Attività di pensiero che attinge ciò che è costante e uniforme al di là del variare dei fenomeni, con l’ambizione di definire le strutture permanenti della realtà e di indicare norme universali di comportamento.
La f. può definirsi come una forma di sapere che, pur nella grande varietà delle sue espressioni, presenta quali note pressoché costanti due vocazioni: una all’universalità e una alla prescrizione di una saggezza. La prima si manifesta in due modi: la f. si pone come una forma di sapere perfetta, comunque quale forma di sapere migliore possibile all’uomo, rispetto ad altre inferiori, o almeno come la forma di sapere più generale e comprensiva; oppure si pone come un sapere che trae altre forme di sapere a suo oggetto, per studiarne le caratteristiche, gli ambiti di validità, i significati impliciti. In entrambi i casi la f. finisce per riguardare tutte le forme dell’attività umana, che essa indaga criticamente all’interno degli ambiti individuati dalle denominazioni correnti delle diverse discipline filosofiche: logica, etica, metafisica, estetica, f. della storia, del diritto, della religione, della natura, della scienza, e così via. La vocazione alla prescrizione di una saggezza si configura come indicazione di una condotta conforme ai risultati della ricerca filosofica.
Nelle più antiche manifestazioni della tradizione occidentale la f. si presenta come una scienza, anzi la scienza per eccellenza, e si occupa delle origini e della struttura delle cose. Nota comune ai diversi filosofi è la ricerca del principio della realtà, di un qualcosa che stia a fondamento della molteplicità dei fenomeni e la renda intelligibile. Secondo la testimonianza aristotelica, per la maggior parte dei primi filosofi questo principio è di carattere materiale: in Talete, per es., è l’acqua il principio comune delle cose.
Ma Anassimandro va oltre questa considerazione di un principio materiale e ravvisa il ‘principio’ in una realtà non determinabile, che chiama appunto l’illimitato e in cui vede la causa della nascita e della dissoluzione degli esseri, il che avviene secondo necessità. Si profila il motivo della legalità cosmica, del significato unitario della varia molteplicità dei fenomeni. Questo motivo torna in Eraclito con la nozione di logos come legge dell’accadere e come regola dei conflitti di opposti in cui consiste lo scorrere della vita. In Eraclito troviamo anche la distinzione di un sapere volgare e di un sapere autentico, il primo proprio dei più, il secondo proprio del filosofo, cioè del sapiente che, oltre le apparenze, conosce la vera natura delle cose. Con Parmenide di Elea, si ha una netta distinzione, anzi contrapposizione, di verità e opinione, correlativa di una valutazione della realtà, di cui la sostanza autentica e veramente reale è l’essere, ciò che è contrapposto al mutevole e instabile mondo del divenire. Con ciò era posto il concetto di una realtà superiore, transfenomenica, attingibile dalla ragione, in antitesi al mondo dell’esperienza ordinaria, recepito dai sensi.
Verso la metà del 5° sec. a.C. l’interesse della ricerca filosofica si sposta verso i problemi antropologici (conoscenza, moralità). Protagonisti di questo nuovo indirizzo sono i cosiddetti sofisti, ai quali si deve anche la critica di una serie di nozioni tradizionali. La f. diventa critica della tradizione, nei suoi aspetti religiosi, etici, giuridici, politici. Alla tradizione con le sue certezze subentra la discussione (onde la centralità della retorica, dell’arte del dire e del persuadere), con forte accento relativistico. Ma perché la discussione sia feconda bisogna avere un criterio, dare un significato ai termini, definirli. Ed è questa l’esigenza avanzata da Socrate, sofista anche lui in quanto fautore della discussione e della critica, ma avversario dei sofisti e più radicale di questi in quanto sostenitore di un discorso corretto e coerente. Da qui il giudizio di Aristotele, secondo il quale Socrate è l’inventore del ‘concetto’ o dell’‘universale’. In Platone coesistono diverse caratterizzazioni, implicite o esplicite, della filosofia. Nel Simposio troviamo l’accezione etimologica del termine (‘amore della sapienza’, e ϕιλοσοϕεῖν nel senso di ‘investigare’ e ‘ricercare’). Del filosofo proteso esclusivamente all’indagine scientifica e incurante di quanto concerne la vita pratica Platone dà una tipica raffigurazione nel Teeteto. Il filosofo del Teeteto è anche matematico e astronomo: egli scopre la struttura stessa dell’essere. E nel Sofista il filosofo è identificato con il dialettico, essendo la dialettica non soltanto un metodo di ricerca o un’esercitazione spirituale, ma il nesso oggettivo che regge i rapporti tra le idee.
