Dapprima disciplina riguardante la conoscenza sensibile o la percezione, dalla metà del 18° sec. il suo significato prevalente è di disciplina riguardante il bello (naturale e in particolare artistico), la produzione e i prodotti dell’arte, il giudizio di gusto su di essi. I due significati coincidono per alcuni versi in A.G. Baumgarten, cui si deve l’introduzione del termine in accezione moderna (Meditationes philosophicae de nonnullis ad Poema pertinentibus, 1735) e la costituzione dell’e. come disciplina filosofica che – in quanto teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, cioè relativa alle facoltà inferiori o preintellettuali, ars pulchre cogitandi, ars analogi rationis – viene definita complessivamente nella successiva opera maggiore (Aesthetica, 1750-58) ‘scienza della conoscenza sensitiva’. Si tratta quindi di un termine con accezione molto ampia, ma usato soprattutto, fin dal 18° sec., con riferimento primario alla poesia e alle ‘belle arti’ e poi via via esteso a una quantità di oggetti, situazioni e simili.
Che il termine e., quale disciplina in senso moderno, s’imponga relativamente tardi non è problema solo nominale: a esso si connette la questione se l’e. sia disciplina moderna o da sempre esistita in qualche forma: la soluzione sembra a prima vista dipendere solo dalla possibilità di una delimitazione sufficientemente precisa dell’oggetto di un’e., esplicita o anche, prima dei sec. 17° e 18°, soltanto implicita. Questa è, per es., una delle proposte di B. Croce per conciliare la modernità dell’e. come disciplina esplicita, da lui sostanzialmente sostenuta, e insieme l’idea dell’arte e delle riflessioni sull’arte come costanti dello spirito (Inizio, periodi e carattere della storia dell’Estetica, 1916). Tuttavia, anche limitandosi a considerare le sole belle arti come oggetto dell’e., bisogna riconoscere che la nozione a esse corrispondente non ha avuto uno statuto stabile molto prima della cultura settecentesca e che essa si delinea via via solo a partire dal Rinascimento: la stessa espressione verbale di ‘belle arti’ comincia a essere usata solo tra il 16° e il 17° sec., e l’assetto delle belle arti non risale a molto più che alla metà del 18° sec. (per C. Batteux, presunto ‘fondatore’ verso la metà del 18° sec. del sistema moderno delle arti, esse sono: musica, poesia, pittura, scultura, danza e, in posizione speciale tra arti del piacere e arti dell’utilità, eloquenza e architettura). Occorre comunque tenere presente che non si trattava semplicemente di riscattare le arti da un fare inferiore, in definitiva servile, e di promuovere la loro componente di sapere e d’invenzione, già evidentemente presente, ma di superare almeno la stessa distinzione e contrapposizione di ‘manualità’ e ‘scienza’ (nel senso di «teoria», θεωρία, speculazione, contemplazione). Infatti, la promozione sociale, per es., delle arti del disegno, comporta spesso una loro parificazione, almeno in parte forzosa, alle attività intellettuali e conoscitive (tipico in questo senso il caso dell’architetto-teorico L.B. Alberti, progettista che evitava la frequentazione dei cantieri, o di Leonardo, che nel cosiddetto Trattato della pittura omologava il disegno alla geometria) e non, immediatamente, una rivalutazione del loro aspetto operativo. È solo con la cultura illuministica, in particolare con l’azione svolta in questo senso dall’Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (1751-65), che il fare come tale diviene non solo un valore socialmente riconosciuto, ma la base stessa della conoscenza. Quindi, non una promozione in un quadro culturale già esistente, ma una profonda trasformazione del quadro stesso. Pertanto, prima del 18° sec. non vi è un oggetto bello e pronto per una riflessione estetica, ma piuttosto un intreccio complicato di somiglianze e di differenze che tende a unificarsi in un accordo pragmatico non definibile concettualmente. Si cominciano così a spiegare anche le oscillazioni del nome: quello proposto da Baumgarten, se ha avuto una notevolissima fortuna postuma, fu accettato per decenni solo in area tedesca, preferendosi altrove le dizioni di ‘critica del gusto’ (era questo il titolo pensato in un primo momento dallo stesso I. Kant per la sua Kritik der Urteilskraft, 1790) e simili; più tardi F.W.J. Schelling terrà lezioni non di e., ma di filosofia dell’arte (Philosophie der Kunst, 1804-05, postumo 1859); e G.W.F. Hegel, pur preferendo quest’ultima dizione, userà quella di e. accettando una convenzione accademica tedesca ormai passata in giudicato (Vorlesungen über die Aesthetik, postumo 1836-38).
