Scienza che studia i processi psichici, coscienti e inconsci, cognitivi (percezione, attenzione, memoria, linguaggio, pensiero ecc.) e dinamici (emozioni, motivazioni, personalità ecc.). Il termine sembra sia stato usato per la prima volta dall’umanista dalmata M. Marulo nell’opera Psychologia de ratione animae humanae (ca. 1511-18) e successivamente anche da F. Melantone, ma fu diffuso specialmente da R. Goclenio, che nel 1590 diede a un suo trattato il titolo di Ψυχολογία, hoc est de hominis perfectione. Affermatosi poi definitivamente nell’uso con G.W. Leibniz, divenne termine comune per designare ogni dottrina che circa la natura dell’anima fosse stata professata fin dall’antichità, quando ancora non si parlava di p., ma solo d’indagini περὶ ψυχῆς o de anima.
Nella cultura greca più antica, l’anima fu considerata non tanto come principio di consapevolezza, quanto come generale principio di vita, identificata col soffio vivificante del respiro. La concezione dell’anima come sede della coscienza, e quindi come principio della responsabilità e del valore morale, si affermò a partire dal 5° sec. a.C. Da un lato essa è implicita nell’insegnamento morale di Socrate, dall’altro risulta dal consolidamento etico-metafisico, operato da Platone, della tradizione orfico-pitagorica (che già nel secolo precedente aveva asserito l’immortalità dell’anima e la metempsicosi). Nella filosofia platonica si incontra per la prima volta una vera e propria p. come particolare dottrina speculativa concernente la natura dell’anima. Approfondendo le concezioni pitagoriche, Platone sostiene, con diverse dimostrazioni, l’immortalità dell’anima.
La p. giovanile di Aristotele partecipa ancora pienamente della persuasione platonica dell’immortalità, mentre la sua posteriore critica della trascendenza delle idee platoniche implica anche la rinuncia alla tesi dell’immortalità indipendente dell’anima. Nel De anima, l’anima è considerata forma vitale e organica del corpo, principio quindi di vita vegetativa e sensitiva; nell’uomo il potere dell’anima culmina nella funzione ‘dianoetica’ o ‘pensante’, a cui appartengono tutte le attività proprie dell’essere razionale. La suprema forma di questa attività pensante, quella dell’‘intelletto’, è d’altronde per un lato facoltà dell’anima, e per un altro trascendente rispetto all’anima stessa.
Il pensiero posteriore infatti o si limita a negare le dottrine platoniche e aristoteliche, tendendo a dissolvere il concetto dell’anima e con ciò a eliminare il tema stesso della scienza, o ne compone ed elabora in vario modo i motivi. L’epicureismo considera l’anima composta di atomi, e quindi dissolubile per la morte al pari del corpo. Nello stoicismo è centrale la concezione dell’anima cosmica: la forma divina, immanente al cosmo, lo costituisce e governa secondo la sua razionale provvidenza; lo stesso nome, πνεῦμα (spiritus), viene dato all’anima del singolo individuo, divisa in una parte razionale, o ‘dirigente’ (ἡγεμονικόν), nelle cinque facoltà sensibili, nella capacità del linguaggio e in quella della generazione.
La sintesi ultima e maggiore della p. classica è data dal neoplatonismo, il cui motivo principale della concezione dell’anima è quello della sua funzione mediatrice tra l’ideale e il reale. Così nel massimo pensatore neoplatonico, Plotino, l’anima appare come ultima nella gerarchia, discendente verso il mondo della materia, delle tre ipostasi ideali: partecipe del divino e dell’ideale, ne condivide l’unità, ma, confinante con la materia terrena e principio animatore del cosmo, si riverbera negli esseri molteplici.
L’enciclopedica sintesi della p. classica operata dal neoplatonismo si riconnette alle concezioni primitive del cristianesimo, la cui evoluzione dogmatica è contemporanea a quella della scuola di Plotino. La terza persona della Trinità, il Πνεῦμα ῞Αγιον, «Spirito Santo», ripete nel nome una delle più classiche designazioni dell’anima, o almeno della sua superiore facoltà intellettuale. La trinità nella sua interezza, secondo la p. di s. Agostino, si riflette nell’anima umana: la psiche è infatti considerata come costituita di un principio triadico, conformato a immagine e somiglianza di quello intrinseco alla natura divina.
Nella filosofia scolastica, alla tradizione platonico-agostiniana, continuata dal misticismo e dal francescanesimo, si oppone la teologia domenicana, che per opera principalmente di s. Tommaso d’Aquino compie un grande sforzo per interpretare in senso cristiano l’insegnamento peripatetico. La dottrina tomistica cerca di conciliare l’aristotelismo con la dottrina cristiana. S. Tommaso combatte l’interpretazione averroistica della dottrina aristotelica, secondo la quale l’intelletto sarebbe del tutto separato rispetto all’anima individuale, che risulterebbe così priva di quell’elemento di divinità e di immortalità che a suo parere poteva invece esserle attribuito anche in base alla pur problematica dottrina aristotelica. Il problema dell’immortalità viene pertanto risolto dalla p. tomistica in connessione con quello dell’intelletto.
La p. moderna inizia con R. Descartes e col suo rinnovato metodo d’indagine filosofica della realtà. La contrapposizione dell’anima come res cogitans al corpo come res extensa toglie alla prima ogni carattere di corporeità, presentandola come pura funzione pensante (mens). Di qui la concezione occasionalistica (➔ occasionalismo) del suo rapporto col corpo. Il fatale determinismo di questa concezione viene in massima luce nella filosofia di B. Spinoza, per cui l’anima, modo singolo dell’unica e infinita sostanza secondo l’attributo del pensiero, corrisponde del tutto al suo corpo, modo singolo della stessa sostanza secondo l’attributo dell’estensione, non essendone che la concreta consapevolezza (idea corporis). Questa p. contribuisce alla risoluzione dell’intera realtà nell’esperienza pensante dell’anima. Per tale via, si giunge alla concezione di Leibniz, che riduce l’universo al contenuto psichico, consapevole o inconsapevole, delle monadi. D’altra parte, questo stesso riconoscimento dell’intrinseca illimitatezza dell’anima in quanto centro di consapevolezza e di conoscenza conduce a poco a poco alla dissoluzione del suo classico carattere di oggettività sostanziale.
Tale evoluzione si attua specialmente per opera della gnoseologia empiristica inglese. J. Locke combatte l’innatismo cartesiano, cioè la dottrina dell’esistenza nell’anima di idee innate, determinate da Dio prima di ogni esperienza sensibile, mostrando invece come ogni contenuto psichico derivi dall’esperienza attraverso interiori processi di astrazione e associazione. Ma la considerazione del mondo psichico come semplice processo associativo di conoscenze pone in dubbio la stessa esistenza, e preesistenza, dell’anima come sostanza, la cui idea viene quindi ridotta da Locke a quella di un oscuro ‘non so che’. G. Berkeley completa l’opera di Locke riducendo a contenuto di percezione ogni realtà oggettiva e D. Hume, allargando la negazione berkeleyana della ‘sostanza estesa’ alla ‘sostanza pensante’, ridotta a semplice ‘fascio di sensazioni’ interiori, mette in luce come la gnoseologia moderna (in quanto teoria dell’attività pensante) concluda nella negazione di quella stessa p. classica (in quanto teoria della sostanzialità dell’anima) con cui aveva fatto corpo nel primo periodo del suo sviluppo.
Spetterà a I. Kant, che restaura la gnoseologia su nuova base col suo principio del trascendentale o dell’apriori, determinare il passaggio attraverso cui, dalla stessa crisi della p. classica nasce la p. moderna come analisi e classificazione empirica dei fenomeni psichici.
La distinzione di una p. empirica o scientifica dalla p. filosofica o razionale risale a C. Wolff (Psychologia empirica, 1732; Psychologia rationalis, 1734). Solo però nella seconda metà del 19° sec. la p. empirica ottenne sistemazione scientifica. Di determinante importanza risultò l’apporto della ricerca fisiologica; la scoperta dell’esistenza di diversi tipi di nervi, rispettivamente sensori e motori (C. Bell, 1830), condusse a formulare l’ipotesi dell’energia specifica dei nervi, svolta poi da J. Müller, e le ricerche sulle funzioni specifiche di parti del cervello diedero impulso alla teoria delle localizzazioni, sistematizzata da D. Ferrier (1876). Un ulteriore influsso esercitò poi nel campo della p. la teoria darwiniana dell’evoluzione; seguendo l’esempio di C. Darwin (The expression of the emotions in man and animals, 1872), la prospettiva evoluzionistica fu applicata allo studio del comportamento, determinando la nascita di una p. comparata (D. Spalding, G.J. Romanes, C. Lloyd Morgan, L.T. Hobhouse). Né è da trascurare l’importanza delle ricerche psicopatologiche, specie in Francia nell’ambito della psichiatria (Ph. Pinel, B.-A. Morel) e della neurologia (J.-M. Charcot, A.-A. Liebeault, H. Bernheim).