Aristotele conferma la concezione platonica della f. come scienza per eccellenza, superiore per profondità alle altre scienze. Le scienze studiano gli oggetti nei loro caratteri necessari o più costanti, la f. invece li studia nella loro essenza più intima, in ciò che hanno di sostanziale e che li fa essere quel che veramente sono. Dunque la f. stabilisce i fondamenti delle altre scienze. In questo significato specifico Aristotele chiama la f. scienza prima o f. prima o anche teologia, e la pone accanto alle altre scienze da lui chiamate teoretiche, la matematica e la fisica, ma in posizione di privilegio rispetto a esse.
Il motivo della f. come ricerca e pratica di saggezza si presenta nella sua forma più specifica nelle scuole epicurea e stoica, e si ritrova anche nei cinici, nei cirenaici e negli scettici. Il nuovo accento che la f. acquista sta nell’assunto che la verità è in funzione dell’io e che il raggiungimento della felicità (e autosufficienza) individuale è lo scopo più importante della vita. Queste f. sorgono in concomitanza con la crisi della città antica ed esprimono la tendenza del singolo a ritrarsi nella propria pace personale. La f. non si riduce tuttavia con questo alla sola etica; gli epicurei ne considerano premesse necessarie la fisica e la canonica (teoria della conoscenza), e anche gli stoici pongono accanto all’etica una logica e una fisica. Ma il fine rimane quello della felicità-serenità del singolo.
Su queste forme di saggezza razionale finiranno presto per prevalere saggezze tipicamente religiose, attinenti cioè non più soltanto alla felicità, ma alla salvezza individuale. E la f. acquista una coloritura religiosa e soteriologica: anzi la f. viene identificandosi con la religione, in quanto la ricerca della verità non si sente esaurita dall’indagine logico-razionale, ma cerca di realizzarsi in una forma di conoscenza superiore (γνῶσις) che attinga realtà ineffabili e divine. Una forte ispirazione religiosa attraversa il neoplatonismo, che vorrà presentarsi soprattutto come un ritorno a Platone: trascendenza del divino, divisione di mondo sensibile e mondo intelligibile, ma rapporto dinamico tra i due nel quadro di una più profonda unità. Nei più tardi neoplatonici si verrà anche, sempre più nettamente, accentuando l’assunzione della mitologia pagana e di riti misterici, magici.
La f. cristiana è intessuta anch’essa di motivi religiosi e teologici: non può infatti prescindere dalle cosiddette ‘verità rivelate’, e quindi dalla fede, e ha come suo vero oggetto Dio, nel quale soltanto il mondo e l’io si comprendono, come la creatura si comprende nel creatore, il finito nell’infinito. Di qui diverse posizioni sui compiti e i limiti della f., ma sempre all’interno del presupposto della sua simbiosi con i contenuti della rivelazione. Agostino parla di un accordo di fede e ragione e di una loro necessaria complementarità. La fede è il presupposto dell’indagine razionale: bisogna prima credere per intendere, anche l’indagine razionale, il conoscere, risponde a un comando di Dio. In questa prospettiva lo stesso intelligere non è un semplice esercizio logico-razionale, ma è ricerca della verità resa possibile da un’assidua assistenza divina che ‘illumina’ la mente dell’uomo. Di qui la mancanza di distinzione tra f. e riflessione sui dati della fede: l’intelletto prosegue e approfondisce la prima e fondamentale esperienza religiosa e tende alla visione beatifica che sarà piena contemplazione della verità (cioè di Dio).
Secondo questa linea si svolge la speculazione medievale prima della riscoperta della f. aristotelica, che cambia radicalmente il quadro della f. medievale. È a questo punto che si vengono a definire una f. e una ragione naturale per loro natura estranee alla tradizione e alla ragione cristiana, e nasce il problema dei loro rapporti con la teologia, cioè con la speculazione cristiana. Tommaso d’Aquino compirà lo sforzo più notevole e coerente di accogliere la f. di Aristotele anche all’interno della speculazione teologica, dopo aver distinto l’una dall’altra. La ragione è autonoma e ha la capacità di ascendere dalla realtà sensibile alle forme di realtà più elevata, fino all’esistenza di Dio, che può dimostrare, come può dimostrarne alcuni attributi. Al di là della ragione stanno alcune verità indimostrabili come la Trinità, la creazione nel tempo, l’incarnazione, il peccato originale. Ma il fatto che stiano al di là della ragione non significa che siano irrazionali: la ragione ha anzi la funzione di preparare all’accettazione di queste verità, perché esse non contrastano con la ragione, rispetto alla quale sono anzi probabili (cioè non-contraddittorie).