Non è, anche questa, una questione solo nominale. A essa va associato il fatto che l’e., pur possedendo fin dall’inizio una vocazione filosofica generale, l’ha più volte rimessa in discussione, nella convinzione sempre problematica di avere a che fare con un oggetto specifico di indagine conoscitiva. La cosa non stupisce se si considera che il suo presunto oggetto si riferisce a qualcosa non di immediatamente sensibile e osservabile, ma innanzitutto di culturale e addirittura di psicologico. Che cosa distingue, per es., un testo comunicativo da un testo poetico, o un fucile da guerra, secondo l’esempio di Croce, da un fucile come opera d’arte? È chiaro allora che era in gioco fin dall’inizio l’oscillazione non solo del nome, ma della cosa stessa: si trattava soprattutto dell’oscillazione tra esistenza e non-esistenza di un vero e proprio oggetto epistemico, la quale dipendeva dallo specialissimo statuto di ciò che si chiamava ‘arte bella’, e quindi tra ‘teoria, dottrina dell’arte’ e ‘comprensione attraverso l’arte’, tra ‘e. come scienza’ ed ‘e. come filosofia’.
Una riflessione estetica si è dunque delineata più nettamente nel 18° sec. non tanto come scienza dell’arte, quanto come un uso critico del pensiero che aveva nell’arte bella non un oggetto epistemico che la definisse specificamente, quanto piuttosto un referente esemplare, variabile e contingente, ma tale da far trasparire una sua interna necessità. E per ‘uso critico del pensiero’, in opposizione a un uso che può essere detto ‘metafisico’, cioè volto al sapere senza interrogarsi sulla propria stessa possibilità, si deve intendere questo, in sostanziale accordo con la filosofia kantiana, senza dubbio uno dei punti più alti del pensiero dell’epoca: che ciò che è centrale nel pensiero – divenuto consapevole di essere immerso nell’esperienza e di non poterla pensare, definire e tanto meno conoscere nel suo insieme e nei suoi esatti contorni da un non-luogo esterno – è il problema dell’interna condizione necessaria della sua possibilità, e quindi più il modo di porre questioni che non le risposte che ne conseguono via via: è infatti quel modo che consente di vagliare criticamente la legittimità e la portata delle stesse risposte. Ma questo è precisamente, fin dal suo sorgere, il tratto caratteristico dell’e.: di interrogarsi su qualcosa che non può essere chiarito adeguatamente in termini di pura risposta e che implica anzi una coappartenenza originaria di domanda ed esperienza. È in questo senso preciso che essa, prima ancora che filosofia dell’arte o del bello, deve essere considerata una riflessione che svolge il suo compito in casi particolarmente interessanti, che richiedono di essere risaliti nella condizione dell’esperienza in genere.
