Complesso dei miti di un popolo, cioè delle narrazioni fantastiche tradizionali di gesta compiute da figure divine o antenati (esseri mitici), diffuse, almeno in origine, oralmente.
Il pensiero critico cominciò a occuparsi della m. sin dai primordi della speculazione greca. I racconti tradizionali sugli dei, che figuravano, per es., nella poesia omerica ed esiodea, concependo questi ultimi antropomorficamente come dotati anche di comportamenti negativi, non soddisfacevano alle esigenze razionalistiche e morali dei pensatori. Di qui, nel quadro del suo pensiero monistico, Senofane di Colofone trasferì nell’unità del divino la molteplicità delle figure dominanti nel mito, gli dei. Il prestigio dell’epopea tuttavia spingeva a cercare una spiegazione dell’apparente assurdità dei miti: si pensò (sin da Teagene di Reggio, 6° sec. a.C.) che i miti avessero un significato allegorico, e sotto i nomi divini si celassero forze della natura o qualità morali. Con Evemero (4°-3° sec. a.C.) sorse un altro indirizzo: gli dei non sarebbero che illustri personaggi umani di un remoto passato, cui i posteri avrebbero attribuito carattere divino.
Mentre la generalità del popolo continuava a sentire la m. secondo forme più o meno vicine al suo spirito originario, l’erudizione antica seguì per secoli le dottrine allegoristiche ed evemeristiche. La polemica antipagana della patristica accettò volentieri l’evemerismo, per dimostrare che gli dei pagani non erano dei: ma accanto a ciò il cristianesimo sviluppò un’altra interpretazione, secondo la quale le narrazioni mitologiche non erano se non una falsificazione e alterazione (spesso d’origine diabolica) dell’unica ‘storia sacra’ reale, quella contenuta nella Bibbia. Nel cristianesimo antico si discosta da questi orientamenti Eusebio di Cesarea che, riconducendo i miti a una carenza di pensiero riflesso, propria di un’umanità primitiva e barbarica, si colloca, al di là di tutte le esegesi intellettualistiche, vicino alla vecchia direzione senofanea.
Nel Medioevo e nel Rinascimento continuarono a dominare le stesse correnti di esegesi mitologica. Il primo a intuire che la m. era una rappresentazione fantastica della realtà, espressione spontanea delle esperienze di un’umanità primitiva, fu G. Vico. Ma ancora nel 18° sec. e al principio del 19° le idee degli eruditi e studiosi erano diverse.
Lo studio scientifico della m. entrò in una nuova fase con l’allargamento delle prospettive storiche al di là della tradizione classica. Sin dalla fine del 18° sec. viaggiatori e studiosi si accorgevano di somiglianze tra i miti classici e i racconti di popoli primitivi (per es., Indiani dell’America). La cosiddetta scuola di m. comparata fondata da M. Müller nella seconda metà del 19° sec. limitò tuttavia le sue ricerche ai miti dei popoli di lingua indoeuropea e, in base alla comparazione linguistica e mitologica, volle arrivare a conclusioni generali: sotto ogni mito si nasconderebbe un fenomeno naturale (solare, meteorologico ecc.), in quanto il mito non sorgerebbe che da un’alterazione del significato di certe parole, dovuta all’appercezione personificatrice (malattia del linguaggio): ciò che in origine era stato un aggettivo (per es. «luminoso», nella radice del nome Zeus, Iuppiter e del vedico Dyaus pitar) sarebbe diventato un nome proprio.
La cosiddetta scuola antropologica di E.B. Tylor e dei suoi seguaci ha esteso la comparazione anche ai popoli primitivi. Nel quadro dell’evoluzionismo allora dominante nei vari campi della cultura, questa scuola sosteneva che il mito corrispondesse a una comune fase evolutiva arretrata della mente umana, quale tentativo di spiegarsi il mondo e i suoi fenomeni. Contro questa teoria, detta della convergenza, più recentemente si è affermata, specie con la scuola storico-culturale, la teoria della diffusione, che tende a spiegare storicamente i parallelismi delle varie m., mettendo in rilievo come non tutti i motivi mitologici si ritrovino in tutte le civiltà.
Nelle ricerche più recenti molti problemi sono ancora in discussione, pur nella convergenza su alcuni concetti fondamentali. Gli studiosi contemporanei sono concordi per es. nel sottolineare il carattere specifico della m., che non è una forma rudimentale della scienza, né un’alterazione voluta (allegorismo) o involontaria (malattia del linguaggio) di verità, osservazioni ed esperienze extramitologiche, ma è un prodotto sui generis dello spirito religioso. I miti, infatti, si occupano solo di argomenti di essenziale importanza per l’esistenza della comunità; raccontando le origini del mondo, del popolo, delle singole istituzioni, la m. non intende offrirne una spiegazione causale, bensì legittimarle e sanzionarle, proiettandole in un tempo che ne fornisca la giustificazione religiosa e la garanzia di immutabilità. Perciò il mito è funzionale rispetto alle forme d’esistenza della comunità che esso giustifica, e nello stesso tempo fornisce continuamente i modelli dell’attività umana secondo le linee di condotta statuite, nel tempo delle origini, dagli esseri mitici. Raccontare miti è quindi un’attività religiosa strettamente affine al culto stesso di cui a volte fa parte integrante. Ciò appare anche dal fatto che nelle società di tipo arcaico i miti sacri si possono raccontare soltanto in determinate occasioni. Tali racconti sono anche produttori di effetti (per es., promuovono la fertilità dei campi, la pioggia ecc.), esattamente come le pratiche rituali.
Anche se sostanzialmente tutti i miti sono ‘miti delle origini’, non tutti hanno un uguale valore sacrale, sia perché certi miti originariamente sacri possono scadere e divenire fiabe, sia perché sul modello dei miti la fantasia popolare poetica può produrre racconti apparentemente mitici, ma senza veri fondamenti sacrali. Secondo gli argomenti dei miti si distinguono usualmente miti teogonici (discendenza degli dei), cosmogonici (creazione e ordinamento del mondo), antropogonici o antropologici (origine dell’umanità e delle caratteristiche umane), soteriologici o culturali (sulle attività di un salvatore o eroe civilizzatore che migliora le condizioni dell’umanità primitiva), escatologici (che riguardano il futuro del mondo o l’oltretomba), eziologici (che cercano di spiegare le cause e l’origine di fatti e aspetti della realtà).
Dal punto di vista filosofico, il problema del mito riguarda la stessa attività spirituale del mitizzare, o comporre miti. Per Platone il mito sta al logos come l’opinione alla scienza. Tuttavia in certi casi, non potendo il logos attingere tutta la verità, questa può manifestarsi attraverso il mito: e questi miti valgono o per autorità di antiche tradizioni e di racconti miracolosi, o soltanto per sé, come grandiose rappresentazioni intuitive e visive di ciò che in realtà trascende il potere dell’occhio mortale. Di qui il valore simbolico del mito, che si connette con il suo valore estetico.
Nella filosofia contemporanea si è tornati a parlare di mito, o considerandolo come forma di intuizione estetica sentita come vera e reale, perciò agente in senso politico o religioso sulle convinzioni pratiche degli uomini (B. Croce), o riconnettendolo, come attività simbolica, alle altre forme simboliche dell’espressione (E. Cassirer).