Con l’Umanesimo e il Rinascimento la f. continua a essere una forma di sapere totalizzante; muta però il suo accento, perché comincia ad assumere quelle caratteristiche di mondanità a cui generalmente si pensa quando si parla di pensiero moderno. Si rivolge cioè essenzialmente al terreno, all’individuale, allo storico, interessi ovviamente non assenti nella f. e nella cultura medievale, ma nettamente soverchiati dall’interesse per il trascendente. Né, d’altra parte, si può dire che la f. dell’Umanesimo e del Rinascimento sia una f. irreligiosa. Ma l’esigenza religiosa scaturisce dalla dignità stessa dell’uomo, dalla sua eccellenza di fronte alle altre creature, dalla sua centralità nell’universo, dal suo esser fatto a immagine di Dio. Il nuovo atteggiamento si manifesta nella riscoperta dei classici, nella polemica contro la logica scolastica, nella polemica contro la disputa teologica. La riscoperta dei classici non è una semplice riscoperta filologica, ma è soprattutto loro ‘imitazione’ e insieme creazione di un nuovo ideale di vita, ripreso da quei modelli.
La polemica contro la logica scolastica (e aristotelica) si configura come polemica contro una disciplina astratta, nel senso di artificiosa e inutile per la ricerca. La polemica contro la disputa teologica è anche essa polemica contro problemi insussistenti e gratuite escogitazioni mentali. A queste forme di ‘astrattezza’ vengono contrapposti da un lato tentativi di logiche diverse, più vicine ai concreti processi della mente e alla conoscenza psicologica dell’uomo, dall’altro la concreta esperienza religiosa così com’è vissuta dal credente. Si viene affermando per questa via il principio della tolleranza, desunto dal rilievo dei caratteri comuni alle varie fedi e dall’inessenzialità degli elementi differenziali e di contrasto.
In Francesco Bacone troviamo, come in tutto il Rinascimento, l’ideale del regnum hominis, del razionale dominio della natura, scopo del sapere e dell’organizzazione anche pratica del sapere. Bacone offre un’enciclopedia delle diverse forme di sapere, una sistemazione organica delle diverse scienze. Abbiamo una f. intesa come sapere razionale e comprendente varie discipline, e la f. nel senso più stretto o f. prima, comprendente le nozioni più generali, cioè gli assiomi validi per diverse scienze.
La f. moderna dunque si sviluppa in stretta connessione con le scienze, nei confronti delle quali il suo rapporto è duplice: per un verso la f. vuole imitarne il rigore metodico e, sotto questo profilo, farsi scienza essa stessa; per un altro verso pretende di avere un suo specifico campo d’indagine che stabilisca i fondamenti delle scienze. Della sua f. R. Descartes dice che è una f. ‘prima’, dedicata cioè alle nozioni più generali. Da ciò l’immagine del sapere come di un albero, «di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le scienze».
T. Hobbes, B. Spinoza, G.W. Leibniz concepiscono la f. secondo un analogo schema razionalistico, cioè come la scienza che studia le ragioni ultime dei fenomeni, servendosi di un metodo rigoroso, mutuato dalle matematiche. Ma mentre in Leibniz si ha un recupero teologico, in Hobbes e Spinoza troviamo una netta separazione di f. e teologia, perché la teologia concerne nozioni non soggette all’analisi razionale e perché ha come oggetto la fede, il cui scopo è l’obbedienza e la pietà, e non la verità, che è l’unico scopo della filosofia.
Con J. Locke la f. assume come suo compito essenziale l’esame della validità e dei limiti del sapere, diventando così f. critica. Prima di procedere alla costruzione di edifici metafisici occorre analizzare la nostra facoltà di conoscere. Il risultato dell’indagine è che l’esperienza è il fondamento e l’origine di tutte le nostre conoscenze, e quindi la base metodica della filosofia.