Nella letteratura estetica del 18° sec. mancano del tutto, non solo ‘definizioni’, ma anche ‘precisazioni’ significative sui punti essenziali, come lamentava D. Diderot nei riguardi di C. Batteux, non fornendone alcuna a sua volta. Ciò non era l’effetto di circostanze occasionali, per es., del carattere saggistico, talvolta più letterario che filosofico, della riflessione estetica: era un atteggiamento intenzionale e pienamente consapevole. Nessuna definizione nelle Réflections critiques sur la poésie et la peinture (1719) di J.-B. Du Bos, che insisteva sul carattere di generalità del piacere, la differenza ponendosi su una base storico-culturale, secondo un orientamento che sarà ripreso e approfondito da D. Hume nel Treatise of human nature (1739-40) e nel saggio On the standard of taste (1757). Nessuna definizione nel famoso trattatello di Batteux Les Beaux-Arts réduits à un même principe (1746), interessato alla ‘bella natura’ in quanto natura in generale, già contenente ‘piaceri’ e ‘bisogni’, e non in quanto bella, fatta puramente e semplicemente per la contemplazione disinteressata; né nella A philosophical enquiry into the origin of our ideas of the sublime and beautiful (1757, 2ª ed. 1759) di E. Burke, che pensava in modo ancora più forte di Batteux a meccanismi generali del comportamento e dell’adattamento; né nell’Encyclopédie, dal Discours préliminaire (1751) di D’Alembert, in cui era centrale la nozione già largamente diffusa di ‘genio’ come ciò che nelle belle arti drasticamente ridimensiona regole e definizioni, alla voce Beau di Diderot, la cui idea di ‘rapporti’ non si limitava al bello, ma si estendeva alla totalità dell’esperienza e delle attività umane; né ancora meno nella Kritik der Urteilskraft, tutta concepita in termini non definitori e non dottrinari, ma critici, in cui si dimostrava in particolare la contraddittorietà di una definizione del bello e delle belle arti. Insomma: fin dal suo sorgere l’e., nei suoi rappresentanti più significativi, si caratterizzò nello stesso tempo come interrogazione su ciò che si diceva ‘bello’, ‘arte’, ‘gusto’, ‘genio’, e così via, e come rifiuto motivato di darne definizioni. ‘Bello’, ‘arte’, ‘gusto’, ‘genio’ vanno riportati infine alla nozione comune, centrale e indefinibile di sentimento, da Kant chiamato più precisamente ‘senso comune’. E il ‘senso’ o ‘sentimento comune’ – quel ‘libero gioco delle facoltà’, immaginazione e intelletto, che rendeva possibili i giudizi di gusto caratterizzati da necessità esemplare – era non specifico di essi, essendo piuttosto la condizione non intellettuale per l’accordo di intelletto e immaginazione anche nella conoscenza e nell’applicazione dei concetti a casi in concreto. Una regola applicativa intellettuale avrebbe infatti comportato un processo all’infinito e addirittura una contraddizione, e quell’applicazione richiedeva quindi una regola non intellettuale. La riflessione estetica esprimeva con ciò lo sforzo di risalire l’esperienza in genere nella sua interna condizione sull’occasione esemplare dell’esperienza del bello e dell’arte bella. Così che essa poneva in questione, sì, gli oggetti cosiddetti belli – in particolare le opere dell’arte bella – ma sempre nel quadro della possibilità di una esperienza in genere.
Il problema della valutazione dello statuto storico-teorico dell’e. non sta nell’accertare se l’e. abbia avuto sempre una coscienza esplicita del proprio carattere filosofico generale; piuttosto, risiede nel capire se il modo di essere concepiti e l’infittirsi verso la metà del 18° sec. di saggi e trattati dedicati alle belle arti e al bello non richiedano che li si interpreti in rapporto a un nuovo modo di pensare e quindi a una comprensione dell’esperienza sub specie aesthetices, nel senso che toccherà alla ‘filosofia critica’ kantiana di esplicitare e approfondire. È tuttavia chiaro che non si può parlare di ‘e.’ indipendentemente dall’‘arte’ e dall’‘opera d’arte’ in senso estetico moderno, e viceversa: tali nozioni si determinano a vicenda e costituiscono ciò che può essere detto ‘circolo estetico’. Ciò rende a rigore inaccettabili le cosiddette ‘definizioni storiche dell’arte’, che pure hanno avuto un ruolo non trascurabile e sono state motivate proprio dall’esigenza di risolvere lo statuto problematico e oscillatorio dell’estetica. Si tratta di capire se si sanzionava semplicemente un ‘circolo vizioso’ (il definirsi vicendevole di ‘arte’ e ‘opera d’arte’, di ‘arte’ ed ‘e.’) in ‘circolo virtuoso’, trasformando l’accettazione di una difficoltà nella sua soluzione apparente, o se invece le sue ragioni essenziali fossero pur sempre di tipo filosofico-critico.
