In diritto costituzionale per a. si intende uno dei modi di cessazione di efficacia di un atto normativo. L’a. si distingue dall’abrogazione, perché mentre il primo opera retroattivamente (ex tunc: l’atto annullato si considera come se non fosse mai entrato in vigore), la seconda, stante il principio generale di irretroattività delle leggi (art. 11 disp. prel. c.c.), opera in linea di principio ex nunc (l’atto normativo abrogato continua ad applicarsi ai rapporti giuridici sorti prima della sua abrogazione). L’a. di un atto normativo può aversi in due ipotesi: nel caso di fonti primarie, con una sentenza della Corte costituzionale che ne dichiari, ex artt. 134 e 136 Cost., l’illegittimità costituzionale e, nel caso di fonti secondarie, ad opera degli organi di giustizia amministrativa (T.A.R. e Consiglio di Stato).
Sotto l’aspetto dell’efficacia, le sentenze della Corte costituzionale italiana si distinguono da quelle della Corte di giustizia costituzionale austriaca, le cui decisioni operano solamente ex nunc (art. 140 Cost. Austria 1920) e da quelle del Tribunale costituzionale federale tedesco, le cui pronunce comportano, invece, la nullità della legge censurata (artt. 31 e 76 ss. Legge fondamentale Germania 1949). È vero, però, che questa distinzione tende ad attenuarsi sul piano pratico, in virtù degli strumenti che i giudici costituzionali hanno a disposizione al fine di graduare gli effetti delle loro pronunce (sentenze di incostituzionalità sopravvenuta della Corte costituzionale italiana, Fristsetzung del giudice costituzionale austriaco o tedesco ecc.). L’efficacia retroattiva delle decisioni della Corte costituzionale italiana incontra comunque un limite generale nei rapporti esauriti, cioè quei rapporti su cui è intervenuta una sentenza passata in giudicato, ovvero la prescrizione o la decadenza. Un’eccezione al limite della retroattività è rappresentato dalle sentenze penali di condanna: se una sentenza di condanna è stata pronunciata in base a una disposizione o a una norma (Disposizione e norma) dichiarata incostituzionale, ne cessano immediatamente l’esecuzione e gli effetti penali, anche se passata in giudicato (l. n. 87/1953).
Nel diritto amministrativo, l’a. consegue all’anormalità di un atto amministrativo. In particolare, si usa distinguere l’a. su ricorso, risultante cioè dalla presentazione di un ricorso, amministrativo o giurisdizionale, l’a. d’ufficio, consistente nel ritiro spontaneo da parte di una pubblica amministrazione di un atto amministrativo affetto da vizi di legittimità originari, e l’a. in sede di controllo (in particolare sugli atti amministrativi degli enti locali). I vizi di legittimità consistono nell’incompetenza, nell’eccesso di potere e nella violazione di legge. Nell’incompetenza, che può presentarsi «per grado», «per valore», e «per materia», alcuni fanno rientrare anche i difetti di composizione di organi collegiali, di numero legale, di incompatibilità. L’eccesso di potere è frutto di una creazione giurisprudenziale e consiste in un vizio funzionale dell’atto, che si manifesta direttamente quale sviamento di potere o, indirettamente, in alcune figure cosiddette sintomatiche. La violazione di legge è infine il vizio residuale, dovendovisi ricomprendere tutte le manifestazioni di illegittimità non riconducibili a incompetenza e a eccesso di potere, quali l’errata applicazione di norme, i vizi della volontà e dell’oggetto, i vizi dei presupposti e tutti i vizi formali.
Non sempre, tuttavia, la ricorrenza di uno dei tre vizi conduce all’a. dell’atto da parte del giudice amministrativo.
La l. n. 80/2005 che ha modificato la l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, oltre ad aver espressamente disciplinato all’art. 21 octies, comma 1 i tradizionali vizi di legittimità dell’atto amministrativo, al comma 2 ha infatti previsto che la ricorrenza di determinati vizi (cd. formali o relativi al mancata comunicazione di avvio del procedimento) può non determinare l’a. dell’atto laddove l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto dispositivo dello stesso atto non sarebbe comunque potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Aldilà di tali ipotesi - che investono il momento della tutela giurisdizionale - l’atto annullabile può essere comunque convalidato dalla stessa amministrazione se sussistono rilevanti ragioni di interesse pubblico e, comunque, entro un termine ragionevole. Tale potestà generale rientra, tuttavia, tra i poteri di autotutela decisoria dell’amministrazione; in questa prospettiva, la l. n. 80/2005 ha disciplinato il potere generale di convalida dell’atto viziato nell’ambito dell’art. 21 nonies che si occupa dell’a. d’ufficio.
