L’oltretomba secondo la concezione pagana e il luogo di pena per le anime dei peccatori, secondo la concezione cristiana.
L’aggettivo latino infernus racchiudeva una sfumatura intensiva di inferus, indicando una posizione spaziale particolarmente inferiore; nell’uso romano in seguito assunse una portata cosmologica, riferendosi alla parte sotterranea del mondo, nella quale trovavano il loro posto naturale i morti sepolti nella terra e quindi anche gli dei della morte o dei morti, che i Romani distinguevano, quali di inferi o inferni, dagli di superi localizzati in cielo. Così la parola finì per designare l’oltretomba, ma non nell’accezione di luogo di dannazione e di tortura. La valorizzazione dell’i. pagano come luogo di pena cominciò allorché la morte stessa prese a essere considerata come situazione negativa.
Nell’ebraismo, dove l’idea della vita ultraterrena è vaga, i trapassati, ridotti a pallide ombre, si raccolgono nello Shĕ’ōl. Questa primitiva concezione si affina nella letteratura profetica, specie nell’età successiva all’esilio; e nell’età dei Maccabei, insieme all’idea della resurrezione, si fa avanti la concezione di un diverso stato dei giusti e dei reprobi dopo la morte. Nella predicazione di Gesù, alla Geenna, luogo di dannazione, e al «fuoco eterno» si contrappone lo stato felice dei giusti nel regno di Dio (discorso escatologico in Matteo 25, 31-46); e in tutto il cristianesimo primitivo dalla tensione apocalittica esce rafforzata la credenza nei due regni ultraterreni, entrambi sempiterni: di uno è re Satana (Apoc. 9, 12), mentre l’altro è proprio dei giusti. Questa fede, già attestata in tutta la letteratura subapostolica e nei primi apologeti, trovò l’opposizione di Origene, la cui dottrina, che riteneva contrastante alla bontà divina l’eternità delle pene, fu condannata nella Fides Damasi (500 circa), e successivamente nei concili Costantinopolitano II (553), Costantinopolitano III (680-681) e Niceno (787).
Nulla la Chiesa ha definito sul luogo dell’i., pensato sempre come stato spirituale e non come luogo, ma non sono mancati coloro che hanno cercato una precisa collocazione cosmologica. Per la teologia cattolica attuale, l’i. è lo stato di dannazione, intesa come definitiva autoesclusione dalla comunione con Dio e con i beati, come conseguenza di una morte in peccato mortale, senza pentimento e senza fiducia nella misericordia divina.
È solo a partire dal 9° sec. che l’i., come luogo di supplizi e di dannazione eterna, comincia ad apparire nell’iconografia cristiana. Simbolicamente rappresentato da immagini di diavoli o di animali mostruosi che tormentano i dannati, voragini e antri infuocati (soprattutto nella tradizione occidentale), o dalle personificazioni del principe degli inferi o dei peccati capitali, il tema dell’i. si afferma inizialmente nella miniatura bizantina e carolingia. Ispirandosi ai testi biblici, canonici e apocrifi (Apocalissi, Visio Pauli ecc.) e alla letteratura medievale di visioni dell’oltretomba, l’iconografia dell’i. dal Trecento trova, nella descrizione dantesca, un punto di riferimento quasi esclusivo. Già dal 12° sec. l’i. è spesso raffigurato in connessione con il tema del Giudizio Universale, sulle facciate interne e sui portali delle chiese (affreschi di S. Angelo in Formis, 12° sec., Capua, e di S. Maria Novella, 14° sec., Firenze; timpano della cattedrale di Autun, 12° sec.). Un particolare filone è costituito dalle illustrazioni della Divina Commedia e dalle opere d’arte che a essa si ispirano (S. Botticelli, J. Flaxman, G. Doré, E. Delacroix, A. Rodin, R. Guttuso ecc.).