Un circolo estetico si delinea nelle Lezioni di estetica di Hegel attraverso il riconoscimento e la critica dell’opposizione tra metodo astrattamente empirico (la considerazione delle opere d’arte empiricamente date) e metodo astrattamente ideale (la considerazione dell’idea del bello in generale, a prescindere dalle innumerevoli e particolari opere d’arte). L’inadeguatezza del secondo metodo come tale, a proposito del quale Hegel cita solo il caso-limite di Platone, stava nella sua infecondità, nella sua «assenza di contenuto», e nel fatto che esso non era infine davvero pensabile se nello stesso tempo, con l’«idea in generale», non entrava nella «coscienza pensante» anche l’«idea particolare del bello». L’inadeguatezza del primo metodo come tale stava invece nell’obbligo di una ricognizione e conoscenza contestuale delle opere d’arte, al limite, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ma Hegel vedeva in ciò una difficoltà non solo pratica (quante opere e di quante culture bisogna conoscere?), ma anche e soprattutto teorica (quali sono le opere d’arte che riconosceremo tali, se il loro essere opere d’arte dipende da un certo modo, storico, di fare e pensare l’arte?). Ciascuno dei due metodi, diceva, «sembra escludere l’altro e non permettere che giungiamo a nessun vero risultato». Il suo punto di vista era precisamente quello del ‘vero risultato’ e la critica dell’opposizione si risolveva nell’unità di un vero «concetto filosofico del bello», compreso «in sé e per sé», come «totalità di determinazioni», e della loro storia, in cui si sarebbero mediati «entrambi gli estremi». Il modello ne era l’idea assoluta, «unico oggetto e contenuto della filosofia», che contiene in sé – come si legge nella Wissenschaft der Logik, 1812-16 – «ogni determinatezza» e che, «essendo sua essenza di tornare a sé attraverso il suo proprio determinarsi o particolarizzarsi, ha diverse configurazioni». Il circolo quindi si configurava, sì, come storicità, ma sempre nell’ambito di un’esigenza di risalimento dell’esperienza artistica-concettuale storica verso una sua condizione esterna. Tale condizione era legata alla ‘meraviglia’, cioè a un distanziarsi dagli ‘oggetti’ e dalla loro «immediata esistenza singola», a un originario instaurarsi del senso o, in altre parole, al sorgere di una coscienza simbolica e del linguaggio. Anche l’e. hegeliana quindi si presentava non come una filosofia dottrinaria dell’arte, metafisica o storicistica, ma come una riflessione critica sul senso, sul significato, sul linguaggio e sull’esperienza in genere.