In Germania, l’opera di J.F. Herbart, pur negando ancora alla p. lo status di scienza naturale, aveva introdotto l’idea dell’applicabilità di strumenti matematici allo studio dei fenomeni psichici. I concetti di soglia di coscienza e di misurabilità nei contenuti psichici, teorizzati poi da G.T. Fechner, ne furono il logico sviluppo: si creò su questa base una nuova disciplina, la psicofisica (➔). Nel 1879 W. Wundt fondò il primo importante laboratorio sperimentale a Lipsia, impiegando sistematicamente l’introspezione allo scopo di accertare i processi psichici intercorrenti tra uno stimolo controllabile e misurabile (con i metodi della fisiologia sperimentale) presentato a un soggetto e la sua risposta. Nacque così la p. sperimentale (o p. fisiologica) propriamente detta, i cui assiomi possono considerarsi i seguenti: oggetto di studio sono i processi e gli stati di coscienza; fra stati di coscienza e stimolazioni esterne sussiste una relazione costante; tutti i dati psichici sono riconducibili mediante analisi a elementi semplici; i contenuti complessi sorgono per associazione di elementi semplici.
La storia della p. scientifica nel 20° sec. coincide in buona parte con il processo di dissoluzione di questi presupposti. In contrapposizione all’elementarismo delle posizioni associazionistiche, s’imporrà, con W. Köhler, K. Koffka e M. Wertheimer, la p. della forma (Gestaltpsychologie; ➔ Gestalttheorie). Il presupposto che oggetto della p. dovessero essere solo i processi e gli stati della coscienza fu invece sottoposto a critica e respinto da cultori di p. comparata e in particolare di p. animale. Il risultato più cospicuo di questa revisione fu la fondazione del behaviorismo (➔), o comportamentismo, da parte di J.B. Watson nel 1913. Secondo questa nuova impostazione, che tra gli psicologi nordamericani sarebbe stata dominante tra le due guerre mondiali, si doveva limitare la ricerca psicologica al comportamento, cioè all’insieme di manifestazioni motorie, neurovegetative e verbali dell’individuo. Il behaviorismo cominciò a declinare intorno alla seconda metà degli anni 1950 con lo sviluppo del cognitivismo (➔ cognitivo), che rivalutava, in contrapposizione al comportamentismo, il metodo dell’introspezione, privilegiando lo studio dei processi interni della mente (percezione, memoria, ragionamento, linguaggio ecc.) con cui l’individuo acquisisce e trasforma le informazioni provenienti dall’ambiente, elaborando conoscenze che influiscono in maniera determinante sul comportamento.
Sempre ai fini della costituzione di una p. obiettiva, furono di notevole rilievo alcune posizioni teoriche sorte in Russia a opera di W. Bechterev e riprese poi dal fisiologo I.P. Pavlov (1903) che, con le esperienze sui riflessi condizionati, dette origine alla riflessologia.
Su un altro piano, un superamento del soggettivismo in p. fu attuato dalla psicanalisi di S. Freud, che, introducendo il concetto dell’inconscio, impose una radicale revisione dei concetti fondamentali della psicologia. Una delle principali linee di sviluppo della psicanalisi freudiana nordamericana negli anni 1940-50 fu la p. dell’Io (➔ psicanalisi; per la p. analitica ➔ Jung, Carl Gustav e neojunghiane, scuole; per la p. dinamica ➔ psicodinamica).
Per gli inizi degli studi di p. scientifica in Italia, tra la fine del 19° sec. e i primi anni del 20° sec., vanno ricordati R. Ardigò, G. Sergi, G. Buccola, F. De Sarlo, S. De Sanctis e A. Gemelli. Le prime cattedre universitarie di p. furono istituite nel 1905.
È così detta la p. in quanto ha per oggetto l’applicazione dei principi e dei metodi della p. scientifica ai problemi della vita pratica per finalità socialmente utili. Il concetto di p. applicata è storicamente collegato soprattutto all’impiego pratico della p. nell’industria. Uno dei primi importanti rappresentanti della p. applicata fu W.L. Stern (1903), che la distinse in psicognostica e psicotecnica. H. Münsterberg può essere considerato il primo ‘psicologo applicato’ degli USA, il primo formulatore e sistematore della psicotecnica, cioè della p. applicata al lavoro e all’economia.
La p. applicata si articola in diverse branche, rivolte a fini di specifici interventi sociali o a categorie speciali di cittadini. In Italia si è affermata tra le due guerre mondiali dietro impulso di A. Gemelli.
Sviluppatasi intorno alla fine degli anni 1960, soprattutto per effetto dell’interesse verso l’ecologia, l’etologia e le scienze della progettazione ambientale, studia con forti caratteristiche di interdisciplinarietà il rapporto dell’individuo con l’ambiente che lo circonda. Il campo della p. ambientale si presenta articolato in una pluralità di filoni di ricerca raggruppabili fra loro a seconda che studino gli effetti che le diverse caratteristiche assunte dall’ambiente hanno sui possibili comportamenti degli individui, ovvero le modalità con cui gli aspetti individuali (di atteggiamento, di personalità, di esperienza ambientale) influenzano il tipo di comportamento che l’individuo stabilisce con aspetti specifici o generali dell’ambiente stesso. L’indagine sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente fisico più o meno naturale, che ha costituito il tema originario della p. ambientale, si è andata via via estendendo allo studio del rapporto tra il comportamento umano e l’ambiente sociofisico, e non più solo fisico, in cui esso si realizza.
Settore della p. che studia il comportamento dell’animale nel suo ambiente naturale (e come tale si identifica con l’etologia) o compara, anche in laboratorio, i comportamenti di animali appartenenti a specie diverse (e come tale si identifica con la p. comparata).
Settore della p. che studia le funzioni e le attitudini sia di chi crea l’opera d’arte sia di chi ne fruisce, indaga sui fattori che si associano all’esperienza estetica e alle variazioni individuali e culturali, analizza le interpretazioni psicologiche degli stili artistici, dell’arte primitiva e di quella popolare, studia l’immaginazione creativa, le capacità artistiche individuali, la creatività e la genialità.
La p. scientifica dell’arte nasce nel 1876 con l’introduzione all’estetica (Vorschule der Ästhetik) di G.T. Fechner, che propone un’estetica sperimentale e induttiva, fondata sull’osservazione empirica, verificabile da parte di altri ricercatori. Le successive ricerche hanno conseguito risultati di rilievo nello studio della preferenza delle forme geometriche e delle combinazioni di colori (G.J. von Allesch); sono state proposte (A.D. Birkhoff, 1932) formule per la misura del piacere estetico. Il contributo della p. della forma, per la quale è centrale il problema della percezione, è stato notevole, specie per quanto concerne le arti visive e la musica. Tutto il processo dell’immaginazione creativa sarebbe orientato a stabilire un equilibrio dinamico originale, genesi dei meccanismi produttivi dell’opera d’arte. Anche l’apporto della psicanalisi è stato di rilievo, specie per quanto concerne lo studio dei rapporti fra inconscio e attività fantastica, delle analogie tra attività artistica e attività ludica e, soprattutto, lo studio del simbolismo nell’arte.
L’estetica sperimentale ha cercato di avvalersi delle prospettive offerte dalla cibernetica e dalla teoria dell’informazione, mentre a D.E. Berlyne si devono importanti studi sulle concordanze tra atteggiamento estetico e forme di comportamento esplorativo, con la dimostrazione dell’importanza del risveglio attentivo (arousal) nei processi estetici.
Di rilievo per i processi genetici della p. dell’arte si è rivelata l’interpretazione psicologica del disegno infantile, legato allo sviluppo della psicomotricità e dipendente da pulsioni motorie (gli scarabocchi) e affettive, con il successivo sviluppo della fase del disegno simbolico e di quello realistico.
La psicopatologia dell’espressione è settore molto rigoglioso, sia come mezzo diagnostico che per lo studio dei processi dell’immaginazione e dell’esperienza estetica, sia come procedimento importante di terapia occupazionale.
Studia i processi psichici dinamici e i disturbi psichici privilegiando l’indagine sul singolo caso rispetto a una impostazione normativa derivata da dati su vasti campioni di individui.