La lezione di Locke fu una lezione di cautela critica, e in questo senso la sua f. fu interpretata dall’Illuminismo. «Dopo tanto sfortunato vagabondare – scrive Voltaire – stanco, estenuato e vergognoso di aver cercato tante verità e trovato tante chimere, ritornai, come il figliol prodigo al padre, a Locke; e mi gettai nelle braccia di un uomo modesto, che non finge mai di sapere quel che non sa, che non possiede, a dir vero, immense ricchezze, ma i cui fondi sono sicuri, e che gode senza ostentazione dei più solidi beni». Analogo elogio si può leggere nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia, scritto da d’Alembert: si può dire che Locke – afferma d’Alembert – «creò la metafisica, pressappoco come Newton aveva creato la fisica». E questa metafisica è «ciò che effettivamente deve essere, la fisica sperimentale dell’anima». Metafisica dunque ‘ragionevole’, ossia non più partecipe dello ‘spirito di sistema’ del costruzionismo metafisico. Il sapere illuministico è rivolto a fini pratici (anche questo un motivo baconiano), è un sapere eminentemente ‘utile’. E la f. è considerata (e vissuta) come un fattore essenziale di demistificazione, di liberazione e di progresso.
La polemica contro le costruzioni metafisiche continua in I. Kant, e in lui raggiunge la sua forma definitiva. Kant definisce dogmatiche tutte le metafisiche che non presuppongano una critica della facoltà di conoscere. Il torto di queste metafisiche è stato quello di essersi avventurate nel campo del soprasensibile, senza tener conto del fatto che nessuna conoscenza è possibile senza l’intervento della sensibilità, che sola può attestare la presenza dell’oggetto conosciuto. Di fronte a tali costruzioni è inevitabile l’insorgere dello scetticismo, il quale peraltro si limita a rilevare gli insuccessi della ragione, ma senza una precedente critica di essa. Kant fornisce questa critica, nella quale stabilisce i limiti di validità delle operazioni della mente, oltre a descrivere la struttura della mente stessa. Il risultato della critica è che essa limita l’ambito della conoscenza scientifica e della conoscenza in generale al mondo dei fenomeni, ma lascia aperto il tradizionale (e ineliminabile perché connaturato all’uomo) campo della metafisica a un diverso uso della ragione, quello pratico. In questo campo l’uomo si incontra con i problemi della libertà del volere, dell’immortalità dell’anima, dell’esistenza di Dio, e li risolve positivamente in base alla razionalità dei principi morali che regolano (‘devono’ regolare) le azioni. Non è una soluzione teoretica (una conoscenza), impossibile dati i risultati della critica, ma una soluzione pratica, una certezza pratica. Abbiamo così due mondi, il mondo della natura con le sue leggi scientifiche e il mondo della libertà con la sua fede razionale e il suo accesso al soprasensibile. La conciliazione tra questi due mondi è possibile attraverso l’uso della facoltà del giudizio, che riflette sui fini che incontra nella natura e li pensa secondo il principio di una causalità intenzionale che agirebbe nella natura stessa. Il finalismo è però un principio di esposizione e di comprensione, non di spiegazione: la conciliazione dei due mondi, sensibile e soprasensibile, pur essendo legittima e in certo modo necessaria all’uomo, resta pur sempre ipotetica e problematica. Un mondo in armonia con l’azione morale è concepibile mediante una forma di giudizio diversa da quella dei giudizi scientifici: tale giudizio non coglie l’essenza delle cose, ma ipotizza che sia sensata. Questa insistenza sul ‘come se’ da parte di Kant è dovuta alla preoccupazione di non conferire al valore uno statuto simile a quello del fatto e con ciò cadere in una forma di determinismo e quindi di compromettere l’autonomia della ragione e la libertà dell’uomo.
Riallacciandosi a Kant, J.G. Fichte pone il primato del valore sul fatto, del dover essere sull’essere: il fondamento pratico è posto alla base del filosofare e la libertà umana, e quindi l’io come principio della f., è una fede.