Il problema è stato ripreso in considerazione da M. Heidegger nel saggio Der Ursprung des Kunstwerkes (1950, risalente al 1935-36): vi si tematizza in modo prossimo a quello hegeliano il circolo tra ‘arte’ e ‘opera d’arte’, e lo si considera esplicitamente come ‘vizioso’ solo per il cosiddetto ‘intelletto comune’. Il circolo è però assunto ancora una volta non come esito del pensiero, ma come lo sfondo su cui il pensiero, senza mai sradicarsene, si sforza di comprendere. Che ci si muova sempre in un circolo è un fatto incontestabile e insuperabile, ma nel senso che proprio e solo in esso si può e si deve tentare di cogliere l’‘origine’ o l’‘essenza’ dell’opera d’arte, ciò per cui l’opera d’arte è ciò che è, la sua condizione, infine: qualcosa di non circolare in un circolo. Subito dopo aver dichiarato l’insuperabilità del circolo, si dice che, per rintracciare l’essenza dell’arte che risiede nell’opera, ci si indirizzerà «verso una opera concreta per chiedere a essa che cosa e come sia». Essa si rivela così come l’esempio non di una classe, ma dell’apparire della verità in quanto questa «si pone in opera», «si istituisce nell’ente in modo tale che l’ente occupi l’Aperto della verità». L’essenza dell’arte è infine Dichtung, «poesia», non tuttavia la poesia effettivamente composta e studiata dalle storie letterarie (Poesie), ma «poesia in senso essenziale», Sagen, «dire», come instaurazione della verità, come ciò che fa accedere al mondo nello stesso tempo il dicibile e l’indicibile: il senso. Così che il circolo di sfondo, cui non possiamo sottrarci, è in sostanza non-vizioso non perché sia senz’altro virtuoso, ma perché solo da ed entro un circolo possiamo risalire, per quanto possibile, cioè comprendiamo che è insuperabile, proprio in quanto, nello spirito di una riflessione filosofico-critica, è ciò che deve essere via via sempre internamente superato.
In conclusione – date per scontate le somiglianze, le analogie, le forti identità locali che accomunano in ‘famiglie’, nel senso di L. Wittgenstein, la nostra arte ad attività anche del lontano passato, i poemi omerici al poema dantesco, a Cervantes, a Joyce, o Fidia a Michelangelo, a Rodin, ad Arp, e così via – arte ed e. non rimandano a dati fissi e sono quindi contingenti: l’esplicitazione, per quanto è possibile, della loro necessità è affidata al compito di una riflessione sempre all’interno della loro contingenza. Ma è proprio in questa contingenza che l’arte ha conquistato il suo ruolo e la sua forza.
Se l’e. si caratterizza ormai per qualcosa di più importante del puro e semplice aumento del ‘tasso di estetizzazione’, che pure sembra aver investito l’intera società contemporanea, ciò accade proprio perché essa, con la sua riflessione indirizzata sempre più decisamente verso l’esperienza umana nel suo complesso, ha contribuito in maniera determinante a porre al centro del dibattito filosofico, naturalmente in forma molto diversa dal modo in cui ciò era avvenuto in epoca pre e post ottocentesca, una stringente interrogazione sul concetto tradizionale, filosofico-scientifico-tecnico in senso ampio, di verità. Conformemente dunque agli sviluppi del pensiero contemporaneo e, anzi, sovente anticipandoli e indirizzandoli verso scenari effettivamente nuovi, l’e. si è da un lato svincolata sia dall’esigenza postsistematica che la voleva pressoché esclusivamente connessa a una ‘filosofia dell’arte’, sia dall’idea riduttiva che ne faceva una sorta di supporto filosofico per discipline indubbiamente affini quali la critica letteraria, la semiotica in generale e la stessa storia dell’arte; d’altro lato, essa si è però progressivamente emancipata anche da quelle posizioni, altrettanto restrittive, che la interpretavano come una riflessione ‘critica’ destinata a comprendere l’accadere dell’esperienza stessa, rivolta cioè alla ricerca delle condizioni di possibilità del ‘senso’ dell’esperienza in generale (una sorta, insomma, di pensiero