Cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in ogni altro organismo vivente o elemento costitutivo di esso.
La m., come ogni altro evento del ciclo della vita, impone a tutte le società complesse modalità organizzative, divenendo un fatto sociale che riguarda e coinvolge sia gli individui, sia i diversi gruppi dei quali essi fanno parte, sia ancora la società nel suo insieme. Per far fronte, sui diversi piani, all’evento della m. sono quindi messi in atto particolari rituali funerari. Tra questi, R. Hertz attribuiva particolare importanza a quelli di doppia sepoltura, nei quali, mettendo in atto una dilazione cronologica tra l’evento naturale e la definitiva separazione del defunto dalla comunità, viene posta in risalto l’esigenza umana di una manipolazione, simbolica e psicologica, della morte. Una simile manipolazione, oltre a consentire l’elaborazione di forme di cordoglio, rende possibile la trasformazione del morto, immaginato spesso simbolicamente pericoloso, in antenato, e quindi il controllo della sua potenziale negatività. Anche per E. De Martino, la m. impone alla cultura umana l’obbligo di elaborare modalità rituali in grado di operare una prima presa di distanza culturale dall’evento luttuoso, così da frenare, nell’azione del rito, il rischio di una reale perdita della presenza individuale e collettiva. La m. costituisce, inoltre, una lacerazione di un compatto tessuto sociale fatto di status, ruoli e diritti. È dunque necessario, in ogni società, predisporre forme istituzionalizzate per controllare la trasmissione di simili ‘beni’ e per ricucire, in maniera dotata di senso, lo strappo determinatosi.
La m. pone evidenti problemi di senso, che portano le società a interrogarsi sulla natura di un simile evento. In numerose culture la m. nelle sue diverse modalità è ritenuta causata da fattori e motivazioni di origine e natura sociale. Diviene quindi importante accertare le concrete cause di ogni singola m. (per es., stregoneria, avvelenamento reale o mistico, tensioni sociali di diverso tipo), di solito attraverso pratiche divinatorie e necroscopiche.
La festa dei morti, pur variando nei dettagli rituali, nelle particolari credenze connesse, nella durata e nella posizione calendariale, è uno di quei fenomeni religiosi che mostrano caratteri sostanzialmente uguali: in un determinato giorno o periodo dell’anno (che è spesso la fine o il principio dell’anno stesso e cade nella stagione del raccolto o in altro momento saliente della vita della comunità), i morti ritornano tra i vivi, sono da questi ospitati con offerta di cibi, eventualmente di abiti e altri oggetti, partecipano ai banchetti festivi, assistono ai riti, e alla fine della festa vengono invitati a lasciare di nuovo il mondo dei vivi; la loro visita qualche volta è preceduta da un formale invito o evocazione e da una congrua preparazione dei vivi (pulizia sulle strade e nelle case, digiuno, astinenza); essa può svolgersi nelle case stesse dove hanno trascorso la vita, o nei luoghi pubblici della comunità o presso le tombe; dà occasione a riti ora di tipo funebre (lamentazioni), ora di tipo orgiastico (danze, mascherate, orge sessuali), a particolari interdizioni temporanee, a sacrifici e, concludendosi, a riti purificatori destinati a ristabilire l’ordine normale che presuppone una separazione tra vivi e morti.
I temi noti dalle religioni primitive e antiche sopravvivono nelle credenze e usanze popolari europee attuali, raggruppate intorno alla festa ecclesiastica della commemorazione dei defunti (2 novembre). Nelle regioni italiane esistevano usanze caratteristiche: in Friuli per la notte del 2 novembre si lasciava un lume acceso, pane e acqua sul tavolo per i morti che passavano quella notte in casa; in Lombardia vi era l’uso di tavola imbandita, fuoco acceso e sedie vicine al focolare; altrove la gente si alzava prestissimo per lasciare i letti agli spiriti; in Abruzzo si credeva che i morti si trattenessero tra i vivi dal 2 novembre fino all’Epifania. Tra i cibi particolari offerti ai morti in Italia prevalevano le fave, poi diventate per lo più dei dolci fatti a forma di fava; l’offerta ai morti si trasformava anche in distribuzione gratuita di cibi ai poveri. In Sicilia il giorno dei morti era l’occasione per fare regali ai bambini. A Roma tra il 18° e il 19° sec. avevano luogo rappresentazioni sacre organizzate dall’Arciconfraternita dell’orazione e morte.