Per G.W.F. Hegel il punto di vista dell’assoluto, ossia della scienza, non si conquista immediatamente, ma presuppone il percorso che la coscienza umana fa dalle forme più elementari alle più complesse fino a raggiungere un grado di consapevolezza che le consente di far scienza. Questa descrizione è oggetto della Fenomenologia, che percorre una serie di esperienze, attraverso le quali l’uomo conquista la consapevolezza della sua libertà, ossia si libera dell’oggetto come di qualcosa di estraneo e misterioso e si sente uomo di questo mondo e sente questo mondo come suo. Giunto a questa consapevolezza egli ripensa il cammino ed enuclea da esso i concetti maturati attraverso quelle esperienze. La logica e le f. della natura e dello spirito sono appunto il risultato di queste elaborazioni. Ed è questo che dà luogo al sapere assoluto, un sapere cioè che ha in sé soltanto la sua misura, e che è un sapere storico, bene ancorato al tempo. Esso scopre che il cammino percorso dall’umanità è un cammino sensato, che ha realizzato la progressiva presa di coscienza della libertà umana ed è perciò razionale. I concetti della f. sono l’espressione di questa razionalità, che non è dunque il risultato di un atto della mente, ma è razionalità oggettiva, realizzata, che il pensiero rispecchia. Naturalmente questo non significa che tutto ciò che esiste è razionale: il razionale è ciò che nella realtà è più significativo, è portatore di senso. E il senso è appunto dato da quel processo onde l’uomo ha acquistato coscienza della sua libertà. Da questo punto di vista la f. hegeliana è una interpretazione del corso storico. Fare f. è dunque comprendere ciò che è stato: «la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero».
Per A. Comte la f. è in primo luogo riflessione sul sapere e quindi analisi delle tendenze e delle tecniche delle varie scienze, classificate secondo un ordine di decrescente generalità; non solo, ma di esse sono qualche volta prescritti criteri da seguire, come quelli che meglio rispondono alla loro logica interna, cioè all’attuazione della loro ‘positività’. Positività significa superamento delle due fasi antecedenti dello sviluppo dell’intelletto (teologia, metafisica); una scienza è positiva quando rinuncia radicalmente alla ricerca di cause, e stabilisce leggi, cioè relazioni costanti tra fenomeni, fa delle previsioni, è socialmente utile. In H. Spencer la f. è la forma più generale del sapere, unificatrice delle scienze e attinente alle nozioni dal più esteso contenuto.
Per H. Bergson invece la f. non è una scienza generalizzatrice, né una riflessione sulle scienze, ma è un’operazione mentale che ci pone in un rapporto con le cose diverso rispetto a quello in cui ci pongono le scienze. F. e scienza non rivaleggiano nel cogliere la realtà, ma, semmai, collaborano perché si riferiscono a due aspetti fondamentali della realtà stessa. Alla scienza e alla metafisica – dice Bergson – spettano oggetti differenti: «alla scienza la materia e alla metafisica lo spirito». Ma scienza e metafisica hanno in comune l’intuizione, che coglie la realtà nella sua pienezza: infatti in ciò che hanno di essenziale, cioè nelle loro autentiche scoperte, esse hanno proceduto per intuizione. È l’atmosfera della reazione al positivismo, reazione che rivendica alla f. una sua autonomia e ricerca un modo di approssimarsi alla realtà che non sia quello generalizzante della legge e del tipo. Anche per W. Windelband la f. ha un suo ambito di autonomia in quanto scienza critica dei valori universalmente validi.
In E. Husserl si riaffaccia l’idea della f. come scienza rigorosa: le essenze, che secondo il suo metodo vengono intuite, non sono fatti né astrazioni tratte dai fatti, ma hanno la caratteristica della purezza, paragonabile alle nozioni matematiche. Dunque forte accento antirelativistico, e tuttavia forte accento antioggettivista: l’oggettivismo delle scienze ha qualcosa di dogmatico se pretende di esaurire l’oggetto compreso. Prima dell’oggettivazione c’è un processo fluido, c’è il mondo della vita, che è il presupposto dell’oggettivazione.