critico, inteso in senso amplissimo ma, forse proprio perciò, incapace di spingersi fino alla messa in questione del concetto tradizionale di verità). Caduta la possibilità filosofica di ‘trattati’ sull’arte e sulla filosofia dell’arte come parte speciale della filosofia, si è talvolta ritenuto che fosse venuto a mancare anche il terreno sul quale l’esperienza dell’arte e della bellezza, o, più in generale, dell’operare artistico come attività esemplare dell’uomo, potesse incrociarsi produttivamente con il tema del vero e del suo fondamento. Anche la sottolineatura, sempre più vivace negli ultimi due decenni del 20° sec., del carattere inventivo-produttivo dell’operare scientifico, visto come attività ‘artistico-poetica’ in senso lato, infatti, non è riuscita quasi mai ad arrivare al cuore della questione: se l’esperienza estetica dell’uomo disponga l’essere di quest’ultimo in un diverso, più originario, e non semplicemente alternativo, orizzonte conoscitivo-veritativo. Finché infatti, nonostante ogni ricorso all’esperienza estetica, il cosiddetto paradigma scientifico tradizionale della conoscenza viene considerato soltanto come in grado di ‘verificarsi’ maggiormente, rispetto ai propri fini e scopi di ricerca, soltanto come più avvertito e permeabile nei confronti di realtà ed evidenze che la scienza non è abitualmente in grado di accogliere e trattare, e che in tal modo verrebbero invece raggiunte; finché insomma la poeticità della conoscenza non si trasformerà in un approfondimento dell’esperienza umana come esperienza globalmente, e più originariamente, ‘poetica’, ma resterà nei confini di un ampliamento produttivo, incrementando paradossalmente proprio il procedimento scientifico tradizionale con la sua contrapposizione soggetto-oggetto, il rapporto essere-esistente non giungerà mai a scoprire la propria intrinseca esteticità. Senza tale trasformazione, oltretutto, la ‘sensibilità’, cui comunque l’esperienza estetica imprescindibilmente si richiama, non cesserà di essere considerata come un veicolo conoscitivo ‘minore’ rispetto a quello concettuale, sia pure ‘allargato’ quanto si voglia all’inventività del produrre scientifico rivisitato in chiave artistica, così che anche il talvolta presunto superamento della relazione contrappositiva soggetto-oggetto sarà illusorio. Il fatto è che tanto le posizioni filosofiche maggiormente sensibili alle ragioni della scienza in senso stretto, e della sua concezione logistica della verità, quanto le componenti per così dire più restie alle restrizioni che il logicismo impone, hanno entrambe radici kantiane. In particolare, mentre le prime hanno letto e applicato rigidamente ma congruentemente la prima Critica kantiana e il suo concetto normativo di validità del conoscere, le seconde hanno invece avuto a modello la Kritik der Urteilskraft e il suo paradigma conoscitivo ‘critico-regolativo’. Ora, nonostante ogni possibile apparenza, e nonostante effettive distinzioni, spesso fonte anche di aspre dispute teoriche, queste due posizioni filosofiche, proprio in virtù delle loro origini kantiane, hanno dimostrato in più occasioni, e particolarmente in ambito ‘estetico’, la loro dipendenza strettissima dalla fonte comune: il soggettivismo kantiano. Nel caso della prima posizione, tale soggettivismo si riflette nell’accettazione del paradigma normativo della conoscenza, strettamente connesso alla concezione dualistico-spirituale dell’uomo, tramite il quale distinguere, senza ambiguità, in base all’esattezza, all’adeguazione, e alla riproducibilità sperimentale, la verità dell’operare scientifico dalla pretesa illusorietà dell’arte e dell’esperienza estetica (si confrontino, per es., le correnti maggiormente legate al pragmatismo scientista di marca anglosassone). Nel caso della seconda posizione, invece, il soggettivismo di fondo compare nel ricorso troppo fiducioso a quel paradigma ‘critico-regolativo’ che di per sé non è però mai in grado di