Apostolo (n. Tarso in Cilicia inizio sec. 1° - m. Roma tra il 58 e il 68), massimo propagatore del messaggio cristiano nel mondo ellenistico-romano (perciò chiamato l'Apostolo). La ricostruzione della sua figura è possibile sulla base di due tipi di fonti: le sue Lettere e il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli. Poiché fra esse vi sono notevoli contrasti, occorre soppesare con attenzione i dati forniti da entrambe. Di famiglia ebraica, educato al più stretto farisaismo, prese parte molto attiva alle prime lotte condotte dal giudaismo contro i cristiani; ma improvvisamente (verso il 31 o il 32) sulla strada di Damasco avvenne la sua conversione, da lui intesa piuttosto come chiamata, al cristianesimo (cfr. Atti 9, 3-27; 22,6-16; 26,13-18) per una subitanea visione del Cristo: a questo avvenimento P. collega la sua missione apostolica (cfr. Gal. 1,15-16). Seguono alcuni anni di silenzio: egli si ritira in Arabia, poi ritorna a Gerusalemme, dove s'incontra con Cefa (nome aramaico di Pietro): qui la sua predicazione evangelica è fortemente contrastata dai giudei, così da essere costretto a rifugiarsi nella città natale di Tarso, dove rimane circa otto anni. Poi Barnaba lo prende con sé e lo conduce ad Antiochia di Siria, e qui può svolgere liberamente la sua attività di annuncio del Vangelo tra i gentili (circa 42-45), anche se in posizione secondaria rispetto ai fondatori della chiesa antiochena (cfr. Atti 11, 19-30). Insieme a Barnaba, e per incarico di quella chiesa, intraprese una prima missione fra i gentili, toccando l'isola di Cipro e poi le città anatoliche di Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra, Derbe. Da questo momento in poi, secondo il racconto degli Atti, P. rivolse la predicazione non solo alle comunità giudaiche, ma soprattutto ai gentili, fra i quali generalmente ottenne un successo maggiore; tuttavia, nelle sue lettere P. si professa solo "apostolo dei gentili" (Rom. 11, 13; cfr. Gal. 2, 9), sicché alcuni studiosi mettono in dubbio che egli abbia mai predicato agli ebrei. Comunque, alla fine di questo primo viaggio, sorse la controversia sulla circoncisione che i giudeocristiani volevano imporre ai gentili convertiti al cristianesimo. La questione fu portata a Gerusalemme (circa 48) dove, alla presenza di Pietro e di Giacomo "fratello del Signore", P. ottenne che i gentili fossero sciolti dall'obbligo della circoncisione e dalla maggior parte dei precetti imposti dalla Legge mosaica; il compromesso delle quattro clausole levitiche riportate in Atti 15, 20 ("astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue"), è in realtà ignorato da P. nel suo epistolario. L'Apostolo intraprese poi un secondo viaggio con Sila come compagno (tra il 49 e il 51); visitò di nuovo le comunità di Derbe, Listra e Iconio; poi si recò in Galazia, giunse a Troade, e da qui passò in Grecia attraverso la Macedonia, cominciando la predicazione a Filippi. Di qui andò a Tessalonica, a Berea e quindi ad Atene, dove nell'Areopago parlò agli intellettuali della città, senza ottenervi molto successo (cfr. Atti 17, 16-34); trasferitosi a Corinto, vi fondò una chiesa tra le più vivaci; indi si diresse a Gerusalemme. In un terzo viaggio (anni 52-57 o alternativamente 52-55) P. visitò le comunità fondate in precedenza, fermandosi soprattutto per la prima volta a Efeso circa due anni. Dopo una visita alle comunità della Macedonia, tornò a Corinto, e di lì, tornando verso nord e ripiegando poi a sud lungo la costa asiatica, si recò a Gerusalemme per portarvi le collette raccolte a favore di quei cristiani secondo un impegno precedentemente assunto (cfr. Gal. 2, 10). Qui, oltre a registrare il disaccordo sulla sua predicazione da parte della chiesa locale, rischiò un linciaggio nell'area del tempio da parte dei giudei. Fu salvato dal tribuno della coorte romana di occupazione, il quale però lo arrestò. Come prigioniero comparve prima davanti al procuratore Antonio Felice e poi davanti al suo successore Porcio Festo. A questo proposito però si pone una questione cronologica di non secondaria importanza per la datazione degli ultimi anni di vita. Infatti, in Atti 24, 27, si legge che "trascorsi due anni, Felice ebbe come successore Porcio Festo"; il problema è di sapere