Non meno e anzi più vigorosamente di Husserl, M. Heidegger polemizza con il pensiero oggettivante e calcolatore. In Essere e tempo egli mostra come le astrazioni concettuali presuppongono le esperienze vissute, di cui quelle astrazioni sono i derivati non più vivi. Anche la seconda fase della sua f. è caratterizzata dalla polemica contro il pensiero oggettivante (la metafisica e lo spirito scientifico). Al centro della sua riflessione non è più quel particolare ente che è l’uomo, bensì l’Essere. Ora tale Essere è ben lungi dall’identificarsi con l’essere realissimo, perché è fluidità e temporalizzazione, manifestazione e nascondimento: è l’Essere possibile, le sue infinite possibilità, che si sono manifestate, che non si sono manifestate, o che potranno manifestarsi, ed è dunque per eminenza non mai totalmente presente, non mai circoscrivibile. Il possibile è perciò più alto del reale e lo ricomprende. In entrambe le fasi del suo pensiero abbiamo dunque una posizione rigorosamente finitista, onde l’uomo tende verso l’Essere, o, inautenticamente, si allontana da lui, e un rigoroso antirazionalismo: il pensiero discorsivo non ci avvicina ma ci allontana dall’Essere, verso il quale semmai tendono i poeti, o meglio alcuni poeti, e la sapienza riposta in certe parole ‘originarie’.
L’impostazione finitista è anche alla base della f. ermeneutica (H.G. Gadamer), di evidente e confessata ispirazione heideggeriana. Essa prima di comprendere riflette sulla comprensione, sulle condizioni del comprendere, e trova che comprendere è interpretare, è quindi condizionato dalla situazione di chi interpreta. Ma se tutto è interpretazione nulla è indiscutibile, tutto è soggetto a revisione. L’intento della f. ermeneutica è, ancora una volta, antioggettivista: essa nega le assolute trasparenze. L’umile ascolto e non il superbo vedere è l’appropriata metafora del pensare.
L’antica idea della f. come analisi e come liberatrice da fattori di confusione concettuale si ritrova nella filosofia analitica. Tale idea viene per es. espressa da B. Russell quando afferma che solo attraverso rigorosi metodi di analisi è possibile purificare e trasformare, e con ciò rendere corrette e feconde, nozioni altrimenti vaghe e approssimative e fonti di errori come intelletto, materia, coscienza, conoscenza, esperienza, causalità, volontà, tempo.
Da parte sua L. Wittgenstein afferma nel Tractatus: «fine della filosofia è la chiarificazione logica del pensiero. La filosofia non è dottrina, ma attività. Un’opera filosofica consiste essenzialmente in elucidazioni. Frutto della filosofia non sono delle proposizioni filosofiche, bensì il chiarificarsi delle proposizioni». Nella seconda fase del suo pensiero Wittgenstein parla di una pluralità di linguaggi, correlativi di altrettante ‘forme di vita’, ossia contesti culturali entro i quali quei linguaggi sono intelligibili (e con ciò sembra affiorare una movenza hegeliana, oltre che ermeneutica).
R. Carnap osserva che i problemi metafisici sono pseudoproblemi e le proposizioni correlative pseudoproposizioni; bisogna dunque operare una purificazione che elimini dalla f. gli elementi non scientifici, e con ciò la logica della scienza prenderà il posto «di quell’inestricabile groviglio di problemi che è noto sotto il nome di filosofia». A.J. Ayer dice egualmente che il filosofo non deve ricercare principi primi, né enunciare giudizi a priori intorno alla validità delle nostre credenze empiriche, ma limitarsi a lavori di chiarificazione e di analisi.
Un rinnovato modo di intendere l’attività conoscitiva (scienza inclusa) in rapporto con la storia e con una dimensione interpretativa alternativa ai tradizionali tentativi di fondazione normativa ha interessato trasversalmente entrambe le aree filosofiche in cui si è soliti ormai distinguere la riflessione filosofica, quella analitica e quella continentale, intendendo con la prima etichetta l’insieme della produzione filosofica angloamericana, tradizionalmente caratterizzata da un approccio linguistico ai temi filosofici, con la seconda la produzione europea che, in larga misura, si riconosce nella f. ermeneutica. Il riconoscimento dell’impossibilità di mantenere ancora salda una concezione della verità come acquisizione di un sapere oggettivo, indipendente da presupposizioni culturali, dai contesti sociali e dai mutamenti storici ha segnato, direttamente o indirettamente, gran parte del dibattito filosofico. Si è assistito a una vasta convergenza, pur nel rispetto dei diversi approcci ispirati alle diverse tradizioni filosofiche, sull’impossibilità di conseguire, in ambito sia scientifico sia etico o estetico, certezze definitive, immutabili e indipendenti dalla storia. Ciò ha avuto ampie e profonde ripercussioni sull’identità stessa della filosofia.