Nell’arte antica compare la raffigurazione della m. come genio malefico dalle fattezze mostruose (soprattutto su vasi); come demone femminile alato; come figura maschile alata (Tanato) sia nella pittura vascolare sia in numerosi rilievi. Si può ricordare anche la rappresentazione di scheletri con valore simbolico (il teschio simbolico, accompagnato da elementi allegorici, come la ruota, è in un mosaico del Museo Nazionale di Napoli, forse da Pompei). In sarcofagi paleocristiani, secondo la tradizione classica, la m. è simboleggiata dal genietto con la face riversa; la m. appare sotto forma di vecchia barbuta e alata in un avorio del 4° sec. (Londra, British Museum) e come giovane donna di pelle scura, seduta su un sarcofago, nel Cosma Indicopleuste Vaticano (9° sec.); nella primitiva arte tedesca è rappresentata da una figura maschile. In una croce d’avorio danese del 1075 (Copenaghen, Nationalmuseet) è rappresentata la vittoria della vita sulla m., quest’ultima effigiata come una figura femminile che cade in una bara.
Come «memento mori», ricco di spunti moraleggianti, il tema della m. appartiene al tardo Medioevo. Nel 14° sec. si diffonde il motivo iconografico della danza macabra, noto fino al 16° sec., diffuso nell’Europa centrale (Francia e Germania), e in Italia settentrionale (Trento, Clusone, Pinzolo, Carisolo): raffigurazione lugubre, d’intento morale, nella quale dei morti, sotto forma di cadaveri scarni, e più tardi di scheletri, trascinano in danza grottesca ciascuno un personaggio delle varie condizioni umane (papa, imperatore, cardinale, re, e via via usuraio, lavoratore, fanciullo). Il motivo fissa il tipo della m.-scheletro, già noto dall’antichità e che nel Medioevo si era presentato nell’Hortus deliciarum di Herrade di Landsberg, nelle sculture del duomo di Strasburgo e altrove. Il tema presto si diffuse in Francia, in Svizzera e in Germania, poi in Italia: nella Leggenda dei tre vivi e dei tre morti (l’incontro di tre cavalieri, durante una caccia, con tre scheletri che li invitano a meditare sulla comune sorte futura), che ha una larga documentazione e il monumento maggiore negli affreschi, in parte distrutti, del Camposanto di Pisa, dove la m. è una figura femminile alata; e nel Trionfo della m., iconografia ispirata dai trionfi antichi e diffusa dalla fine del 14° sec. come vittoria della m. sulle vanità terrene e sul tempo, spesso associata al Giudizio finale (in quello di Palermo, palazzo Sclafani, 15° sec., compare lo scheletro a cavallo, secondo il suggerimento dell’Apocalisse). Dal 15° sec. si accentua l’aspetto realistico del cavaliere come simbolo della morte. Nel Rinascimento il tema entra a far parte di quel ciclo di Trionfi cui l’opera petrarchesca dette diffusione e l’ispirazione classica lo schema compositivo: la m.-scheletro, con gli attributi della falce e della clessidra, passa, abbattendo gli umani, su un carro-bara tirato da bufali. Nell’arte tedesca trovavano espressione molti temi radicati nel folclore, a cui si dedicavano incisori come A. Dürer, H. Baldung Grien, N.M. Deutsch: la m. e il soldato, la m. e l’amante ecc. In Italia e in Europa settentrionale si definiva una specifica simbologia della m., utilizzata nelle tombe e in altri monumenti (teschi, ossa incrociate ecc.).