a che cosa si riferiscano i "due anni": a quelli della prigionia di P., secondo l'interpretazione tradizionale, oppure a quelli dell'incarico di Felice come procuratore? Si può del tutto accogliere questa seconda possibilità, ma allora la scansione cronologica varia, appunto, di almeno due anni: in questo caso, infatti, Paolo viene arrestato nel 55 (invece che nel 57-58) e giunge a Roma nel 56 (invece che nel 60-61). In ogni caso, secondo gli Atti, egli come cittadino romano si appella a Cesare (Nerone) e viene perciò deferito al tribunale dell'imperatore a Roma. Quale esito abbia avuto il processo nella capitale dell'impero non è detto esplicitamente. La tesi tradizionale sostiene che egli fu prosciolto, intraprese un viaggio prima in Spagna (ma ciò è attestato solo dagli apocrifi Atti di Pietro della fine del sec. 2°) e poi ancora in Oriente (come sembrano supporre le lettere a Timoteo e a Tito, che però oggi si tende generalmente a considerare come pseudepigrafe), dove sarebbe stato di nuovo arrestato (ma di ciò non si ha alcuna notizia) e ricondotto a Roma per un nuovo processo conclusosi con il martirio. Sembra però meglio pensare, con i più, che già il biennio trascorso a Roma come prigioniero (cfr. Atti 28, 30) sia terminato con la sua morte violenta, che una tradizione posteriore collocherà alle Aquae Salviae (od. Tre Fontane). Nel Nuovo Testamento l'epistolario paolino comprende tredici lettere (che si è soliti indicare con la designazione dei destinatarî) recanti il nome dell'Apostolo come mittente; oggi però, al suo interno, si tende a distinguere un gruppo di sette lettere da considerarsi autentiche, cioè scritte storicamente da P. (secondo questo probabile ordine cronologico: I Tessalonicesi, I-II Corinzî, Filippesi, Filemone, Galati, Romani), e un altro gruppo di sei lettere pseudepigrafe, cioè scritte dopo la morte di P. da alcuni suoi discepoli in rapporto a mutate situazioni ecclesiali (nell'ordine: II Tessalonicesi, Colossesi, Efesini, I-II Timoteo, Tito); questa partizione è motivata da fattori tanto stilistici (variazioni di lessico e di sintassi) quanto teologici (slittamenti tematici specie in cristologia ed ecclesiologia) e anche storiografici (per l'impossibilità di inserire alcune lettere in un quadro biografico credibile). I-II Timoteo e Tito dal sec. 18° sono chiamate Lettere pastorali in quanto indirizzate a singoli pastori di Chiese. L'epistola agli Ebrei, sprovvista di mittente eppure tradizionalmente inserita nell'epistolario paolino, è oggi ritenuta unanimemente di altro autore (v. Ebrei, Lettera agli). ▭ Nell'epistolario paolino non si ha un'esposizione sistematica della dottrina teologica e morale dell'Apostolo. Ciò dipende dal fatto che le lettere sono scritti sì intenzionali, ma occasionati da precise circostanze storiche, per cui P. richiama, sviluppa, approfondisce alcuni aspetti della sua precedente predicazione, quasi sempre mosso da preoccupazioni di ordine pastorale. Ciononostante, le sue lettere avranno una parte eccezionale nella storia del pensiero cristiano, e la successiva speculazione teologica, dall'età dei Padri alla Scolastica, dalla Riforma e Controriforma fino a oggi, sottolineerà e interpreterà di volta in volta, spesso in sensi diversi, questa o quella affermazione della sua teologia. È possibile però intravedere un tema centrale, un'idea dominante che, attraverso una progressiva elaborazione, è venuta maturando nel suo spirito. La discussione sul problema del centro della teologia paolina è stata a lungo dominata da un'alternativa: secondo la tesi luterana classica, il tema primario sarebbe quello della giustificazione per fede senza le opere della Legge, mentre per altri (tanto protestanti quanto cattolici) al centro sta l'affermazione di una partecipazione mistica alla vita del Cristo come Signore risorto. Altri studiosi sottolineano invece la concezione previa e fondamentale, tipica dell'Apostolo, secondo cui i gentili, tradizionalmente esclusi da parte di Israele, sono paritariamente ammessi a condividere con piena libertà i beni salvifici proprî delle speranze escatologiche espresse nella Bibbia. In realtà, questa concezione, che doveva suscitare tante opposizioni da parte non solo del giudaismo ma anche del giudeocristianesimo