L’aggettivo ‘clinico’ può essere ricondotto ad almeno tre significati: a) un approccio alla realtà basato sul rapporto interpersonale; b) una metodologia di studio della realtà fondata sull’osservazione diretta e sistematica di vari individui, con l’obiettivo di isolare elementi comuni e quindi tipici o, all’opposto, differenziali, attraverso un lavoro sul campo e mediante l’utilizzazione di una prospettiva storica; c) un sistema di formazione basato sull’esperienza diretta di una realtà piuttosto che sull’uso di modelli artificiali.
Da un punto di vista storico è stato sostenuto che la p. clinica nasce dalla confluenza di due tradizioni culturali: quella psicometrica, individuabile nel crescente interesse sviluppatosi sul finire del 19º secolo e all’inizio del 20º per i test mentali e per la conseguente possibilità di misurare e diagnosticare dimensioni psicologiche e comportamentali, e quella dinamica, riferita ai contributi forniti, più o meno negli stessi anni, dalle diverse scuole psicanalitiche.
L’oggetto di studio principale di questa disciplina è l’individuo e, in particolare, le sue manifestazioni psichiche e comportamentali, riferendo queste ultime ai processi cognitivi e alle dinamiche emozionali, sulla base di criteri di adeguatezza o inadeguatezza della condotta generale ovvero di parametri di funzionalità/disfunzionalità o di normalità/patologia. Il riferimento prevalente all’individuo, soprattutto all’individuo problematico, ha posto progressivamente in maggiore risalto l’aspetto del recupero di situazioni di difficoltà e/o disfunzionalità psichiche, soggettivamente esperite come disturbo, disagio o simili. Le finalità conoscitive e di intervento della p. clinica sono così state progressivamente assimilate alle pratiche di diagnosi e terapia, fino al punto di giungere a una sostanziale identificazione della p. clinica con l’attività della psicoterapia. Ma tale concezione ristretta della p. clinica si è progressivamente rivelata inadeguata rispetto alle possibilità di intervento e alla multiformità delle richieste che vengono avanzate agli psicologi clinici professionisti. Gli esempi di tali potenziali utenti, ‘altri’ rispetto al singolo in cerca di psicoterapia, sono numerosi: scuole, università, organizzazioni produttive o sanitarie, carceri, enti locali, strutture sociali e, sul piano individuale, richieste di consulenza intorno a tematiche quali gravidanza, aborto, adolescenza, sessualità, o intorno alle problematiche poste dalla tossicodipendenza o, infine, a quelle proprie delle malattie terminali. Queste situazioni sembrano definire diverse tipologie di p. clinica. È tuttavia possibile porre in risalto almeno tre elementi, per così dire comuni, che hanno particolare rilevanza: la relazione, il contesto, la richiesta. La competenza dello psicologo clinico, in questa prospettiva, si esplica nell’orientare un processo di relazioni significative, in specifici contesti, in funzione di specifiche domande avanzate da specifici richiedenti l’intervento psicologico al fine di produrre conoscenza e, in virtù di essa, cambiamento. In p. clinica, dunque, l’obiettivo è quello di concepire valutazione e terapia come momenti diversi di un processo di significazione dell’esperienza sostenuto da una comune teoria del cambiamento.
Gli strumenti che tradizionalmente si riconoscono come propri della p. clinica sono il colloquio e i reattivi psicodiagnostici o test psicologici. I test consentono di analizzare un determinato campione di comportamento in più individui oppure più campioni di comportamento in un singolo individuo, permettendo quindi di ottenere dati che possano essere confrontati. Il colloquio rimane, tra gli strumenti utilizzati in p. clinica, quello che occupa il posto di maggiore importanza. Altro metodo largamente in uso è l’intervista. La distinzione tra colloquio e intervista riposa sulla dinamica motivazionale: nella situazione di colloquio, focalizzata maggiormente sull’interazione tra consultante e consulente, prevale una motivazione di tipo conoscitivo, fondata sulla presenza di un interesse reciproco all’incontro; nel processo dell’intervista prevale una unilaterale accentuazione dell’interesse dello psicologo clinico per la raccolta di informazioni. Per il colloquio è di norma prevista una strutturazione minore di quanto non lo sia per l’intervista, che segue uno schema precostituito.
Sia il colloquio sia i test per quanto attiene allo psicologo clinico sia la richiesta di consulenza psicologica per quanto riguarda il consultante necessitano di coordinate di tipo organizzativo in cui essere collocati, il cui insieme è definito setting (➔). Il modo di reagire all’istituzione del setting può segnalare specifiche modalità di funzionamento psichico, o, meglio, specifiche qualità della relazione che viene a stabilirsi tra il consultante e lo psicologo.
La motivazione alla base di una domanda di intervento psicologico-clinico si può rintracciare in una crisi di decisionalità. In altri termini, chi richiede un intervento, sia esso un individuo o un’organizzazione, avverte uno iato tra la propria capacità di azione e lo scopo verso il quale l’azione stessa è orientata. Tale difficoltà può, anche se non necessariamente, accompagnarsi a una condizione di sofferenza o, comunque, di insoddisfazione.
In generale, qualsiasi ramo della p. che faccia ricorso in modo particolare al metodo comparativo. Per p. comparata in senso stretto si intende la p. animale o zoologica; in un’accezione più vasta, il termine comprende anche la p. differenziale e la p. genetica o evolutiva (studio comparativo delle funzioni psichiche nelle diverse età che spiega il costituirsi delle funzioni e delle strutture psichiche in generale, e particolarmente quelle dell’adulto).
Si dedica all’intervento psicologico nel territorio e nelle strutture sociali, dalla famiglia alla scuola alle comunità terapeutiche, per migliorare la salute psichica e la qualità della vita.
Studia le differenze, e ne ricerca i fattori responsabili, sia nei comportamenti animali sia nei processi psichici tra individui o tra gruppi (classi d’età, classi sociali, culture, etnie ecc.). Un primo obiettivo consiste nello studio comparativo delle caratteristiche psicologiche fra individui tipici appartenenti a specie zoologiche diverse; più frequente è il confronto fra determinate caratteristiche e funzioni psicologiche nell’uomo e in un certo tipo di animale. All’interno di una stessa specie biologica le differenze individuali possono derivare da tre ordini di cause: diverso corredo ereditario; diverso ambiente di vita; diversa età. Anche una sola di queste tre può determinare un’ampia gamma di variazioni individuali; le loro influenze tendono a esaltarsi a vicenda, mentre è improbabile una reciproca attenuazione dei rispettivi effetti, salvo interventi specificamente diretti a tal fine.
I metodi con i quali si studiano, separatamente o in combinazione, queste varie cause differenziatrici, fanno capo alla dicotomia della ricerca sul campo e della ricerca sperimentale. Nel primo caso si studiano fenomeni che avvengono spontaneamente in un determinato contesto ‘naturale’ e influiscono sugli individui considerati; nella ricerca sperimentale si realizza l’artificiosa manipolazione di una delle condizioni che influiscono sui soggetti d’esperimento.
La p. differenziale può seguire due linee diverse e complementari: o partendo da categorie di individui precostituite in base a qualche criterio a priori e ricercando poi i caratteri che esse hanno diversi o comuni; oppure costituendo categorie di individui da contrapporre proprio in base a loro caratteristiche psicologiche sistematicamente diverse. Il campo di maggiore interesse riguarda lo studio comparativo delle qualità psicologiche di categorie omogenee di persone distinte a priori (per es., per il sesso, l’età, le condizioni economico-sociali o culturali).
La p. differenziale riguardo al sesso è disarmonica e scarsa di acquisizioni metodologicamente rigorose: il confronto fra le caratteristiche psicologiche di individui dei due sessi, rigorosamente equiparati per tutte le altre variabili influenti, è infatti particolarmente arduo. Le ricerche hanno molto ridotto le presunte differenze psicologiche fra i due sessi del genere umano imputabili a cause biologiche primarie, riconoscendo prevalente le differenze indotte dall’ambiente socio-culturale. Riguardo all’efficienza mentale, risultano avvantaggiati i maschi nei fattori spaziale e numerico dell’intelligenza; le femmine nei fattori verbali. La percezione cromatica eccelle nelle femmine, come anche la motricità fine e ritmata. Le differenze nel campo emotivo tra i due sessi sono fortemente condizionate da fattori culturali.