Nel 17° e 18° sec. lo scheletro è una presenza costante nei monumenti funebri e nei catafalchi, anche con interpretazioni originali (G.L. Bernini). Nel 17° sec. sorsero cimiteri ‘decorati’ di ossa e di teschi, come quello dei Cappuccini e quelli di S. Francesco delle Stimmate a Roma. All’inizio del 19° sec. P.V. Bonomini dipinse una serie satirica che aveva come personaggi degli scheletri (Bergamo, S. Grata inter vites). Il periodo neoclassico torna al genio alato dell’antichità e ad altri simboli indiretti della m.; tra il 19° e il 20° sec. il tema del trionfo della m. è stato ripreso, con originalità di concezione e con coscienza dell’antica tradizione, da H. Rousseau e da O. Redon.
Per il fenomeno della m. cellulare programmata ➔ apoptosi.
La dichiarazione di m. presunta è disciplinata dal codice civile (art. 58-73). Quando sono trascorsi 10 anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia di un soggetto assente (➔ assenza) che sia maggiorenne da almeno nove anni, il tribunale dell’ultimo domicilio o dell’ultima residenza può, su istanza del pubblico ministero o degli interessati o dei presunti successori legittimi, dichiarare con sentenza la m. presunta dell’assente nel giorno a cui risale l’ultima notizia. La m. presunta può tuttavia essere dichiarata anche se sia mancata la dichiarazione di assenza; l’art. 60 c.c. elenca inoltre tre ulteriori casi in cui può essere dichiarata la m. presunta (scomparsa in operazioni belliche, prigionia, infortunio). Divenuta eseguibile la sentenza che dichiara la m. presunta, il coniuge può contrarre nuovo matrimonio e coloro che avevano ottenuto l’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente possono disporne liberamente. Se la persona di cui è stata dichiarata la m. presunta ritorna, o ne è provata l’esistenza, il nuovo matrimonio del coniuge è nullo (ma ne sono salvi gli effetti civili); inoltre, la persona ricupera i beni nello stato in cui si trovano e ha diritto di conseguire il prezzo di quelli alienati, se ancora dovuto, o i beni nei quali sia stato investito.
Due sono fondamentalmente gli atteggiamenti nei confronti della m. che è dato ritrovare nella storia della filosofia: da un lato la m. è intesa come un evento o, meglio, un problema di cui fornire una spiegazione metafisica; dall’altro è concepita come problema relativo all’esistenza umana e alla situazione dell’uomo nel mondo. Entrambi gli atteggiamenti coesistono in tutto il corso del pensiero occidentale, mentre il secondo è tipico dell’esistenzialismo contemporaneo.
Per Platone, che subiva l’influsso delle dottrine orfiche, la m. equivale alla separazione dell’anima immortale dal corpo corruttibile e all’inizio di una nuova vita dell’anima individuale. La concezione platonica influenzò anche il cristianesimo, che al concetto biblico della m. come pena affiancò poi quello dell’immortalità personale. In una prospettiva già ‘esistenziale’ si pone il sistema epicureo, che nega che la m. sia un male, non perché momento di passaggio all’immortalità ma in quanto assoluta insensibilità derivante dalla cessazione della vita organica. Se nel Medioevo la m. è considerata soprattutto nella prospettiva teologica cristiana, il Rinascimento oscilla tra concezioni platonico-cristiane e concezioni panteistico-animistiche (legate in qualche modo a concezioni platoniche), mentre nel pensiero moderno è difficile individuare una riflessione specifica sulla m. se non in dipendenza da quelle sull’anima, l’immortalità e il materialismo.