conservatore, era stata favorita e anzi suscitata in P. da una particolare ermeneutica del Vangelo che annunciava il valore salvifico della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Secondo l'Apostolo, ormai in Cristo Gesù "non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più maschio né femmina" (Gal. 3, 28). La sua scandalosa morte in croce, seguita dalla gloriosa resurrezione, è talmente densa di virtualità salvifiche da valere indistintamente per tutti gli uomini, con riflessi persino sul cosmo. A questo evento cristologico ci si può rapportare soltanto con la fede; non sono assolutamente le opere morali che determinano la sua efficacia salvifica, la quale invece è pienamente disponibile per chi lo accoglie con totale umiltà. Conseguenza inevitabile di questa visione delle cose è che la Legge mosaica, a cui tanto il giudaismo quanto il giudeocristianesimo annettevano un'importanza basilare nel processo della salvezza, poiché si scorgeva in essa l'espressione definitiva della volontà di Dio, risulta ormai priva di efficacia salvifica e nel migliore dei casi ridotta a un adiàphoron, un dato indifferente (cfr. Gal. 5,6: "In Cristo Gesù ciò che conta non è la circoncisione né il prepuzio, ma la fede che opera per mezzo dell'amore"). La Legge però viene anche collegata con il peccato, nel senso che essa ne è insieme causa ed effetto, e la celebre pagina di Rom. 7, 7-25, esprime bene il senso di angoscia di chi si lascia avvolgere dalle sue spire (cfr. il v. 19: "Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio"). Solo Cristo rappresenta una vera liberazione, in quanto sottrae l'uomo alla logica del dovuto e lo colloca in quella del gratuito. Secondo P., infatti, l'uomo è alla sua radice corrotto da una condizione di peccato, che precede ogni trasgressione della legge e anzi la occasiona. Da questo peccato personificato, che è anteriore alla volontà personale, non è possibile sottrarsi né con il pentimento né con un mero sacrificio di espiazione, ma solo con una morte radicale a esso e con un passaggio di signoria: sono la fede e il battesimo che operano questa decisiva trasposizione dalla sfera mortale del peccato a quella vivificante del Signore risorto (cfr. Rom. 6, 1-11). Evidentemente questa concezione presuppone un'antropologia particolare, per cui l'uomo è di per sé inserito nella sfera della "carne", cioè di una fondamentale alienazione da Dio; solo lo Spirito Santo effuso nel cuore del credente battezzato riesce ad annullarla e a costituire il cristiano già in una condizione di santità previa a ogni sforzo ascetico (cfr. I Cor. 1,2; II Cor. 1,1). È su queste basi che poggia anche l'etica paolina: essa trae i suoi contenuti non solo dalla Legge (cfr. il Decalogo), ma anche dalla tradizione sapienziale e dall'ambito culturale ellenistico (cfr. Rom. 12, 9-21). Suo carattere distintivo è la collocazione secondaria rispetto alla fede, la quale però, se è alternativa rispetto alle opere nel processo di giustificazione, richiede anche un operoso comportamento etico incentrato sul comandamento dell'amore vicendevole (cfr. Rom. 13, 8-10; e in particolare il suo encomio in I Cor. 13). La dottrina dell'Apostolo si estende poi alla comunità dei battezzati, che egli definisce in termini originali come corpo di Cristo, cioè come estensione della persona di Cristo a livello di società, a sua volta strutturata in varî ministeri (cfr. I Cor. 12, 4-30). Anche l'attesa escatologica è da lui concepita non più soltanto con le antiche categorie profetiche del "giorno di Dio" (e della sua ira), ma anche con quelle ellenistiche della parusìa, cioè dell'avvento solenne e rassicurante del Signore (cfr. I Tess. 4, 13-17). Le posteriori lettere ai Colossesi e agli Efesini presentano altre nuove acquisizioni teologiche, consistenti essenzialmente nei concetti di "mistero" (inteso non in senso cultuale né dottrinale, ma apocalitticamente come la definitiva realizzazione del piano divino di salvezza, compiutasi in Cristo: cfr. Col. 2, 2-3) e di Cristo come "capo" non solo della Chiesa ma del cosmo intero, che è stato ormai intestato a lui (cfr. Ef. 1, 10); da queste dichiarazioni deriva inevitabilmente per il cristiano una visione positiva del mondo e della storia. ▭ Festa, 29 giugno.