La prospettiva antifondazionista. -Nell’ambito della f. della scienza, T.S. Kuhn è stato tra i primi, negli anni 1960, a porre in evidenza il fallimento dei criteri metodologici metastorici escogitati dall’epistemologia per il conseguimento di un sapere oggettivo. Che questo radicale punto di vista, il quale comprensibilmente ha alimentato il dibattito epistemologico per più di un trentennio sconfinando inoltre in aree anche distanti dalla f. della scienza, finisse per ridimensionare non soltanto un’influente concezione epistemologica (quella di K.R. Popper, basata proprio sull’idea della verità quale fine ultimo delle teorie scientifiche), ma anche un modo di intendere la stessa indagine filosofica, fu ben presto avvertito. Le accuse di relativismo e irrazionalismo nei confronti di Kuhn e della sua teoria dei paradigmi incommensurabili (ossia insiemi di metodi, presupposizioni e ontologie validi in certe epoche e non in altre) erano in effetti la manifestazione di un disagio nei confronti di un approccio filosofico che finiva per negare i diritti alla ‘fondazione’, per secoli riconosciuti alla filosofia. Del resto, lo stesso Popper, pur considerando la verità come scopo finale (e forse mai raggiungibile) della ricerca scientifica, aveva comunque insistito, soprattutto nell’ultima fase dalla sua riflessione, sull’impossibilità di fornire un qualche tipo di fondazione o giustificazione a garanzia della verità delle asserzioni scientifiche e d’altro tipo; l’unico atteggiamento possibile era per Popper non quello che mira a conseguire improbabili giustificazioni delle nostre asserzioni e teorie, ma quello della critica razionale, che cerca i punti deboli di tali asserzioni e teorie per modificarle o sostituirle con altre più plausibili, in un processo virtualmente infinito. Se da ciò Popper traeva comunque una teoria della razionalità, quanti, invece, si sono riconosciuti nell’approccio kuhniano hanno accentuato piuttosto l’aspetto caratteristicamente interpretativo della conoscenza e dei metodi scientifici, conoscenza e metodi soggetti a mutamento storico non meno di qualsiasi altro tipo di interpretazione, arrivando a equiparare il compito del filosofo della scienza a quello di un antropologo che studi il comportamento dei membri di un particolare tipo di comunità, quelle scientifiche.
N. Goodman, uno dei più autorevoli esponenti della f. statunitense sorta dalla commistione tra pragmatismo ed empirismo logico, era pervenuto a elaborare una teoria generale dei sistemi simbolici il cui compito non è quello di conferire a tali sistemi (linguaggio, scienza, arte) improbabili fondazioni, ma di enuclearne le peculiari caratteristiche di ‘costruzione’ (piuttosto che di descrizione) del mondo, quest’ultimo non essendo un insieme di dati, oggetti o fatti indipendenti dal modo in cui vengono rappresentati. Il compito della f. consiste più precisamente nell’individuare la varietà delle forme di costruzione simbolica elaborate nei diversi ambiti in cui si esplica l’attività umana, senza pretendere di poterle ricondurre a un’unità o strutturarle secondo una gerarchia di conformità a una realtà già data. Più che di verità, Goodman preferisce parlare di correttezza e c’è una correttezza delle asserzioni scientifiche come c’è una correttezza delle raffigurazioni artistiche. Un ruolo di rilievo viene da lui attribuito alla «tradizione in evoluzione» entro cui giudichiamo, per es., i gradi di realismo di una raffigurazione pittorica, l’accettabilità di un’asserzione scientifica o la correttezza di una categorizzazione.
Quella di tradizione costituisce la nozione centrale anche dell’ermeneutica. Che il soggetto conoscente sia sempre inserito in una tradizione, che l’esperienza umana sia costitutivamente radicata nel linguaggio da quella tramandato, attraverso cui soltanto può aversi un accesso all’‘essere’, sono i temi filosofici fondamentali dell’ermeneutica gadameriana. Il fatto che l’ermeneutica consideri la conoscenza come una questione di interpretazione mediata dal linguaggio e dalla tradizione a cui l’interprete stesso appartiene, e che, in tale prospettiva, la stessa verità non possa più essere pensata come il risultato incontrovertibile dell’applicazione di metodi oggettivi, ma sia essa stessa condizionata storicamente e quindi soggetta a mutare e ad arricchirsi nel corso dell’evoluzione storica, tutto ciò ha avuto, ancora una volta, l’esito di depotenziare un concetto di f. come ricerca di principi trascendentali e di un metodo come fondazione assoluta del sapere e della conoscenza. Di qui alcune conseguenze che hanno in larga misura condotto l’ermeneutica a incontrarsi con gli altri indirizzi che pure hanno teorizzato l’impossibilità di individuare criteri assoluti, metastorici, atti a garantire e giustificare la conoscenza. La ricezione dell’ermeneutica è andata infatti ben oltre la cultura accademica europea, e autori appartenenti all’area analitica, prevalentemente influenzati dalla f. dell’ultimo Wittgenstein (per es., S. Cavell, J. Margolis, H. Dreyfus, R. Rorty), ne hanno variamente sottoscritto e sviluppato le istanze, contribuendo a instaurare un dialogo tra le due aree che in tempi passati sarebbe apparso impensabile.
