In via generale, l’atto di un organo (monocratico o collegiale) investito della cosiddetta funzione legislativa. A differenza della consuetudine, che nasce spontaneamente nella società, la l. è un atto volontario, caratterizzato dalla generalità e dall’astrattezza, e cioè dal fatto che abbia dei destinatari indeterminati (generalità come impersonalità) e dal fatto che sia suscettibile di essere applicata un numero indefinito di volte, in tutti i casi rientranti nella previsione normativa (astrattezza come ripetibilità).
La l. è stata considerata la fonte del diritto per antonomasia (➔ fonte); in una prospettiva giuspositivistica, anzi, il diritto si identificherebbe con la legge. Storicamente, ha ricoperto un ruolo importante nell’ambito delle diverse esperienze giuridiche, anche se è solo con l’età moderna che si è affermata l’idea della l. come fonte primaria. Nell’ambito dell’esperienza romana, infatti, la lex si contrapponeva alle altre fonti del diritto (quali l’interpretatio prudentium e i mores), sebbene vada ricordato che, mentre nella Repubblica e nel Principato il termine era riservato esclusivamente alle deliberazioni delle assemblee popolari, nel tardo Impero, invece, con l’espressione leges, usata in contrapposizione a iura, si indicavano le costituzioni imperiali. Questo duplice aspetto (democratico e assolutistico) traspare da due noti brocardi, uno di Gaio (lex est quod populus iubet atque constituit), l’altro di Ulpiano (quod principi placuit legis habet vigorem). Anche nell’ambito dell’esperienza medievale, la lex, quale atto volontario, si contrapponeva alla interpretatio e alla consuetudo. Inoltre, si riteneva che essa non fosse altro che dichiarativa della l. divina.
Con la formazione degli Stati moderni e la rivendicazione del monopolio del potere legislativo quale attributo della sovranità, la l. divenne la fonte suprema del diritto, in quanto immediata manifestazione della volontà del sovrano (espressione di questa preminenza sono, per es., l’art. 1 e seg. delle disposizioni. preliminari al codice civile italiano del 1942). Con il superamento delle monarchie assolute e l’avvento dello Stato liberale di diritto la posizione della l. nel sistema delle fonti non cambia, giacché alla volontà individuale del monarca si sostituisce la volontà generale della nazione (o del popolo) che si esprime tramite essa (cfr. l’art. 6 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789; l’art. 4 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793; l’art. 6 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1795), tant’è che si può parlare dello Stato di diritto del 19° sec. come di uno Stato legislativo, cioè di una forma di Stato incentrata sull’assoluta preminenza della l. generale e astratta, prodotto della libera discussione parlamentare. Emblematiche, in questo senso, sono state le analisi di O. Bähr, R. von Mohl, J. Bentham e di B. Constant. Tuttavia, con l’avvento delle Costituzioni rigide e del sindacato di costituzionalità delle leggi la l. ha perso importanza, a favore della stessa Costituzione, e alcuni studiosi sono giunti ad affermare che le l. sarebbero tutte vincolate al fine di realizzare la Costituzione: la legislazione, cioè, non sarebbe più una funzione libera, ma discrezionale, sindacabile dalla Corte costituzionale per gli eccessi di potere che ne potrebbero viziare la legittimità.
Un ulteriore fattore che ha contribuito a trasformare la funzione legislativa nel corso del 20° sec. è stata la graduale perdita dei caratteri tipici di generalità e astrattezza, e al dilagare delle cosiddette leggel.-provvedimento: la prassi italiana, in particolare, ha visto innumerevoli casi di discipline legislative transitorie e retroattive, nonché di l. di intervento puntuale nei rapporti economici, di l. contenenti programmi delimitati nel tempo, o, addirittura, di l. sostanzialmente ad personam. Tale prassi, nonostante le critiche manifestate da parte della dottrina – ad esempio, da V. Crisafulli – non è stata avversata dalla giurisprudenza costituzionale, per quanto concerne la legislazione sia statale che regionale, la quale ha ammesso anche la possibilità di espropriazioni ope legis. D’altra parte, la perdita dei caratteri di generalità e astrattezza della l. era stata individuata da alcuni studiosi – tra cui H.J. Laski, Neumann e Forsthoff – come conseguenza inevitabile del passaggio dallo Stato liberale di diritto allo Stato democratico di massa.