La p. differenziale connessa all’età, secondo i casi più o meno influenzata da fattori biologici e culturali, è tanto estesa da giustificare la relativa autonomia di una p. dell’età evolutiva. Anche l’altro versante dell’arco di vita umana costituisce il campo di studio della p. dell’età involutiva, o gerontopsicologia. Nelle funzioni mentali la senilità mostra una progressiva divergenza fra la dotazione di fattori verbali dell’intelligenza, che viene relativamente meglio conservata, e l’intelligenza ‘pratica’. La memoria di eventi remoti è notoriamente meglio conservata, mentre, per difetto di fissazione, decade la memoria a breve termine e di fatti recenti. La vita emotiva, con molte varianti introdotte dallo stato generale di salute, dal livello economico e dallo status familiare, tende ad accentuare tratti ossessivi, depressivi ed egocentrici. Accanto a queste sistematiche modificazioni legate all’età avanzata, si rileva che il singolo individuo resta molto coerente col suo pregresso corredo psicologico e influenzato dalla trascorsa attività lavorativa.
Un altro procedimento della p. differenziale porta a determinare e contrapporre categorie omogenee partendo da un inventario delle caratteristiche personali di un vasto campione della popolazione. Tale inventario, ottenuto da informazioni attendibili e abbastanza discriminative, può essere formulato in termini o analitici o sintetici. Nel primo caso si tratta di un esauriente elenco di tratti personali indipendenti, eventualmente quantificati, che costituisce un ‘profilo psicologico individuale’; nell’altro caso si tratta di diagnosi indicative di un insieme organico di caratteri personali che si presentano di frequente associati (sindrome). Con tali procedimenti la p. differenziale tende a costituire tipologie psicologiche, spesso formulate in categorie contrapposte dicotomiche o più numerose. Queste tipologie sono state impiantate sulla base di ‘tratti’ o ‘fattori’ (innati o acquisiti, cioè del temperamento o del carattere) considerati più rappresentativi dell’intera personalità secondo determinate teorie o scale di valori, stabiliti sia mediante una semplice analisi logica sia sulla scorta di elaborazioni statistiche (correlazioni, analisi fattoriale).
Il concetto di ‘normalità’, in p. differenziale come in biologia, è a un tempo statistico e socio-politico: in una qualsiasi popolazione statistica non selezionata, esso riguarda quella gran parte di casi che si collocano in posizione intermedia in una scala di valori rilevanti per una data cultura. I casi anormali costituiscono comunque una minoranza, di consistenza variabile secondo le varie culture più o meno tolleranti al riguardo, divisa simmetricamente in parti eguali, una al disopra e l’altra al disotto della zona di valori intermedi. A una sola, o alle due estremità di questa distribuzione cadono i valori più periferici e rari tra i casi anormali. Secondo criteri ancora una volta socio-culturali e politici ispirati a valori funzionali o estetici, questi casi di estrema anomalia vengono definiti ‘patologici’ quando eccedono in senso negativo determinati livelli di tolleranza espliciti o impliciti, stabiliti ad libitum da quella particolare cultura.
La p. etnica (o etnografica) è un ramo della p. differenziale che studia le caratteristiche psicologiche degli individui appartenenti a gruppi etnici differenti, e quindi i caratteri psichici ereditari peculiari di un dato gruppo.
Scuola psicologica che si fonda sui principi filosofici dell’esistenzialismo. In particolare, la p. esistenziale deve il proprio quadro concettuale di riferimento alla fenomenologia di E. Husserl e all’ontologia di M. Heidegger. L. Binswanger è partito proprio dall’analitica heideggeriana per elaborare un’analisi esistenziale, cioè dei modi della presenza nel mondo. Il singolo, la situazione, l’intersoggettività, l’angoscia costituiscono i cardini sui quali si impernia la problematica dell’esistenza.
Caratterizza questa scuola il tentativo di superamento dell’antinomia tra psiche e soma nella nozione di corporeità e il lungo soffermarsi sul sempre ricorrente tema dell’angoscia. Il fine dell’analisi esistenziale è quello di acquisire una fondazione della psicopatologia basandola sull’umano. L’umano è appunto l’esserci o, più esattamente, l’esistenza («l’essenza dell’esserci è l’esistenza»: Heidegger), cioè il singolo in quanto individuo solo, irripetibile nella sua peculiarità, irriducibile all’altro, non inquadrabile, ma unico «soggetto operante». Questa inconfondibile singolarità unica, che è appunto la persona, è il luogo di manifestazione dei fenomeni di cui tratta lo psicologo e lo psicopatologo, fenomeni essenzialmente umani, in quanto chi li esprime non è riconducibile a un mero fatto naturale: ha una sua trascendenza, cioè è sempre presente per qualche cosa d’altro.
La p. esistenziale prescinde da giudizi clinici e prognostici e da funzionalità operativa; poiché il singolo è inseparabile dal suo mondo-di-vita, il fenomeno è la veridica espressione del mondo-di-vita, di quella presenza e del suo farsi mondano (essere in situazione). La situazione in cui un individuo è gettato è la sua concretezza, la sua configurazione, la sua incarnazione (G.H. Marcel). Qui l’analisi esistenziale di Binswanger introduce al livello dell’esistenza umana concreta, accentuando in modo particolare i parametri della corporeità e della spazio-temporalità dell’esperienza vissuta (il «tempo immanente» di Heidegger). La nozione di inconscio è inaccettabile dal punto di vista esistenziale (particolarmente in Binswanger): l’a priori esistenziale (che è l’orizzonte della coscienza e si riferisce sempre a una presenza) è il fondamento fenomenologico di ciò che, dal punto di vista della scienza naturale, si riferisce a una mente inconscia; è la struttura di ciò che rende possibile l’esperienza.
L’approccio esistenziale, in psicopatologia, indica i modi essenziali in cui la presenza riceve, trasforma, costituisce il mondo. La psicopatologia esistenziale è dunque lo studio di quelle modificazioni della struttura della presenza che approdano a un ‘restringimento’, una ‘costruzione’ o un ‘appiattimento’ del mondo (J. Needleman). Schematicamente: a) la presenza costituisce il suo mondo attraverso il contesto di significato dell’a priori esistenziale; b) la presenza trova il suo mondo e il suo sé così costituiti; c) la presenza comprende il suo mondo e il suo sé attraverso una libera e aperta relazione e si proietta verso il futuro, avendo nello stesso tempo capito la necessità nella propria effettività qui e ora (il modo dell’essere gettata), oppure si abbandona al mondo, all’effettività, ed è dominata come dal di fuori dal suo proprio modo di costruire il mondo; d) energia dispersa per mantenere l’autodeterminazione con lo svuotamento del potenziale esistenziale (progresso verso l’inautenticità=nevrosi; e) rinuncia totale alla libertà del sé=psicosi. Gli studi di Binswanger sulla schizofrenia mostrano individui il cui essere nel mondo è appunto dominato in questo modo. Il tempo è portato a un ‘arresto’, non vi è maturazione esistenziale possibile. La presenza (come progetto di mondo) si è consegnata a una determinata immagine del mondo, a un particolare progetto da cui viene afferrata o sopraffatta.
La p. esistenziale fa attenzione soprattutto ai contenuti delle espressioni del linguaggio, come indizi, come comunicazione, per il significato modale che racchiudono nei riguardi della declinazione mondana di quell’esistenza che ci sta di fronte. Si può cogliere uno stile, cioè un modo che ha una sua indiscussa unità (per es., stile schizofrenico, maniacale ecc.).
Studia il processo di sviluppo compreso tra il concepimento e la fine della giovinezza, ossia l’inizio dell’età adulta (per la cultura occidentale, intorno ai 25 anni). 12.1 Suddivisioni. L’età evolutiva viene solitamente suddivisa in quattro grandi fasi: dalla nascita ai 6 anni (prima infanzia); dai 7 agli 11 anni (periodo scolastico); dagli 11 ai 14 anni (pubertà); dai 14 anni all’età adulta (adolescenza, giovinezza). Tale suddivisione è stata integrata da una classificazione più indicativa: a) periodo prenatale; b) periodo neonatale; c) il primo anno di vita; d) dal 2° al 4° anno; e) dal 4° al 6° anno; f) dal 6° all’11° anno (periodo scolare); g) dall’11° al 14° anno (prepubertà e pubertà); h) dal 14° anno in poi (adolescenza e giovinezza). Confrontando la prima e la seconda classificazione, appare evidente come gli studiosi abbiano via via accentrato l’attenzione sui primi anni di vita come i più complessi e ricchi da un punto di vista evolutivo.