La ‘fine’ della filosofia. -Se più di un orientamento ha decretato il ridimensionamento della f. (o, quanto meno, delle sue ambizioni sistematiche), non manca peraltro chi ne ha decretato addirittura la fine. È il caso, per es., di Rorty, autore formatosi nella tradizione della f. analitica, ma successivamente allontanatosene per proporre una propria visione ‘antifilosofica’ in cui confluiscono motivi del pragmatismo e della f. ermeneutica. Sostenitore di un radicale antifondazionalismo epistemologico e di uno storicismo incline al relativismo, Rorty si richiama all’ultimo Wittgenstein, a J. Dewey, a Kuhn e all’ermeneutica di Heidegger e Gadamer per sottolineare la contingenza e la caducità delle sistematizzazioni filosofiche e il loro ridursi a mere ipostatizzazioni di pratiche sociali storicamente mutevoli. La verità, di conseguenza, non è altro che ciò che viene accettato da una comunità sulla base di regole e criteri largamente (ancorché provvisoriamente) condivisi. Nel contestare l’immagine professionale e scientifica che della f. hanno contribuito a dare le principali correnti del Novecento (il neokantismo, la fenomenologia, il neopositivismo e la f. analitica), Rorty ha auspicato il diffondersi di una ‘cultura postfilosofica’ volta non a fornire certezze o fondazioni, ma a mantenere viva la ‘conversazione’ sugli aspetti più vari della convivenza umana e sui modi in cui gli esseri umani si sono autodescritti. Se considerazioni del genere tendono ad avallare l’immagine di una riflessione filosofica sempre meno sicura del suo ruolo, è indubbio, d’altra parte, che le cosiddette tendenze postmoderne (come vengono ormai di consueto definiti gli orientamenti antifondazionalisti, relativisti e sociologizzanti) non esauriscono il panorama filosofico contemporaneo.
Le più radicali forme di relativismo e scetticismo che tendono a vedere nella razionalità umana e, talvolta, negli stessi principi logici niente più che pratiche socialmente apprese e storicamente circoscritte, sono state spesso duramente attaccate, oltre che dal già citato Popper, da autori come D. Davidson, H. Putnam e T. Nagel, i quali hanno in qualche modo rivendicato per la f. il ruolo autonomo di individuare gli aspetti oggettivi e universali, comuni agli esseri umani in quanto persone, di un insieme di principi logici, argomentativi ed epistemici. Inoltre, se sembra essersi esaurita la f. come indagine sui fondamenti, non si può dire altrettanto della f. come indagine sugli aspetti più problematici delle scienze. Ne è esempio rilevante la perdurante attualità della concezione di f. difesa da W.V. Quine: benché sia stato tra i primi a guardare con sospetto l’idea di una ‘f. prima’ il cui oggetto precipuo sia la teoria della conoscenza, Quine considerava la f. in continuità con la scienza, una sorta di riflessione critica sulla scienza che opera dall’interno, in quanto appartiene al medesimo ‘schema concettuale’: suo scopo sarebbe soprattutto rendere esplicito ciò che è implicito, portare alla luce e risolvere paradossi, segnalare le entità ontologicamente problematiche. Se, da un lato, una tale immagine della f. non comporta alcun tipo di ricerca fondazionale, dall’altro essa presenta sicuramente un aspetto ‘professionale’. F. sempre più specializzate, con obiettivi locali e circoscritti, sono attive nell’ambito della scienza cognitiva, nell’ambito delle scienze fisiche e biologiche, nella metodologia delle scienze umane e sociali, ciascuna analizzando i problemi sollevati dalle rispettive discipline.