oltrepassare il piano di una singolarità estetica per così dire meramente ‘allargata’: quest’ultima infatti, per quanto venga fatta coincidere con il piano dell’esperienza umana nel suo complesso, è e resta l’esperienza estetica di un soggetto interpretato come costitutivamente chiuso alla trascendenza, laddove questa non va intesa come ‘ipotesi tensivo-regolativa’, ma come percorso reale della sensibilità e del suo senso. Tale chiusura sembra segnare tutte le e. che si richiamano a Wittgenstein come a S. Freud, come anche a U. Eco o a R. Rorty. Il richiamo all’autonomia del testo, a una sua altrettanto autonoma struttura interna, all’imprescindibilità della dialettica forma-contenuto nell’opera (d’arte); l’esaltazione dell’autoriflessività del segno anziché l’attenzione per il suo (eventuale) significato, tutte queste scelte di campo, tutte queste correnti estetiche (con l’eccezione di quella di P. Szondi), assieme a quelle nominate poco più sopra, hanno dovuto, infine, fare i conti con la crisi implicita in ogni tentativo di eliminare dalla dimensione estetica la sua, forse connaturata, ambiguità; ma questa è in senso proprio una crisi del soggettivismo, più o meno edulcorato. Da questo punto di vista, inaspettatamente, si sono talvolta venute a creare delle vicinanze degne di nota, come, per es., quella fra la posizione teorica di chi ha ripensato originalmente il dettato della terza Critica kantiana nel senso sopra indicato (in Italia tale posizione è rinvenibile soprattutto nell’opera di E. Garroni) e quella di un altro originale esponente del pensiero estetico contemporaneo, G. Vattimo, per il quale, in fin dei conti, il criterio di un’originarietà ‘soggettivo-debole’ dell’esperienza estetica, e del suo indiscusso principio ‘umano’, sembra rivelarsi centrale (come del pari eminentemente ‘umano’, anche se inteso in senso ‘soggettivo-forte’, è il principio dell’e. come ‘critica’). Una ‘debolezza’ però che è comunque suscettibile di aprirsi all’elemento mitico-trascendente, anche religioso in senso ampio, che invece resta precluso all’altra prospettiva. Del resto, persa ogni e. di derivazione idealistica e teologica la propria egemonia sotto i colpi della nozione nietzschiana e post-nietzschiana di nichilismo (dei valori), l’apertura dell’esperienza estetica nei confronti del mitico, del simbolico, del religioso e del trascendente, quell’apertura che è in grado di infrangere i limiti della soggettività e quindi anche del suo criterio normativo-regolativo-‘debole’, è rimasta affidata alle posizioni che, facendosi carico soprattutto del pensiero di Heidegger, hanno intravisto nella sua rivisitazione produttiva dell’eredità kantiana la possibilità di un’interpretazione della nozione di immaginazione non come facoltà scaturente da un esercizio più o meno ‘forte’ della soggettività, ma proprio come ‘luogo’ o ‘zona’ franca dalla soggettività tradizionale: un luogo in cui può realizzarsi, in forma di evento estetico, l’incontro-apertura dell’uomo con ciò che lo trascende. Tutte quelle nozioni come ‘gusto’, ‘genio’, ‘non so che’, ‘sentimento’, e altre ancora, elaborate inizialmente dall’e. metafisica tra Settecento e Ottocento allo scopo di evidenziare come fosse ipotizzabile l’esistenza di una dimensione del rapporto essere-esistente non immediatamente riconducibile allo schema soggetto-oggetto, ma non per questo ascrivibile all’‘irrazionale’ tout court, tutte quelle nozioni a metà fra l’empirico e il conoscitivo sono state ripensate a partire dalla tesi heideggeriana dell’immaginazione come radice unitaria della temporalità del Da-sein; una tesi, questa, che Heidegger espone nel 1929 nel suo volume su Kant e che apre le porte, a partire dal secondo dopoguerra e sulla scia delle sue interpretazioni della poesia in generale e di F. Hölderlin in particolare (i primi, fondamentali passi in questo senso, nelle lezioni del 1934-35), alla ripresa del dibattito sul mito e sulla simbolicità