Richiamata più volte nel titolo III, capo I, art. 13-17, della l. 218/1995, la l. straniera assume rilevanza con riferimento alla tecnica del rinvio, disciplinata all’art. 13 della l. citata. Quando negli articoli successivi della l. è richiamata la l. straniera, si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero alla l. di un altro Stato: 1) se il diritto di tale Stato accetta il rinvio; 2) se si tratta di rinvio alla l. italiana. L’applicazione di tale disposizione è tuttavia esclusa nei casi in cui siano le parti a scegliere la l. straniera che sarà loro applicata (art. 13). Il sistema di diritto internazionale privato stabilisce il principio della uguaglianza tra la lex fori e la l. straniera. L’accertamento della l. straniera è compiuto d’ufficio dal giudice (art. 14). Quanto stabilito all’art. 14 si ricollega al potere-dovere del giudice di accertare d’ufficio le circostanze che giustificano l’applicazione della l. straniera: se così non fosse, sarebbe come attribuire alle parti la facoltà di scegliere norme straniere applicabili. A tal fine questi può avvalersi, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del ministero di Grazia e giustizia; può altresì interpellare esperti o istituzioni specializzate. Qualora il giudice non riesca ad accertare la l. straniera indicata, neanche con l’aiuto delle parti, applica la l. richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la l. italiana. La l. straniera è interpretata secondo i principi interpretativi dell’ordinamento cui la norma appartiene (art. 15). Il giudice italiano è tenuto quindi ad applicare la l. straniera come farebbe il giudice dell’ordinamento di appartenenza. Peraltro, la l. straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico (art. 16). Il riferimento è all’ordine pubblico internazionale che impedisce le turbative del nostro ordinamento derivanti dall’applicazione di norme straniere contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Non si tratta, quindi, di un giudizio di valutazione sulla l. altrui, bensì sugli effetti che questa può avere in ambito internazionale. In sintesi, se la norma che appartiene all’ordinamento giuridico straniero contiene dei principi che non possono essere applicati nel nostro ordinamento giuridico, deve essere disapplicata. Di conseguenza, in tale ipotesi si applica la l. richiamata mediante altri criteri di collegamento previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza di tali collegamenti si deve necessariamente applicare la l. italiana. È fatta salva la prevalenza delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla l. straniera (art. 17). Infine, la l. straniera viene utilizzata nel regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e per quanto concerne la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio. Il regime dei rapporti patrimoniali fra coniugi regolato da una l. straniera è opponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano ignorato per loro colpa. Relativamente ai diritti reali su beni immobili, l’opponibilità è limitata ai casi in cui siano state rispettate le forme di pubblicità prescritte dalla l. dello Stato in cui i beni si trovano (art. 30, 1). La separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, qualora non siano previsti dalla l. straniera applicabile, sono regolati dalla l. italiana (art. 30, 2).
Il diritto canonico è caratterizzato dalla conformazione della l., unitariamente considerata, in due gruppi di norme: le norme di diritto umano e le norme di diritto divino. Tali norme possono essere emanate come l. scritta (ius scriptum) o come consuetudine (ius non scriptum). Le norme scritte sono rivolte alla comunità come un comando (iussum) in vista del bene comune dei fedeli, unitariamente considerati (propter bonum subditorum) e non già in considerazione del vantaggio che ne può derivare all’autorità che lo ha dato. La l. canonica può essere promanata solo da un soggetto idoneo a darla (legitimi principis). Circa l’oggetto della l. canonica non vige un principio generale, che ne fissi in assoluto i contenuti specifici; tuttavia, nel Codice di diritto canonico esistono norme che riaffermano per singole materie la competenza della Chiesa, per es. per quanto attiene la disciplina del matrimonio dei battezzati (can. 1073), l’acquisto e l’amministrazione di beni temporali, l’istituzione di scuole di ogni ordine e grado (can. 800).
Per quanto attiene all’obbligatorietà, sono soggetti alle l. puramente ecclesiastiche (non includenti i precetti di diritto divino) i battezzati nella Chiesa cattolica (cosiddetto criterio ecclesiologico, che esclude i membri delle comunità cristiane non cattoliche) che godano di sufficiente uso di ragione (cosiddetto criterio psicologico) e abbiano compiuto il settimo anno di età (criterio cronologico). Di norma, non si ammette ignoranza o errore circa la l. canonica, ma sono tuttavia scusabili l’errore di fatto (fino a prova del contrario), salvo per le l. inabilitanti o irritanti (can. 15).