La suddivisione delle fasi e soprattutto la loro interpretazione cambiano da autore a autore, da scuola a scuola; per es., A.L. Gesell (uno dei pionieri nello studio dell’età evolutiva) risolve tutto nel quadro di un’interpretazione sistematica; ricollegandosi sotto certi aspetti al behaviorismo, sottopone il bambino a un’osservazione sistematica, servendosi anche di tecniche particolari (schermo unidirezionale, nursery-guide ecc.) e da questa osservazione trae le sue considerazioni sul comportamento del bambino nelle diverse fasi evolutive. H. Wallon invece, che si muove su una base rigidamente sperimentale di tipo psicobiologico legata anche alla riflessologia, fissa la sua attenzione sugli elementi sia genetici sia comportamentali nello sviluppo del bambino. È. Claparède parte dal problema della «meccanica degli interessi», intendendo come interesse un rapporto di reciproca convenienza tra soggetto e oggetto e un «simbolo di bisogno di sviluppo del soma e della mente»; da un punto di vista metodologico si serve dell’osservazione del comportamento, delle produzioni del bambino (disegni, racconti) e del metodo introspettivo. J. Piaget pone al centro della sua indagine il metodo ‘clinico’ in relazione allo studio dei processi intellettivi del bambino e della genesi del pensiero infantile riferito al pensiero adulto; tale metodo, come nella pratica medica del clinico, si basa sull’osservazione del caso concreto, condotta però in modo sistematico e avvalendosi di situazioni sperimentali anche se considerate in relazione al caso singolo. Un’altra impostazione importante di ricerca è stata data dalla scuola sovietica fondata da L.S. Vygotskij, che, in parte in contrapposizione a Piaget, ha sottolineato l’influenza determinante dei fattori storico-culturali più di quelli genetici nello sviluppo psichico infantile.
Nella scuola psicanalitica si possono individuare due correnti principali, quella di M. Klein e quella di A. Freud; entrambe le impostazioni sono di tipo rigidamente clinico. Secondo la psicanalisi, le vicende dell’età evolutiva sono collegate a uno sviluppo dinamico su base istintiva, con particolare accento sui primi anni di vita. 12.2 Ricerche ‘longitudinali’. Successivamente, la volontà di render conto dei meccanismi di transizione tra i vari livelli di sviluppo ha comportato una modificazione nelle strategie di ricerca. Pur non trascurando il confronto tra soggetti di età diversa, si privilegiano veri e propri esperimenti (o in ambienti artificiali, che permettono un maggior controllo sulle variabili, o sul campo, cioè in contesti di vita quotidiana), grazie ai quali è possibile individuare con maggior precisione i fattori causali dello sviluppo psicologico. Molti studiosi sottolineano l’indispensabile contributo di ricerche ‘longitudinali’, ovvero di indagini in cui gli stessi soggetti vengono esaminati a più riprese nel corso del tempo. Dal punto di vista delle teorie di riferimento, si è attenuata di molto la contrapposizione tra grandi teorie (o correnti di pensiero), quali l’approccio piagetiano, psicanalitico, comportamentista, che ha caratterizzato il panorama della disciplina per quasi mezzo secolo e si è fatta strada l’idea che il ‘bambino reale’, nella sua complessità, possa essere descritto e compreso solo giustapponendo i risultati di molteplici studi, condotti con ottiche diverse. 12.3 Il neonato. Il risultato probabilmente più appariscente delle ricerche recenti è costituito dal modo in cui appare oggi il neonato. Grazie anche alle sofisticate tecniche di rilevazione di comportamenti non visibili, o non visibili con precisione a occhio nudo (per es., la frequenza dei movimenti di suzione; i movimenti oculari) e di registrazione di indici fisiologici (come il battito cardiaco, il ritmo respiratorio), gli studiosi sono riusciti a mettere in evidenza numerose caratteristiche adattive delle quali il neonato dispone fin dall’inizio. Un esempio tipico è il pianto, che può essere differenziato mediante analisi spettrografica in vari tipi (per fame, per collera, per dolore ecc.) e che, pur non costituendo una forma intenzionale di comunicazione, funziona come un segnale e come tale è ben presto riconosciuto nel suo significato dagli adulti che si prendono cura del bambino. 12.4 Età prescolare. Profonda è stata anche la rivalutazione delle abilità cognitive nell’età prescolare (dai 2-3 anni ai 6). Al bambino di tale età viene riconosciuta la capacità di formarsi, sul mondo che lo circonda, idee organizzate e coerenti, anche se diverse da quelle degli adulti (teorie ingenue); la capacità di divenire esperto su argomenti che lo interessano in modo particolare, superando anche le competenze degli adulti; di comunicare efficacemente con gli altri, modulando il modo di esprimersi in relazione al tipo d’interlocutore. Una chiara dimostrazione di queste competenze cognitive precoci proviene dagli studi sulla teoria della mente, ossia sulla capacità dei bambini di comprendere l’esistenza di stati mentali propri e altrui e di porli in relazione con la realtà. 12.5 Sviluppo affettivo e sociale. Un terzo ambito ricco di risultati è quello dello sviluppo affettivo e sociale. I primi legami affettivi (o relazioni di attaccamento) sono considerati frutto delle risposte che gli adulti danno a una serie di comportamenti e segnali provenienti dal piccolo, innati nella nostra specie come in altri primati, e tendenti a mantenere la prossimità: il pianto, il sorriso, l’aggrapparsi e il cercare il contatto fisico. I comportamenti di attaccamento, dapprima rivolti dal bambino a qualunque adulto si prenda cura di lui, divengono (fra i 2 e i 6-8 mesi) selettivamente indirizzati alla figura materna; successivamente il bambino inizia a reagire negativamente alla separazione dalla madre e alla presenza di estranei, fenomeno interpretato come segno del costituirsi di una relazione specifica tra madre e bambino. Solo nel secondo anno di vita, divenuto capace di rappresentarsi mentalmente la madre e di comprendere che una sua momentanea assenza non significa la sua sparizione definitiva, il bambino potrà tollerarne con maggiore facilità la lontananza.
La considerazione del bambino come essere disposto fin dall’inizio alla socialità ha portato anche a rivalutare le possibilità d’intrattenere relazioni significative con i coetanei, già nella prima e soprattutto nella seconda infanzia. Una fase di familiarizzazione sufficientemente lunga consente a bambini di età inferiore a un anno di realizzare semplici sequenze di gioco a due, mentre, già nel secondo anno di vita, si può assistere alla nascita di relazioni positive e preferenziali con un ‘amico’. 12.6 Il contesto. Un elemento centrale nello studio dello sviluppo è infine costituito dall’interesse per gli effetti del contesto sui processi psicologici. Per contesto si può intendere qualcosa di oggettivabile come l’ambiente fisico in cui il soggetto vive e le caratteristiche degli stimoli che ne derivano, ma anche il più elusivo ambiente sociale, e le diverse rappresentazioni della realtà da esso veicolate; si può intendere qualcosa di molto lato e sovra-individuale, come il periodo storico in cui si situa il comportamento individuale, ma anche un più privato e transitorio contesto mentale, inteso come il quadro di riferimento attivato attingendo nella memoria a lungo termine quando il soggetto si trova di fronte a un compito specifico. Questo indirizzo di ricerca, che è espressione della tendenza dei ricercatori a farsi carico della complessa interrelazione tra fattori interni (biologici e psicologici) e fattori esterni (contestuali), costituisce da un lato una reazione al rinascere di dichiarate propensioni innatistiche (per es., nelle ricerche psicometriche sull’intelligenza e la sua ereditabilità), dall’altro un approfondimento degli aspetti costruttivistici e interattivi, presenti in modo insufficiente sia nelle teorie strutturaliste classiche come quella di Piaget sia in quelle, più recenti, derivate dall’estensione delle scienze cognitive ai fenomeni dello sviluppo (per es., la teoria di R. Case o quella di J. Pascual-Leone).
