Concetto filosofico opposto a quello di essere, quando questo ultimo sia concepito come eternamente immobile e sottratto a ogni mutazione. A tale concezione dell’essere, sostenuta già nella prima fase evolutiva del pensiero greco dalla scuola eleatica (➔ eleatismo), si contrappone infatti la dottrina della scuola eraclitea, secondo la quale tutta la realtà del mondo non è che un perenne d. (πάντα ῥει, «tutto scorre»). Aristotele concepisce il d. come una forma di mutamento e lo distingue in d. assoluto, che è solo nelle sostanze, e d. relativo, che si riferisce agli accidenti.
Nel pensiero moderno, il concetto del d. è stato sviluppato soprattutto da G.W.F.Hegel, che connette l’idea dell’incessante evoluzione della verità e della realtà con quella del suo moto dialettico. Famosa a tale proposito è la sua dimostrazione dialettica della realtà del d., che egli vede risultare dal fatto che, mentre il puro concetto dell’essere si converte, per la sua stessa assoluta vacuità, in quello del nulla, e quello del nulla a sua volta in quello dell’essere, il concetto del d. li comprende entrambi nella loro concreta unità e verità. Nel pensiero idealistico posteriore, il problema del d. si è sempre più venuto staccando da quello logico-dialettico, tendendo a identificarsi con quello concernente la natura dell’Io e della storia.
Un posto di notevole rilievo assume il concetto di d. anche nella filosofia di H. Bergson il d. si presenta come «durata», «slancio vitale» che sorregge la realtà e condiziona i suoi modi di apprendimento.