L’idealismo tedesco, soprattutto con F. Hegel, ripropose invece l’antico tema dell’immortalità impersonale in una prospettiva panteistica, prospettiva peraltro comune agli autori del Romanticismo tedesco. Tema articolato specificamente dal giovane L.A. Feuerbach, che sul concetto di m. individuale come espressione della finitezza dell’uomo, riscattata soltanto dall’infinità dello spirito di cui l’uomo è partecipe, fonda la sua polemica anticristiana. Nella filosofia contemporanea l’esistenzialismo, in contrapposizione a qualsiasi caratterizzazione biologica o impersonale, intende la m. come ‘situazione’ decisa, come possibilità esistenziale sempre aperta e tale che in base a essa soltanto, intesa come limitazione dell’esistenza, è possibile valutare e comprendere la vita. Già presente in S. Kierkegaard, questa concezione si precisa in M. Heidegger. L’autenticità dell’esistenza, in contrasto con l’esistenza banale, soggetta alla ‘cura’, è proprio nell’‘essere-per-la m.’ che, in quanto possibilità dell’annullamento di ogni rapporto, è la possibilità più propria dell’Esserci.
La diagnosi di m. ha subito nel tempo profonde revisioni e modificazioni sia in rapporto alla conoscenza di nuove situazioni cliniche sia in relazione all’obbligo di chiarezza, tempestività e sicurezza nella diagnosi, in caso di espianto di un organo ancora vitale ai fini del trapianto. Nell’uomo il sistema critico delle funzioni vitali è il cervello. L’accertamento della m. cerebrale richiede che si verifichino alcune condizioni: a) stato di coma non dovuto a intossicazione da farmaci o da alcol; b) assenza completa di tutti i riflessi localizzati al tronco encefalico (corneale, fotomotore, faringeo ecc.); c) assenza di attività elettrica cerebrale; d) assenza di respirazione spontanea. La definizione rigorosa del concetto di m. e l’accertamento precoce di quest’ultima rientrano nella complessa problematica inerente all’interruzione dei provvedimenti rianimatori atti a consentire un prolungamento dello stato di coma in assenza di ogni possibilità di ripristino dell’attività nervosa superiore.
La definizione giuridica dell’accertamento della m. ai fini del trapianto di organi procede da alcuni presupposti etici fondati sul rispetto della vita umana: a) non si può anticipare la m. di un paziente allo scopo di prelevare un organo, sia pure per salvare la vita di un altro individuo; b) l’accertamento della m. va affidato alla scienza e alla coscienza dell’équipe medica e non costituisce in tale contesto un problema filosofico o teologico. L’introduzione di tecniche rianimatorie che permettono la continuazione della funzione respiratoria e cardiocircolatoria per qualche tempo, al fine di impedire la degenerazione rapida degli organi destinati all’espianto, non intacca il fatto che, laddove si sia verificata la cessazione definitiva delle funzioni dell’intero encefalo, la vita umana non può essere in alcun modo riattivata e l’individuo sia biologicamente morto. A garanzia di tale irreversibilità, è necessario esigere un periodo di osservazione, durante il quale sia accertata non solo la cessazione dell’attività della corteccia cerebrale, ma anche che i nuclei profondi dell’encefalo, che unificano le funzioni vitali, siano irreversibilmente compromessi. Non è sufficiente perciò la sola perdita delle funzioni di relazione dovute alla compromissione della corteccia, che inducono il paziente in uno stato di coma o di stato vegetativo persistente: anzitutto perché nell’esperienza clinica si sono verificati casi di recupero delle funzioni della corteccia dopo lunghi periodi di coma, cosicché la medicina non possiede certezze nella definizione della irreversibilità della compromissione della sola corteccia, rendendosi perciò necessario che tutto il tronco-encefalo sia morto; in secondo luogo, perché l’identificazione della m. con la cessazione della vita di relazione porta a una distinzione tra m. personale e m. biologica dell’organismo, con gravi implicazioni di natura etica: se la m. della persona potesse verificarsi prima della m. reale dell’organismo, si dischiuderebbe, infatti, la possibilità di interrompere la vita biologica con interventi eutanasici, prima del sopraggiungere della m. naturale.