Sinonimo di p. scientifica nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’impostazione fisiologica era considerata il requisito indispensabile di una disciplina non soggettiva e filosofica, ma oggettiva, sperimentale e scientifica, nei primi decenni del Novecento la p. fisiologica diventò una branca specifica della p. che studiava la relazione tra i processi fisiologici (con particolare attenzione ai processi del sistema nervoso) e quelli psichici. 13.1 Principi. I concetti principali impiegati dalle prime teorie della p. fisiologica furono la localizzazione cerebrale delle funzioni psichiche (D. Ferrier) e l’arco riflesso (C. S. Sherrington). Il punto di riferimento della p. fisiologica della prima metà del Novecento fu la teoria di I.P. Pavlov fondata sulle ricerche sui riflessi condizionati (➔ riflesso). Nella descrizione dell’organizzazione e della dinamica dei processi nervosi superiori (attività nervosa superiore), su cui si basano i processi comportamentali, Pavlov introdusse nuovi concetti come l’eccitazione, l’inibizione, l’induzione reciproca ecc., che erano stati inferiti dallo studio dell’attività comportamentale, in particolare dei riflessi condizionati, e non avevano una verifica neurofisiologica diretta. La teoria pavloviana fu criticata in particolare da K.S. Lashley in relazione al semplicismo degli schemi associazionistici adottati che, secondo Lashley, non esprimevano adeguatamente la complessità delle interazioni che si compiono nel cervello durante un’attività comportamentale. L’esigenza di verificare la teoria pavloviana con una più precisa analisi neurofisiologica si poté realizzare a partire dagli anni 1950 con il progresso della strumentazione elettronica per la registrazione dell’attività del sistema nervoso. Nella seconda metà del Novecento sono state compiute ricerche fondamentali sui meccanismi nervosi che regolano la veglia e il sonno, sul ruolo delle strutture sottocorticali nei processi motivazionali, sui processi sensoriali e percettivi, sulle basi corticali dell’apprendimento. È stata notevole, inoltre, l’influenza sulla p. fisiologica della teoria dell’informazione e della cibernetica, che hanno richiamato l’attenzione sui processi di retroazione che regolano il comportamento. Rispetto alla ricchezza e importanza dei risultati sperimentali, scarsi sono i tentativi di sintesi teorica; un contributo di rilievo a una nuova teoria dei rapporti tra processi cerebrali e processi psichici è di A.R. Lurija, il quale ha elaborato il concetto di sistema funzionale cerebrale, che indica il complesso insieme dinamico delle varie strutture cerebrali che intervengono nella realizzazione di un processo psichico. 13.2 Tecnologie di indagine. Il progresso delle ricerche sui rapporti tra processi fisiologici e processi psichici è stato accelerato dall’introduzione di nuove tecnologie di indagine (registrazioni elettrofisiologiche dei neuroni, tecniche di neuroimmagine). La registrazione con microelettrodi dell’attività di singoli neuroni ha permesso di approfondire ed estendere i risultati conseguiti da D.H. Hubel e T.N. Wiesel sulla corteccia visiva. Da studi successivi, la corteccia cerebrale risulta composta da cellule altamente specializzate per l’elaborazione dell’informazione (dalle caratteristiche fisiche degli stimoli visivi, uditivi e tattili, al riconoscimento di materiale verbale, di facce ecc.). Alcuni ricercatori hanno sostenuto che i processi psichici si fondano su questi sistemi neuronali (denominati moduli), mentre altri ritengono che le operazioni mentali avvengano in modo diffuso in tutto il cervello (modelli delle reti neurali). In entrambe le ipotesi, viene rifiutata la concezione di una divisione anatomofunzionale della corteccia cerebrale in aree sensoriali, aree di associazione e aree motorie, su cui si fonderebbero le funzioni psichiche della sensazione e della percezione, dell’integrazione associativa e della memoria, e dell’esecuzione motoria. Ricerche più recenti partono dall’ipotesi che l’informazione non scorra in modo rigido e sequenziale da un’area all’altra del cervello, ma si diffonda lungo canali in parallelo secondo circuiti diversi.
Nell’uomo, lo studio dei processi cerebrali associati ai processi mentali viene condotto generalmente attraverso due tipi principali di indagine: il primo si basa sulla registrazione dell’attività elettrica cerebrale correlata a processi o eventi psichici (potenziali correlati a eventi), il secondo sull’analisi delle prestazioni di pazienti con lesioni cerebrali. Queste due correnti di ricerche (rispettivamente note come psicofisiologia e neuropsicologia) hanno permesso di approfondire le caratteristiche (tempi di elaborazione, aree impegnate) delle attività cerebrali durante lo svolgimento di compiti cognitivi (identificazione di oggetti e facce; elaborazione di informazione verbale e musicale; processi di memorizzazione; pianificazione di atti motori). Mentre la psicofisiologia studia campioni estesi di soggetti umani per individuare le modalità generali del funzionamento cerebrale, la neuropsicologia considera anche i casi singoli nei quali particolari forme di lesione cerebrale hanno prodotto sintomatologie psicologiche molto rare (del tipo di quelle descritte nei cosiddetti romanzi neurologici di O. Sacks). L’introduzione delle tecnologie di neuroimmagine nel campo della ricerca neuropsicofisiologica ha consentito di documentare in modo più preciso la localizzazione delle varie regioni cerebrali interessate.
I risultati della p. fisiologica e delle neuroscienze hanno pertanto permesso di sviluppare il dibattito sui rapporti tra cervello e mente. Mentre alcuni filosofi e neuroscienziati (tra cui J.C. Eccles e K. Popper) hanno sostenuto l’irriducibilità dei processi psichici a processi cerebrali, altri (tra cui F.H. C. Crick) ritengono che le funzioni mentali, compresa la coscienza, possano essere spiegate in termini neurofisiologici.
Studia gli aspetti psicologici legati alla pratica giudiziaria. In generale, la p. forense si occupa della valutazione dell’incidenza delle singole situazioni cliniche nella soluzione degli specifici problemi giuridici. Nel suo ambito si distinguono una p. criminale, che studia il comportamento e le caratteristiche psicologiche del delinquente, una p. giudiziaria, che analizza dal punto di vista psicologico gli attori dei processi (imputati, vittime, testimoni ecc.) e valuta l’attendibilità delle deposizioni, e una p. penitenziaria (o carceraria), che ha per oggetto di studio le condizioni psichiche dei detenuti al fine di elaborare i sistemi di trattamento più idonei a favorire la riabilitazione.
Settore della p. applicata che studia il comportamento dell’uomo in relazione all’attività lavorativa, con il duplice intento di migliorare l’efficacia delle prestazioni e la soddisfazione dei lavoratori. 15.1 Psicotecnica. La p. del lavoro si sviluppò inizialmente come psicotecnica, cioè come studio delle attitudini e delle capacità individuali, inquadrabili in configurazioni di mestiere (profili professionali). La diffusione del termine si deve a H. Münsterberg, che realizzò i primi interventi di selezione del personale nell’azienda dei trasporti pubblici di New York. Nella psicotecnica come oggetto di studio e d’interessi applicativi s’identificò un vasto movimento internazionale, che cercò di definire un quadro teorico di riferimento, d’istituire confronti tra i risultati ottenuti, di mettere a punto specifiche metodologie, di delineare nuove iniziative. In questa fase il termine psicotecnica fu definitivamente usato per designare quelle applicazioni della p. che riguardano l’uomo nell’ambito della sua attività lavorativa e che perseguono in generale lo scopo di realizzare, da un lato, un suo migliore adattamento ai compiti e all’ambiente di lavoro e, dall’altro, un migliore adattamento delle tecniche e delle condizioni lavorative alla sua personalità. Intorno agli anni 1950, il termine andò scomparendo dal linguaggio specialistico, sostituito dall’espressione p. applicata, ritenuta più appropriata e pertinente. Col tempo, la p. applicata si arricchì di diverse branche e il campo operativo cui inizialmente si era dato il nome di psicotecnica prese quello di p. del lavoro. 15.2 L’influsso del taylorismo. Fin dagli inizi, la p. del lavoro si trovò di fronte allo scientific management di F.W. Taylor e F.B. Gilbreth. Inevitabilmente si ebbe la conversione graduale dei propositi dei primi psicologi del lavoro alle esigenze del taylorismo. Infatti i primi tentativi di una classificazione dei posti di lavoro si frantumarono in numerose distinzioni, tutte derivate dall’esigenza tayloristica che si fondava unicamente su un’estrema suddivisione parcellare dei compiti, rigidamente ritagliati su unità di tempo e disarticolati in movimenti finalizzati al raggiungimento di the best way. Dal «posto adatto per l’uomo» si passò e si perseguì l’obiettivo della ricerca dell’«uomo adatto per il posto adatto». Gradualmente e progressivamente tutte le applicazioni della p. del lavoro sembrarono informarsi a questo principio, e la p. del lavoro si identificò sempre più con l’ideologia economicistica del taylorismo. 