La l. canonica viene portata a conoscenza dei soggetti ai quali è rivolta attraverso la promulgazione (can. 8) e l’inserzione negli atti della Sede Apostolica (Acta Apostolicae Sedis commentario officiali, AAS), che ha valore anche come pubblicazione. Essa entra in vigore solo dopo tre mesi dalla sua promulgazione (periodo di vacatio legis), salvo che la l. stessa preveda diverso termine (più o meno breve).
La l. canonica è efficace nel tempo e nello spazio. Quanto al primo aspetto, per essa vale il principio generale della irretroattività, salvo le deroghe espresse nel can. 9. Circa l’efficacia nello spazio, le l. universali, valide per tutti i fedeli, ovunque essi si trovino, si distinguono dalle leggi particolari, che si presumono applicabili solo su base territoriale e non personale, nel senso che sono soggetti alla l. di un determinato territorio (la diocesi) i fedeli che vi abbiano il domicilio o il quasi domicilio e contemporaneamente vi si trovino di fatto. Non sono tenuti all’osservanza di queste norme forestieri e nomadi o girovaghi.
La l. canonica è soggetta a interpretazione, che viene detta autentica se promana dal legislatore, particolare se posta in essere dall’autorità amministrativa su un singolo caso, e dottrinaria se può dar luogo a un’eventuale consuetudine. Di norma la l. canonica può essere abrogata da una l. posteriore; l’abrogazione si dice espressa (can. 20) quando la nuova l. afferma esplicitamente che la precedente è abrogata (derogatio), tacita quando risulta incompatibile con quest’ultima o quando disciplina ex novo e in maniera integrale tutta la materia oggetto della l. precedente (abrogatio). La l. universale, a meno che non sia espressamente previsto, non deroga affatto le l. particolari o speciali. Nel dubbio la l. preesistente non si presume mai abrogata e, per quanto possibile, deve essere armonizzata con la precedente normazione.
Norma dalla quale è regolato un determinato fatto o fenomeno naturale. Nel linguaggio scientifico, l. è la precisazione del modo con cui, in determinate circostanze, cioè poste determinate cause, si ripetono certi fenomeni come effetto di esse. Ciò è vero sia che la l. si riferisca soltanto agli aspetti qualitativi del legame (l. qualitativa) sia che si traduca in una relazione quantitativa intercorrente tra grandezze che intervengono nei fenomeni considerati (l. quantitativa). Una l. può esprimere relazioni di natura astratta e generale (l. assiomatiche che non discendono da enunciati più generali: per es., la l. delle inverse in logica matematica); oppure relazioni di più o meno diretta derivazione sperimentale (l. empiriche: per es., la l. di van der Waals; l. statistiche: per es., la l. di distribuzione degli errori). Se una l., qualunque sia la sua natura e la sua origine, ha validità generale riceve il nome di principio, mentre è più appropriato parlare di l. quando essa ha un contenuto più ristretto (per es., l. dei gas perfetti). La l. è inoltre una condizione, o un insieme di condizioni, cui devono soddisfare determinati enti o grandezze: per es., una l. oraria imposta al moto di un punto, la l. di una forza ecc.
Benché risalga originariamente al pensiero greco l’idea che il mondo naturale, in analogia con quello umano, sia governato da l., è soltanto in epoca moderna che nasce il concetto di l. naturale, intesa come relazione costante (di solito formulata matematicamente) tra fenomeni distinti o tra aspetti di uno stesso fenomeno, la cui scoperta rappresenta il compito specifico della scienza. Caratteristica di una l. naturale è l’universalità, ossia il suo essere valida senza eccezioni per una totalità di casi di un certo ambito. Se le l. scientifiche siano anche provviste di necessità, oltre che di universalità, è problema variamente dibattuto. D. Hume, le cui tesi hanno influenzato gran parte delle concezioni positivistiche ottocentesche e novecentesche, negava recisamente l’esistenza di una connessione necessaria tra eventi dalla cui successione costante si originerebbe l’idea di una relazione causale: le l. causali esprimerebbero soltanto delle regolarità empiriche. Sulla base dell’analisi humeana, A. Comte, J.S. Mill e gli empiristi contemporanei hanno considerato le l. naturali (causali e non causali) come asserzioni che esprimono null’altro che concomitanze regolari ricavabili empiricamente ed enunciabili tramite correlazioni funzionali, non assimilabili ad asserzioni modali di necessità. Nonostante alcune influenti tesi sul carattere convenzionale delle l. scientifiche (segnatamente di E. Le Roy) o sulla loro natura di relazioni simboliche, né vere né false, ma soltanto più o meno adeguate a esprimere certi dati sperimentali (P. Duhem), le discussioni che hanno avuto più vasta eco nella filosofia della scienza del Novecento sono state quelle interne al neopositivismo, e si devono a C.G. Hempel ed E. Nagel i maggiori tentativi per definire la nozione di l. scientifica.