Iconografia. - Il tipo iconografico del santo, con viso allungato, fronte alta e barba scura e appuntita, è stabilito già dal 4° sec. Tra i più antichi attributi è il cartiglio o libro, in riferimento ai suoi scritti, secondo un'iconografia propria agli evangelisti (rilievo eburneo, metà del 10° sec., Venezia, Museo Archeologico), o alla traditio legis (v.), in cui è frequentemente raffigurato con Pietro; i due santi sono inoltre spesso insieme come fondatori della Chiesa. Dal 13° sec. compare la spada del martirio (Arnolfo di Cambio, ciborio di S. Paolo fuori le mura a Roma, 1285). Pur non appartenendo al gruppo originario degli apostoli è spesso associato ai dodici (affreschi nelle catacombe di Domitilla a Roma, 350 circa; mosaici in S. Pudenziana a Roma, inizio del 5° sec.; affreschi in S. Demetrio a Vladimir, fine del 12° sec.), talora anche in episodî non pertinenti alla sua storia, come avviene in varie raffigurazioni della Pentecoste. Alcuni episodî della vita divengono soggetti indipendenti, come la Conversione sulla via di Damasco in cui P., atterrato dalla rivelazione di Dio, compare spesso disarcionato da cavallo (Caravaggio, 1601, Roma, S. Maria del Popolo). Un tema caro alla Controriforma, che si sviluppa nel 17° sec., è il Rapimento al terzo cielo (N. Poussin, 1650, Louvre). Per la leggenda di Simone Mago, v. la voce. Numerosi i cicli con storie della vita (Bibbia di S. Paolo fuori le mura, 9° sec.; affreschi in S. Benedetto a Malles, 9° sec.; mosaici nel duomo di Monreale e nella Cappella Palatina, 12° sec.); da ricordare i perduti affreschi di P. Cavallini in S. Paolo fuori le mura (1270-87).
Apocalisse di Paolo. - Un'apocrifa apocalisse, nota alla tradizione anche come Visio Pauli (perché vi è descritta una sua visione dell'aldilà), è verosimilmente anteriore alla metà del 3° sec.; forse nota a Origene, certamente ad Agostino e Sozomeno, è trasmessa, sotto recensioni diverse, in almeno una quindicina di lingue, derivanti da un probabile originale greco perduto. Pur dipendendo da una precedente e apocrifa Apocalisse di Pietro, l'Apocalisse di P. ne diverge perché descrive la condizione dei defunti nell'aldilà (paradiso e inferno) non rimandandola alla fine dei tempi ma collocandola subito dopo la morte. È probabile che fosse nota a Dante (cfr. Inf. II, 28-30). Un'altra e più breve Apocalisse di P., databile al sec. 2°, di carattere gnostico, è stata rinvenuta nei manoscritti copti di Naǵ῾ Ḥammādī.
Atti di Paolo. - È un apocrifo anteriore alla fine del 2° sec. (comprendente anche gli Atti di P. e Tecla, trasmessi a volte separatamente) noto già a Tertulliano, e nei primi secoli godette persino da parte di alcuni di autorità canonica (cfr. Ippolito, Ambrosiaster), mentre altri lo osteggiarono aspramente (cfr. Tertulliano, Girolamo), finché fu escluso dal canone neotestamentario. Originariamente più estesi del testo oggi conosciuto, gli Atti di P. narrano una lunga serie di peripezie dell'Apostolo in varie città, da Damasco fino a Roma, compreso il suo martirio. Vi è tracciato il più antico ritratto fisico di Paolo. Altre narrazioni apocrife sono una Passione di P. dello pseudo-Lino (secc. 4°-5°) e una Passione di P. dello pseudo-Abdia (sec. 6°). Una Predicazione di P. sembra nota ad alcuni autori antichi (cfr. Clemente Alessandrino), ma non se ne conosce il testo se non per scarsi frammenti.
Compagnia di s. Paolo. - Istituto secolare, fondato per ispirazione del cardinal Ferrari nel 1920, a Milano, da don Giovanni Rossi (v.), e approvato nel 1950. Si propone di portare nel mondo la testimonianza cristiana con un apostolato capillare e intenso.
Società s. Paolo. - Congregazione religiosa clericale di voti semplici, fondata nel 1914 da don Giacomo Alberione (1884-1971) ad Alba; si dedica all'apostolato attraverso i mezzi di comunicazione sociale (in Italia, attraverso il settimanale Famiglia cristiana e le Edizioni Paoline). Estesasi prima in Italia (dal 1926 a Roma) poi in molti altri paesi, ottenne il decreto di lode nel 1941 e l'approvazione nel 1949.