15.3 Selezione professionale. Pilastro dell’edificio della psicotecnica fu la selezione professionale, che mediante l’impiego di tecniche e strumenti diagnostici obiettivi operava una scelta tra concorrenti a un posto di lavoro, assumendo come criterio il riscontro di quel corredo attitudinale capace di offrire maggiori garanzie di successo in quel posto. Attraverso formulazioni successive, ricollegabili da un lato allo sviluppo di nuovi orientamenti teorici e applicativi della p. ma fondamentalmente sollecitate da esigenze aziendalistiche e da contingenze economiche e sociali, si ebbe un’evoluzione concettuale e metodologica della selezione, insieme a un progressivo ipertrofico sviluppo delle procedure psicologico-statistiche. In breve, si può dire che le tendenze dogmatico-aprioristiche, che avevano caratterizzato il sorgere della selezione professionale ipotizzando come possibili una scomposizione del lavoro in parti semplici o elementari (‘analisi del lavoro’ e ‘gesti professionali’) e la definizione delle funzioni psichiche corrispondenti a ciascuna di queste parti (attitudini articolate in ‘profili professionali’) misurabili con apposite prove (test o reattivi psicologici), si dimostrarono, nonostante l’apparente rigore sperimentale, compromesse da ipotesi non verificate né probabilmente verificabili. 15.4 I test. I test, strumento principale della selezione professionale, si rivelarono in grado di dare solo una valutazione ‘statica’ delle possibilità dell’esaminando, che nel migliore dei casi rifletteva il livello massimo di queste possibilità, senza però fornire alcun elemento riguardante gli aspetti dinamici della messa in atto delle possibilità stesse (per es., regolarità, impegno futuro dell’esaminando ecc.). Non per niente sono andate acquistando sempre maggior rilievo tecniche di valutazione del comportamento di tipo dinamico o ‘adattivo’, nelle quali si ha modo di aumentare o diminuire le difficoltà dei compiti che il soggetto deve affrontare in funzione del livello di rendimento raggiunto dal soggetto in quel dato momento. Anche quando la selezione professionale si è arricchita di tecniche più o meno raffinate che hanno portato l’indagine sui bisogni e sulle motivazioni dell’individuo con l’ambizione di giungere a una completa diagnosi di personalità, di fatto è stata presa in considerazione l’aderenza o meno delle configurazioni di personalità ai bisogni dell’azienda, con tutte le implicazioni negative sul piano scientifico e sociale che ne scaturivano. Pur con queste limitazioni, tuttavia, i test di selezione sono tuttora ampiamente usati nell’ambito della selezione professionale. Tra i più diffusi: test di idoneità, ideati da L.J. Cronbach, che mirano a valutare il complesso delle condizioni psichiche necessarie per espletare una data attività; Giese-test, messi a punto da F. Giese e rielaborati da F. Dorsch, che prendono in considerazione l’aspetto qualitativo di alcuni parametri (abilità manuale, capacità tecnica, capacità direttiva ecc.); Pauli-test, elaborati da R. Pauli e perfezionati da W. Arnold, che misurano la qualità della concentrazione, dell’attenzione, del rendimento nello svolgimento di un’attività lavorativa. 15.5 Orientamento professionale. Anche per l’orientamento professionale sono stati sufficienti pochi decenni per rendere evidente che un orientamento circoscritto al momento della scelta di un’attività lavorativa dava risultati modesti e insoddisfacenti. Quel momento non era infatti che il risultato dei precedenti pedagogici della storia relazionale dell’individuo; il margine per aiutare alla scelta della professione si presentava pertanto ristretto e rigido. L’orientamento doveva perciò necessariamente allargarsi in orientamento scolastico e professionale, prendendo in considerazione, e attribuendogli importanza maggiore, il periodo formativo dei soggetti da inserire nel più vasto processo della formazione professionale.
A un tipo di strategia che considerava il lavoro come costante e l’uomo come variabile, si è contrapposto un tipo di approccio la cui enfasi è invece posta sul lavoro e sull’ambiente al fine di adattarli alle capacità e ai limiti dell’essere umano, con la conseguente necessità di formulare una strategia d’interventi che, invece d’individuare nell’insieme delle risorse umane profili professionali adattabili alle richieste dell’organizzazione, manipoli la variabile lavoro in modo che ogni persona possa adattarvisi. In questa direzione, la ricerca di livelli ottimali d’integrazione tra uomo e ambiente di lavoro è diventata lo scopo e l’interesse base d’indagini e di programmi di ricerca che, sia pure in prospettive diverse, hanno trovato una loro collocazione sotto le etichette di human engineering, biomeccanica, engineering psychology, p. sperimentale applicata, fattori umani dell’ingegneria e, infine, ergonomia, il termine di più larga accezione. 15.6 Relazioni umane. La dottrina delle relazioni umane ha rappresentato la più compiuta tra le forme di reazione alle nuove esigenze, e di fatto, per le direzioni aziendali, fu intesa non tanto come aggiunta alle teorie precedenti sull’organizzazione del lavoro, ma come una tecnica d’intervento che nelle mutate condizioni sociali consentisse non tanto e non più l’adattamento dell’uomo alla macchina, ma l’adattamento al regime di fabbrica nel suo insieme. Il progetto delle relazioni umane, non ponendosi in termini di alternativa reale, non incise sulla struttura dell’organizzazione, rimanendo costretto e strumentalizzato all’interno della rigida cornice istituzionale fissata dallo scientific management e rivelandosi nel complesso incoerente con i sistemi aziendali.
Nelle mutate condizioni economiche, sociali e tecnologiche degli anni intorno al 1950 il bisogno di recupero della soggettività operaia divenne assoluto: la presenza sempre più massiccia di forza-lavoro qualitativamente differenziata, il cui impiego non sopportava le regole e i ruoli della vecchia organizzazione manufatturiera, rese rapidamente obsolete le forme di stratificazione professionale e mise in crisi il problema del potere all’interno dell’azienda, del potere tecnico non meno importante di quello politico, di un potere su quello che si fa e sul dove porta, capace di dare al lavoro un senso e un significato meno inconsistente e di permettere a chi lo svolge, a qualsiasi livello della struttura aziendale, di «sapere come funziona» e non di «funzionare senza saperlo». In questa prospettiva, quasi in termini di conflitto tra una concezione dell’uomo come componente strumentale del processo di produzione (con un ruolo al di sotto della sua individualità tecnica) e una che lo considera come un fattore di adattabilità al centro dell’organizzazione (con un ruolo creativo e partecipe che esalta la sua individualità tecnica), vanno a collocarsi soluzioni non più e non tanto di una p. del lavoro di tipo tradizionale, ma prodotte dallo sforzo congiunto di più discipline che, concentrandosi sull’esigenza di una diversa organizzazione del lavoro, deve tener conto della fabbrica e della società e dell’urgente necessità di costruire nuovi referenti e nuovi modelli. Dietro queste soluzioni, le riassunzioni, dirette o indirette, di temi classici della p., quali i bisogni, le motivazioni, le strategie decisionali, sono evidenti, e alle vecchie ricette psicotecniche si sostituiscono più ambiziosi sforzi di teorizzazione nei quali confluiscono le nuove correnti della p. sociale cognitiva e gli sviluppi dell’ergonomia cognitiva.
Oggetto della sua indagine sono la percezione della musica, la creazione musicale, la memoria musicale, il talento musicale e le reazioni emotive collegate alla musica. Sono particolarmente studiate le dimensioni tonali (altezza, volume, timbro, ritmo, memoria), le loro modificazioni attraverso l’esercizio, le questioni fisiopsicologiche relative all’‘orecchio assoluto’ (cioè alla capacità di riconoscere senza errori i toni ordinati in una successione casuale e quindi di identificare un tono senza ricorrere a un tono di confronto).
Ramo della psicologia applicata che si avvale di tecniche e dati offerti da diverse branche della p. per lo studio dei problemi educativi.
Gli antecedenti di questa disciplina si possono ritrovare sia come acquisizione di consapevolezza psicologica da parte della pedagogia sia come acquisizione di consapevolezza pedagogica da parte della psicologia. Nel primo senso ha operato una tradizione che da Comenio, attraverso J.J. Rousseau e J.F. Herbart, è giunta fino a J. Dewey e all’attivismo; nel secondo, l’opera di autori come G.S. Hall, W. James, A. Binet, É. Claparède, J. Piaget, J.S. Bruner, e, in senso tutto particolare, di E.L. Thorndike, e B.F. Skinner.
Dal lato della psicologia, l’adozione del metodo sperimentale di ricerca è sfociata nella costruzione di modelli e di sistemi che investono anche le situazioni d’istruzione: con la netta prevalenza, ancor oggi, della considerazione dei processi di apprendimento su quella dei processi d’insegnamento, ma con la possibilità aperta di interessanti e notevoli sviluppi futuri anche in questo settore. L’uso dell’espressione fu proposto da G. Mialaret, il quale accentuò il significato di uno studio globale della personalità del discente o educando (e in grado minore e consequenziale della personalità del docente o educatore entro la stessa situazione d’istruzione). Questo in opposizione alla versione tedesca, anglosassone e slava dei medesimi studi, tendente ad accentuare i problemi dell’apprendimento nei confronti di quelli della personalità, e a considerare su un piano di più stretta interdipendenza le due figure del discente e del docente.