Dal 19° sec. il concetto di ‘legge’ (ted. Gesetz) viene usato, metaforicamente, nel campo della linguistica storica per indicare uno sviluppo di natura regolare e sistematica, privo dunque di eccezioni, tranne quelle spiegabili come effetto di condizionamenti particolari. Una l. può riferirsi a qualunque settore di una lingua, dalla fonologia (l. fonetica) alla morfologia e alla sintassi (per es. la legge di Wackernagel per l’indoeuropeo antico o la legge Tobler-Mussafia per le lingue romanze).
La l. fonetica (ted. Lautgesetz) costituisce il tipo più frequente e importante di l. linguistica. Codifica sviluppi fonologici regolari – ‘ineccepibili’ nella definizione dei Neogrammatici – nel corso dell’evoluzione storica di una lingua o nel passaggio da una fase preistorica a una documentata. Tra le più note delle oltre 20 individuate nelle lingue indoeuropee sono le l. di Grimm, riferite alle occlusive germaniche, la l. di Grassmann, che interessa le aspirate greche e sanscrite, la l. di Lachmann, che in latino regola la quantità vocalica nei participi perfetti. Verso la fine del 19° sec. l’ineccepibilità delle l. fonetiche fu revocata in dubbio da romanisti e dialettologi, a partire da H. Schuchardt, sulla base della irregolarità e della variazione tipiche di lingue e dialetti romanzi; oggi si può ritenere, con W. Belardi, che le l. fonetiche non siano un tratto universale, ma trovino una motivazione all’interno di specifiche strutture linguistiche, come quelle delle lingue indoeuropee antiche.
Nell’Antico Testamento, il concetto di l. ha un significato essenzialmente religioso, come insieme delle norme rivelate direttamente da Dio al popolo ebraico; in particolare in esso è dato il nome di Tōrāh o l. al Pentateuco (➔), nel quale è contenuta la parte fondamentale di queste norme. D’altra parte tōrāh ha anzitutto il significato di ‘insegnamento’ (per eccellenza) e l. in alcuni casi è sinonimo di Sacra Scrittura: Salmi 1; 19, 8-15 e 119. Nel Pentateuco la l. quindi, senza distinguere tra sacro e profano, non contiene solo disposizioni regolatrici dei rapporti umani, ma anzitutto definisce i rapporti tra Yahweh e Israele, legandosi strettamente all’idea di ‘patto’ o ‘alleanza’ tra Dio e il suo popolo. Si esprime dapprima oralmente, a volta a volta, su casi particolari, per il tramite dei sacerdoti e dei profeti; quindi viene redatta per tappe successive fino alla codificazione nel canone biblico, assumendo progressivamente un carattere assoluto.
Contro l’assolutizzazione della l. polemizza indirettamente Gesù nei Vangeli: sia con l’adottare comportamenti di grande libertà nei confronti di istituzioni (il sabato, il divorzio, il Tempio) e di persone giudicate impure dalla l. (lebbrosi, samaritani, pubblicani ecc.) sia con il subordinare la l. alla predicazione del regno di Dio e all’accoglienza della sua stessa persona. Da parte sua Paolo, opponendosi ai giudeo-cristiani che facevano coesistere la fede in Cristo con l’osservanza della Tōrāh, tratta esplicitamente il tema dell’inutilità della l. e delle opere da essa comandate nel processo della giustificazione davanti a Dio (Gal. 2,16; Rom. 3,28): «Il termine della l. è Cristo» (Rom. 10,4).
La semplificazione delle regole e delle procedure amministrative di Nicoletta Rangone