possibilità La caratteristica di ciò che può esistere, realizzarsi, avvenire. Il concetto filosofico della p. ha una storia assai complessa, che si riconnette strettamente a quella del più generale concetto della ‘realtà’ o dell’‘essere’. Il ‘possibile’ non è infatti un ‘reale’ o ‘ente’, perché deve ancora giungere a tale grado ontologico; ma non è neppure senz’altro un ‘irreale’ o ‘non ente’, in quanto non è escluso per esso il raggiungimento di quel grado. Questo suo carattere di medietà tra l’essere e il non essere fa comprendere come la sua autonomia ideale sia inizialmente negata dai pensatori che in nome dell’assolutezza dell’essere escludono ogni sua mescolanza con il non-essere, come accade implicitamente nell’eleatismo, ed esplicitamente nella eleatizzante scuola megarica, con Diodoro Crono. Così Platone, che concepisce in termini eleatici il mondo dell’essere ideale, e in termini eraclitei quello del divenire reale, esclude dal primo e ammette nel secondo il principio della possibilità. Aristotele, invece, distingue l’idea del δύνασϑαι, dell’effettivo ‘potere’ (onde la δύναμις la ‘potenza’), da quella dell’ἐνδέχεσϑαι, che è il puro ‘poter essere’, senza alcuna predeterminazione né in senso positivo né in senso negativo. Anche per lui comunque la perfezione non è nella potenza ma nell’atto in cui questa si è realizzata e dissolta: e così la suprema perfezione di Dio è, come atto scevro di ogni potenza, un puro essere la cui piena positività non è interrotta da alcuna sopravvivenza di poter essere.
Si intende quindi come il concetto della p. debba venire invece in primo piano nella nuova concezione cristiana di Dio, che alla negazione greca della prassi contrappone l’ideale dell’amore, dell’azione e della potenza. Problema massimo della teologia medievale diviene così quello della conciliazione del razionalismo greco, nella sua sostanza negatore di ogni p. e potenza in seno al divino, e del volontarismo cristiano, che nella potenza scorge invece il massimo attributo di Dio. Alla fine del Medioevo, Niccolò da Cusa riassume in una formula tipica i due motivi contrastanti, definendo la divinità come possest, cioè come unità metafisica del posse e dell’esse; e ancora nell’età moderna B. Spinoza e G.W. von Leibniz si ripropongono il problema, l’uno risolvendo sostanzialmente il posse nell’esse per la stessa ragione per cui risolve la libertà dell’azione nella razionalità della causa, l’altro concependo invece la divina ragione come sede delle infinite p., di cui essa realizza soltanto quelle rispondenti al suo perfetto disegno cosmico. I. Kant, che limita l’uso del concetto di p. all’ambito della logica, ne fa una delle tre categorie della modalità (➔), e propriamente quella che si esprime nel giudizio problematico. Un rilievo particolare è poi venuto acquistando il concetto di p. nell’esistenzialismo contemporaneo, il quale, contro ogni sistema oggettivistico-metafisico, regno della necessità, fa valere la p., con le sue alternative, quale espressione della libertà di scelta e della problematicità e precarietà della condizione umana.