Scienza interdisciplinare, ne dipendono discipline
più settoriali e specifiche, come la psicodidattica (studio dei processi di apprendimento-insegnamento promovibili a seconda di condizioni ambientali, sociali, istituzionali-scolastiche, strumentali, economiche ecc.) e la psicomatetica (studio dei processi di apprendimento-insegnamento promovibili a seconda di condizioni logiche interne alla situazione, per es., rispetto al tipo o contenuto dell’istruzione in corso), nonché la p. scolastica, o studio dell’ambientazione istituzionale della situazione d’istruzione.
Per le correnti più legate allo studio della personalità, vi rientrano molte tecniche d’intervento per terapie di normalizzazione, soprattutto se esercitate in forma sistematica collettiva (a esclusione di quelle strettamente psicanalitiche). Da tale punto di vista, la psicopedagogia speciale (o differenziale) si occupa dei problemi di apprendimento e di adattamento al contesto scolastico di soggetti caratterizzati da insufficienza mentale. Pure in rapporto con la psicopedagogia si possono considerare le tecniche tutoriali di assistenza allo studio, o di guida e consiglio nell’orientamento.
Oggetto fondamentale rimane l’insieme delle modificazioni riscontrabili in un processo d’istruzione (o educazione) considerato dal suo inizio al suo termine in una situazione data; con la possibilità di osservare, fra le condizioni, elementi che variano dagli atteggiamenti e attitudini alle abilità o performance e ai gradi di profitto riscontrabili; fra gli obiettivi, sia l’aspetto cognitivo sia quello operativo, con l’implicazione dell’intenzionalità, della motivazione, dell’interesse; fra gli interventi, le scelte logiche, come le procedure o strategie di apprendimento-insegnamento, e quelle pratiche, come i metodi e le tecniche utilizzabili concretamente.
La psicopedagogia è stata influenzata notevolmente dalle tendenze della p. cognitiva. Molte ricerche sono state dedicate all’apprendimento delle abilità di lettura e scrittura e alle strategie di ragionamento. Un ampio dibattito è stato dedicato al ruolo dei fattori genetici e maturazionali (scuola di Piaget) e di quelli storico-culturali (scuola di Vygotskij) nello sviluppo psichico infantile, al fine di fissare tappe più o meno rigide del processo educativo in relazione alla maturazione biologica del bambino e al suo contesto socio-educativo.
Ramo della psicologia, detto anche sociopsicologia, che studia i comportamenti, le valutazioni e i sentimenti degli individui in quanto membri di una collettività sociale. 18.1 Principi. Convenzionalmente, la nascita della p. si fa coincidere con la pubblicazione, nel 1908, delle prime due opere dal titolo Social psychology del sociologo americano E.A. Ross e dello psicologo inglese W. McDougall. La disciplina si è sviluppata in modo privilegiato negli USA, dove la dovizia dei mezzi, l’urgenza dei problemi sociali da risolvere, la presenza di molti studiosi europei, profughi dai loro paesi d’origine, hanno dato ragione del gran numero di indagini, studi e testi sull’argomento.
La spiegazione psicologica del comportamento sociale fu all’inizio tentata utilizzando i concetti di imitazione, suggestione, abitudine, simpatia, pressione sociale ecc.; ma risultò sempre più evidente che le condotte sociali anche più stereotipate (come certi atti rituali) non si spiegano, in ultima analisi, che in termini di «utilità (psicologica) funzionale» per l’individuo: sono cioè da questo adottate perché rispondono a bisogni e sono in linea con idee e atteggiamenti che gli sono caratteristici. Pertanto, qualsiasi indagine esplicativa del comportamento sociale dovrà rifarsi prima di tutto al complesso delle leggi psicologiche riguardanti la motivazione, la conoscenza, l’apprendimento ecc., e cioè ai processi psicologici fondamentali che spiegano ogni comportamento, pure beneficiando dell’apporto sociologico, indispensabile per la spiegazione integrale dell’azione sociale. 18.2 Interazione. È soprattutto nella discussione del concetto centrale di interazione che si sono differenziati gli orientamenti degli studiosi di p.: mentre gli ‘psicologisti’ (specie della corrente behaviorista) hanno teso a ridurre l’interazione sociale a fenomeno puramente psicologico e a spiegarla in termini di psicologia individuale, i ‘sociologisti’ l’hanno interpretata in termini prevalentemente sociologici, riducendola ad assunzione di ruoli partecipati e facendone, quindi, una funzione della società. Per uscire dal trabocchetto riduzionista, è stato teorizzato, da S.E. Asch e da altri, un concetto d’interazione umana come campo sociale mutuo, che conserva al campo sociale la sua natura psicologica, senza implicare una negazione della specificità sociale del comportamento associato. 18.3 Gruppi tematici. Le ricerche di p. si sono centrate, seguendo le linee guida di diversi indirizzi teorici, su un gran numero di gruppi tematici; tra i più importanti, ricordiamo: i fattori sociali nei processi della percezione e della memoria e nella motivazione (F.C. Bartlett, G.W. Allport, B. Berelson ecc.); la comunicazione e la persuasione (A. Lumsdaine, C. Hovland, P. Lazarsfeld, L. Festinger); l’influenza interpersonale (S.E. Asch, R.S. Crutchfield, P.G. Grasso, K. Lewin, M. Sherif, T. Newcomb, C. Chapman ecc.); la stratificazione e i ruoli sociali (U. Bronfenbrenner, P. Lazarsfeld, N. Gross); la leadership (J. Moreno, H. Jennings, G.L. Lippitt); personalità, cultura e struttura sociale (T.W. Adorno, M. Rokeach e, tra gli italiani, P.G. Grasso, W.V. Battacchi, R. Canestrari, G. Jacono e L. Meschieri); struttura e processi di gruppo (R. Bales, E.F. Borgata, A. Bavelas, S. Stouffer, C. Herberg e il gruppo di ricercatori facente capo al Research center for group dynamics dell’università del Michigan). Il duplice riferimento all’individuo e alla società, ai processi psichici e all’organizzazione collettiva della realtà e dei suoi significati pesa sulla fisionomia della p. sociale e in alcuni momenti ciò ha determinato ‘crisi’, spesso risolte a discapito dell’una o dall’altra delle sue distinte, seppure inscindibili, istanze. 18.4 Cognizione sociale. Pur nella varietà di prospettive teoriche e di stili esplicativi, non c’è dubbio che una delle linee più caratteristiche dello sviluppo della p. sociale riguardi il crescente interesse per la cognizione. A questo proposito, si è cercato di esplicitare che cosa si intenda esattamente per cognizione sociale: la cognizione è sociale non solo per la natura del suo oggetto, per i suoi contenuti, ma anche per il suo carattere condiviso, per la sua origine e per la sua funzione. In questa linea è possibile individuare una posizione intermedia lungo il continuum che va dal costruzionismo sociale radicale allo psicologismo individualistico: molti studiosi utilizzano la sofisticata metodologia sperimentale propria della ricerca cognitiva, senza rinunciare a una interpretazione della vita psichica in cui, però, la costruzione collettiva dei significati appare più importante e centrale dei processi puramente individuali di elaborazione delle informazioni. Questa scelta individua uno spazio che è proprio ed esclusivo della p., la cui specificità consiste nel non limitarsi a un unico livello di analisi (intrapsichico, interindividuale o intergruppo), per porsi piuttosto proprio all’intersezione fra questi diversi livelli.
Anche se non mancano altri approcci, la ricerca in chiave di cognizione sociale è fortemente rappresentata, sia negli Stati Uniti sia in Europa. Qui, in particolare, una maggiore attenzione è riservata a temi quali l’identità sociale, il formarsi di stereotipi, le emozioni, le relazioni intergruppi, il sé. Altri temi di ricerca ricorrenti riguardano la vasta tematica delle rappresentazioni sociali (introdotta da S. Moscovici), i processi di attribuzione (e cioè l’identificazione, corretta o meno che sia, di cause interne od oggettuali di determinati comportamenti), gli atteggiamenti, il linguaggio, l’influenza sociale. Innumerevoli anche gli ambiti applicativi, che vanno dal lavoro, alle strutture educative, alla salute, alla p. giuridica e politica.
La p. transculturale studia i processi psichici di individui appartenenti a culture diverse in un’ottica che privilegia l’influenza dei fattori storico-culturali su quelli biologici.
Tra le altre più importanti branche della p. si ricordano inoltre: la p. medica (rilevante per la medicina psicosomatica, per i rapporti medico-malato), la p. gerontologica, la p. ostetrica (pratiche del parto psicoprofilattico indolore), la p. ospedaliera (con particolare considerazione dei rapporti interpersonali).
Per la p. individuale ➔ individuo; per la p. del linguaggio ➔ linguaggio.