La m. apparente è un particolare stato simile alla m., dalla quale però si può facilmente distinguere ricorrendo all’elettrocardiogramma e all’elettroencefalogramma. Può verificarsi per cause diverse (folgorazione, sincope ecc.) ed è caratterizzata dall’arresto dei movimenti respiratori e dalla limitazione dell’attività nervosa al parziale mantenimento di alcune funzioni vegetative, mentre la funzione cardiaca è estremamente ridotta. In caso di m. apparente va praticata la respirazione artificiale contemporaneamente alla somministrazione di analettici e cardiotonici; talvolta si ricorre all’iniezione intracardiaca di adrenalina. Anche la stimolazione alternata della cute con il caldo e il freddo può dare buoni risultati (➔ anabiosi).
Per m. improvvisa si intende un decesso inaspettato, che si verifica in individui apparentemente in pieno benessere fisico o, al contrario, con latente o manifesta condizione coronaropatica. La m. improvvisa è indotta dal cessare dell’attività contrattile cardiaca efficace. Frequentemente all’autopsia si ha riscontro di grave affezione aterosclerotica, sebbene in oltre la metà dei casi non sia riportata diagnosi di insufficienza coronarica. La definizione di m. improvvisa è complessa e varie considerazioni di ordine epidemiologico, clinico, elettrofisiologico e anatomo-patologico rendono arduo fissare limiti precisi all’evento, sia in termini cronologici sia in rapporto all’eziologia. Uno degli aspetti più importanti concerne l’identificazione di condizioni predisponenti; sebbene non esista ancora una definitiva concordanza, sono riconosciuti alcuni fattori di rischio: fumo di sigaretta, particolari anomalie del tracciato elettrocardiografico, ipertensione arteriosa. Le m. improvvise osservate in pieno benessere in individui giovani spesso si possono far risalire a misconosciute anomalie cardiovascolari o ad alterazioni funzionali. Difficile stabilire con chiarezza il ruolo delle circostanze scatenanti che rappresentano il fattore più immediato di m. improvvisa. M. improvvisa in età pediatrica Quadro clinico e anatomo-patologico con il quale si è definita la m. di soggetti compresi fra una settimana e un anno di vita, i quali non presentano al quadro anamnestico e autoptico alcuna alterazione di gravità tale da spiegare l’insorgenza della m. improvvisa stessa. I bambini colpiti da m. improvvisa spesso decedono di notte, nel sonno, senza aver manifestato segni o sintomi premonitori. Sembra attualmente prevalere un’interpretazione che vede implicato il sistema di regolazione respiratoria, con blocco improvviso delle funzioni; fattori cardiocircolatori (disturbi della conduzione intraventricolare ecc.). In passato, quando le conoscenze sull’argomento erano limitate, è stata data importanza all’ipertrofia del timo (m. timica), da collocarsi in un mal precisato e sostanzialmente privo di significato status timolinfatico.
Nell’ebraismo biblico, che si concentra sulla vita in questo mondo, il tema della m. è trattato solo marginalmente, senza una precisa definizione dottrinale. La m. è collegata al peccato di Adamo, come sua conseguenza. Nello shĕ’ōl, dove i morti scendono, si conduce un’esistenza umbratile, in cui manca il rapporto con Dio. L’uomo, o almeno il suo corpo, fatto di polvere, finisce in polvere. Nell’Antico Testamento non mancano tuttavia riferimenti e accenni alle idee della risurrezione e della sopravvivenza oltre la morte.
Nel Nuovo Testamento, Cristo è colui che ha vinto il peccato e la m.; come per Adamo «il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato v’è entrata la m.», così attraverso Cristo, nuovo Adamo, è entrata nel mondo la grazia e con essa la giustificazione e la vita. Così nella prima esperienza cristiana grazia e vita eterna sono strettamente connesse in relazione alla tensione escatologica. Con lo sviluppo del cristianesimo, si verrà definendo il concetto d’immortalità, parallelamente all’idea di una pena e di una felicità ultramondana. La teologia cristiana considera la m. (conseguenza del peccato originale) come la temporanea separazione dell’anima dal corpo (il loro ricongiungimento avverrà con la risurrezione) e la fine dello stato di prova per l’uomo, cui segue il giudizio individuale e la vita eterna in stato di felicità o di pena, secondo i meriti o i peccati della vita terrena.