dell’esistenza sensibile che si è sviluppato in Europa (senza dimenticare l’importanza storica dell’opera di W. Benjamin, vanno ricordati soprattutto i contributi di H.R. Jauss, H. Blumenberg e M. Frank in Germania, di S. Givone, M. Perniola e M. Cacciari in Italia). All’interno di questo dibattito sul mito e la sua ‘essenza’ si può chiaramente riconoscere un collegamento elettivo tra il pensiero ‘postromantico’ di H.G. Gadamer, i cui principali connotati appaiono di derivazione ‘hegeliana’, e quello di L. Pareyson, il quale realizza invece una sorta di equiparazione ontologica, di radicale allineamento ermeneutico tra l’eredità schellinghiana e la letteratura in alcuni dei suoi momenti contemporanei più alti (in particolare, F. Dostoevskij; proprio sviluppando originalmente questa linea Givone ha posto il ‘pensiero tragico’ al centro della sua meditazione estetica). Che cos’è infatti l’immaginazione, in questa prospettiva, se non lo spazio all’interno del quale, tramite una sorta di ‘presentificazione dell’assente’ nell’opera (non necessariamente ‘d’arte’ in senso stretto), l’esistente, cessando di essere una soggettività impermeabile al ‘mondo’ e alla sua significazione mitico-simbolica, altrimenti rigidamente incastonata nell’efficienza della tecnica e della filosofia, gli si apre direttamente, magari per farsene carico in una chiave che va al di là delle tradizionali categorie estetiche ed etiche? Alla frattura positiva della soggettività operata dall’immaginazione corrisponde peraltro la modificazione dell’ordine dei significati del mondo che, in tal senso, da ‘esterno’ passa a essere ‘interno’: non però in quanto ‘prodotto’ arbitrariamente dall’individuo (appunto: dalla ‘sua’ immaginazione), bensì come risultanza della modificazione che i significati stessi dell’apparire del ‘mondo’ subiscono nell’incontro con l’immaginazione. La ‘relatività’ dell’essere, allora, che tutte le posizioni filosofiche contemporanee variamente sottolineano, non finisce per tramutarsi in una sua ‘relativizzazione’, né tende a configurarsi in chiave esclusivamente ‘umano’-critica oppure fondativo-metafisica (come invece avviene, per es., in pensatori quali L. Klages, W.F. Otto, M. Eliade, R. Guénon e H. Corbin, il cui contributo all’e. è stato peraltro molto importante), ma si mostra come metamorfosi costante del rapporto comunque simbolico esistente-trascendenza: un fondo inesauribile di significazione al quale ogni attività umana, in tal senso effettivamente ‘poetica’, viene messa in grado di attingere.
Non è possibile parlare di uno sviluppo autonomo dell’e. musicale prima del Settecento, quando il pensiero illuministico impostò su basi scientifiche lo studio delle leggi inerenti al linguaggio musicale. Il Romanticismo ridiede alla musica il primo posto nella tradizionale gerarchia delle arti, considerandola il linguaggio dell’assoluto. E. Hanslick pose le basi per la nascita della Musikwissenschaft (scienza della musica) germanica e anglosassone e un’analisi obiettiva del linguaggio musicale. Questa tendenza è stata alla base di molti sviluppi delle poetiche e delle e. del Novecento (per es., G. Brelet, B. de Schloezer, S. Langer, L.B. Meyer), arricchendosi anche degli apporti della psicologia della Gestalt e delle indagini sul linguaggio della musica contemporanea operate spesso dagli stessi compositori (A. Schönberg, A. Webern, P. Hindemith, I. Stravinskij, J. Cage, K. Stockhausen, P. Boulez ecc.). Una caratteristica dell’e. musicale del 20° sec. è la varietà dei presupposti metodologici. Se in Italia l’e. musicale è stata per lungo tempo legata all’idealismo crociano (cosa che non ha precluso la nascita di indirizzi diversi, come la prospettiva marxista-fenomenologica di L. Rognoni), altrove sono prevalse altre metodologie: da quella sociologica di T.W. Adorno a quelle fenomenologiche (seppure divergenti) di R. Leibowitz ed E. Ansermet, alle prospettive strutturalistiche di C. Lévi-Strauss.