L’a. d’ufficio costituisce un provvedimento amministrativo di secondo grado che può essere emanato, sussistendone le ragioni di pubblico interesse, entro un termine ragionevole, dallo stesso organo che ha emanato l’atto da annullare o da diverso organo previsto dalla legge (art. 21 nonies della l. 241/1990, introdotto dalla l. 15/2005). In tale quadro, si parla di a. d’ufficio gerarchico quando il provvedimento viene preso dall’autorità gerarchicamente superiore a quella che ha emanato l’atto, e più in particolare di a. ministeriale, nei rari e particolarissimi casi di cui all’art. 14 d. legisl. 165/2001, e di a. governativo, nei casi previsti dall’art. 138 d. legisl. 267/2000, inquadrabili tra gli atti di alta amministrazione. Si parla invece di auto-a. quando il provvedimento viene preso dalla stessa autorità che ha emanato l’atto illegittimo, nell’esercizio dei poteri di autotutela. Quest’ultimo è normalmente un provvedimento a carattere discrezionale, fin quando l’illegittimità non sia riconosciuta da un’autorità di controllo o dall’autorità giudiziaria con sentenza passata in giudicato. In particolare, la discrezionalità non si esplica in un confronto tra l’interesse alla legittimità e gli altri interessi pubblici, ma, piuttosto, nello stabilire se sussista o meno una perdurante situazione di illegittimità o se quest’ultima possa ritenersi ormai sanata. Il potere di a. d’ufficio non è soggetto ad alcun termine.
Nel diritto civile, forma di invalidità del negozio giuridico per la quale l’atto esiste e produce i suoi effetti finché non ne venga richiesto (e ottenuto) l’annullamento. I casi di annullabilità sono tassativamente previsti dalla legge e riguardano in generale la capacità del soggetto (può validamente compiere un negozio giuridico chi non sia incapace di agire o incapace naturale: artt. 119, 120, 427, 428, 591, 774, 775, 1425, 1426 c.c.) e la sua volontà (che non deve essere viziata da errore, violenza morale o dolo: art. 122, 482, 526, 591, 624, 787, 1427-1440 c.c.). Vi sono inoltre ipotesi speciali di annullabilità che riguardano singoli istituti: per es., è annullabile su domanda del rappresentato il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi (art. 1394 c.c.), o su domanda del venditore la vendita conclusa in violazione dei divieti speciali di comprare sanciti dall’art. 1471, nr. 3 e 4 c.c. L’annullabilità è generalmente relativa, in quanto può essere fatta valere soltanto dalla parte nel cui interesse è stabilita dalla legge, o comunque da alcuni soggetti espressamente determinati; in pochi casi è assoluta, ovvero può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. L’efficacia provvisoria, tipica del negozio annullabile, può essere resa stabile mediante la convalida, in quanto quest’ultima sostanzialmente costituisce una rinuncia all’azione di annullamento. Per a. si intende la pronunzia giudiziale con la quale viene eliminata l’efficacia di un negozio giuridico affetto da un vizio che lo rende annullabile. La sentenza che pronunzia l’a. ha efficacia costitutiva e retroattiva e ha effetto non solo tra le parti del giudizio ma anche verso i terzi, fatta eccezione per i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (salvo che nel caso di acquisto derivante da incapacità legale). L’azione di a. è disciplinata nel Codice civile dagli art. 1441-1446 e si prescrive, salvo eccezioni, nel termine di cinque anni. L’a., però, può essere opposto come eccezione anche quando si sia verificata la prescrizione dell’azione. L’azione di a. del matrimonio è soggetta a termini particolarmente brevi; il matrimonio annullato si considera come non mai avvenuto, salvi gli effetti del matrimonio putativo (artt. 128 ss. c.c.).
In psicanalisi, meccanismo di difesa nevrotico con cui l’individuo tende ad annullare, a ‘rendere non accaduto’, l’appagamento di pulsioni libidiche o aggressive.