produrre una lesione diretta e immediata nella sfera patrimoniale del contribuente destinatario. Sempre alla normativa secondaria è stata demandata l’individuazione delle fattispecie, sia pure con elencazione non tassativa (errore di persona, errore sul presupposto, doppia imposizione ecc.), nelle quali l’amministrazione può procedere all’annullamento dei propri atti. Nello stesso regolamento è altresì precisato che l’annullamento dell’atto in via di a. può essere attivato, tanto in pendenza di giudizio, che in caso di non impugnazione per decorrenza dei termini, sia spontaneamente su iniziativa della stessa amministrazione, sia tramite istanza del contribuente indirizzata all’ufficio che ha emanato l’atto. Lo Statuto dei diritti del contribuente (l. 212/2000) ha poi previsto che anche il Garante del contribuente possa, su segnalazione del contribuente o di qualsiasi soggetto interessato, attivare le procedure di a. nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione. L’unico limite all’esercizio del potere di autotutela è costituito dal passaggio in giudicato di una sentenza (di contenuto sostanziale, e non su questioni di rito) favorevole all’amministrazione finanziaria.
La principale forma di a. dei lavoratori è il diritto di sciopero, tradizionale mezzo di lotta per la rivendicazione di diritti, assurto al rango di diritto fondamentale ed irrinunciabile del prestatore di lavoro con la Costituzione del 1948. L’a. sindacale dei datori di lavoro viene invece tradizionalmente identificata con il nome di serrata; tale comportamento non è oggetto di specifica tutela costituzionale, e pertanto non può configurarsi un diritto di serrata analogo al diritto di sciopero.
Principio in base al quale lo Stato che ritiene di avere subito la lesione di un proprio diritto può legittimamente adottare misure di reazione (sanzioni o contromisure) nei confronti dello Stato offensore, onde ottenere la cessazione e la riparazione dell’illecito. Il principio è collegato all’assenza nella comunità internazionale di un’autorità centrale responsabile dell’attuazione coercitiva del diritto; ciò rende necessario il ‘farsi giustizia da sé’, che nelle collettività nazionali è invece generalmente vietato ai soggetti dell’ordinamento. Peraltro, anche nel diritto internazionale l’a. si è variamente configurata nel corso dei secoli. Anteriormente alla Prima guerra mondiale, essa non assumeva rilievo specifico, non essendovi limiti giuridici all’uso della forza (cosiddetto ius ad bellum) ed essendo pertanto lecito agli Stati perseguire la reintegrazione dei propri diritti con ogni mezzo. In seguito, il Patto della Società delle Nazioni (1919) e il Patto Briand-Kellog (1928), ponendo restrizioni all’uso della forza e affermando il principio della soluzione pacifica delle controversie tra Stati, contribuirono alla formazione di regole relative alle condizioni di legittimità delle rappresaglie armate. Maggiori sviluppi del diritto consuetudinario sono derivati dalla Carta delle Nazioni Unite (1945), che pone agli Stati membri il divieto generale e assoluto della minaccia e dell’uso della forza (art. 2, par. 4) e affida al Consiglio di sicurezza l’adozione di sanzioni collettive sia economiche sia militari (cap. VII). Attualmente, il diritto internazionale continua a considerare legittime le contromisure unilaterali adottate dallo Stato leso e consistenti nella violazione di un diritto soggettivo dello Stato autore dell’illecito, purché dette misure rispettino certe condizioni (provvisorietà, proporzionalità) e non comportino minaccia o uso della forza, né la violazione di obblighi internazionali in materia di diritti umani e diritto umanitario.