Settore della medicina che ha per oggetto lo studio clinico e la terapia dei disturbi mentali e dei comportamenti patologici, distinti per origine, qualità, entità e durata delle manifestazioni. La delimitazione nosografica delle singole forme morbose è di difficile realizzazione. Accanto a tale labilità dei criteri discriminativi, è presente una distinta interpretazione nella ricerca dei meccanismi eziopatogenetici, basata su due correnti fondamentali di studio: determinismo biologico e dinamismi psichici.
Il metodo clinico-nosografico. La persona ‘mentalmente malata’ non può in alcun modo essere identificata in toto con il suo substrato anatomofisiologico, sia esso noto o supposto. Fu il grande merito (e la grande illusione) della p. della seconda metà dell’Ottocento identificare raggruppamenti costanti di sintomi (le sindromi), collegandoli in modo causale con specifici processi eziologici. Questo metodo clinico-nosografico, operante su basi rigorosamente empiriche e dovuto soprattutto all’immenso lavoro di E. Kraepelin (a ragione considerato come uno dei più grandi maestri della p. clinica), è stato molto importante per il suo potenziale di identificazione e chiarificazione. Tuttavia lo stato dell’esperienza clinica rende impossibile aderire all’impostazione clinico-nosografica sensu stricto; inoltre, un’eccessiva relativizzazione del criterio clinico-nosografico conduce o alla negazione di realtà cliniche diverse tra loro, per es. la realtà paranoide, quella melancolica, quella maniacale oppure all’assunzione di presupposti teoretici fondati su analogie che solo parzialmente possono essere sostenute.
La concezione organodinamica. Esempi del genere si ritrovano nella concezione organodinamica, che ha trovato in H. Ey il suo più geniale e colto sostenitore. In essa è evidente, e anche suggestiva, l’analogia con la dottrina di J.H. Jackson dei livelli neurologici basata sulla scomparsa di funzioni dipendenti da organizzazioni filogeneticamente più recenti, con conseguente liberazione di moduli funzionali più arcaici. Questa teoria della struttura della psiche postula un movimento generante il passaggio evolutivo dall’infrastruttura organica alla sovrastruttura psichica e sottolinea la prospettiva fondamentale secondo la quale la psiche ha uno sviluppo (genetico) e la sua organizzazione è gerarchica (dinamica) ai vari livelli dell’inconscio, dell’automatismo psicologico, della mente conscia, livelli che regrediscono nella malattia mentale. Ciò comporta: a) la tesi psicologica che la malattia mentale è già implicata nell’organizzazione della psiche, con la ovvia, e ben giustificata, valorizzazione degli studi di psicologia genetica sullo sviluppo mentale del bambino (A. Freud, H. Wallon, J. Piaget) e degli studi sulla stratificazione strutturale della psiche; b) la tesi fenomenologica che la struttura della malattia mentale è essenzialmente negativa o regressiva, dove la malattia viene intesa come rottura della comunicazione e delle relazioni necessarie per la comprensione interpersonale, con conseguente destrutturazione della realtà; c) la tesi clinica che le malattie mentali (psicosi e nevrosi) sono forme tipiche di vari livelli di agenesia o di dissoluzione dell’organizzazione psichica; d) la tesi eziopatogenetica che la malattia mentale dipende da processi organici, con la regressione intesa come causalità organodinamica e con una forte apertura sulle prospettive neuropsicologiche, per es. su quello che viene designato come studio dei fattori cognitivi.
Il culmine di tale impostazione si raggiunge nell’opera di Kraepelin, espressione della p. clinica per antonomasia, con il suo concetto di ‘psicosi endogena’, cioè di malattia mentale vera e propria, ben distinta dai disturbi nevrotici e caratteropatici, dalle noxae cerebrali acute e croniche, e dovuta a un quid proprio, appunto endogeno, tutto da precisare.
Il disturbo fondamentale. La nozione di schizofrenia, elaborata da E. Bleuler nel 1911, parte dai concetti kraepeliniani, ma compie un passo teorico di importanza fondamentale sceverando, fra la congerie e il polimorfismo dei sintomi e la varietà infinita delle esperienze deliranti, il ‘disturbo fondamentale’ (Grundstörung), da cui tutto il resto dipende e psicosemiogeneticamente deriva: l’autismo, cioè il disinteresse per il reale e il ripiegamento in sé stessi, con chiusura al rapporto interpersonale o sua deformazione, dissociazione fra idee e affettività, fra il proprio mondo interiore e il reale, delirio come interpretazione erronea o come nuovo significato della realtà vissuta su parametri non condivisi, alieni. La concezione di Bleuler, che ha dominato per decenni, ha avuto il merito di indurre ad analisi psicopatologiche meno legate al rilievo del sintomo e più puntate verso il ‘dietro la facciata’, con un enorme arricchimento di comprensione, ma ha di fatto ipostatizzato la malattia mentale con la riuscitissima scelta del nome, schizofrenia, rafforzando, anche al di là delle intenzioni, la tendenza al nosografismo naturalistico e testimoniando della forza trainante che le parole hanno in sé come portatrici di significati e valori altri da quello che è l’orizzonte intenzionale che le ha generate.
Uniformità dei criteri diagnostici. Oggi la distinzione di fondo fra psicosi, nevrosi e personalità psicopatiche si è imposta ovunque, ma spesso con notevoli differenze, generatrici di equivoci diagnostici, assai evidenti. Al fine di ovviare a tale grave inconveniente è stato ideato il Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM), sintesi di un accurato e prolungato lavoro di coordinazione e di valutazione critica di dati. A questo manuale fa riscontro, con qualche piccola modifica e in stesura più succinta, il glossario pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità (ICD, International Classification of mental and behavioural Disorders). Il manuale, disponibile in tutte le principali lingue per uniformare gradualmente i criteri diagnostici nei diversi paesi, ha determinato un notevole cambiamento nell’impostazione diagnostico-clinica, specie nell’America Settentrionale, soprattutto per quanto concerne la diagnosi di schizofrenia; è tuttavia ancora oggetto di numerose critiche per il suo eccessivo riduzionismo tassonomico e nosografico.
Una visione aggiornata della psicopatologia prende in considerazione il fatto che questa non è restata soltanto ancorata allo studio descrittivo e genetico (psicopatogenetico e psicosemiogenetico) dei sintomi ma ha anche allargato il suo campo di ricerca, utilizzando diversi tipi di approccio (scienze biologiche, antropologiche ecc.) con risonanze profonde nella valutazione (clinica e culturale) del sintomo, nell’ordinamento delle sindromi, nella critica della scarsa flessibilità delle nosologie tradizionali sottoposte a revisioni sovente radicali. Tutto ciò è stato reso possibile soprattutto dall’accumularsi di dati obiettivi della più diversa provenienza, dalla neurochimica cerebrale alla psicoetnologia, dall’elettrofisiologia all’antropologia, dalla cibernetica alle scienze religiose e morali. Proprio questa situazione ricca, sfaccettata, dinamica della psicopatologia consente di considerarla a pieno titolo ancora l’asse portante di tutte le discipline psichiatriche.
Mentre si è assistito a un moltiplicarsi di impostazioni teoretiche e di metodiche pratiche di ispirazione fondamentalmente psicoanalitica o, più genericamente, psicodinamica (di coppia, di famiglia, di gruppo) e di decondizionamento comportamentale, la psicofarmacologia, in costante sviluppo, ha soppiantato le altre terapie, provocando in modo quasi specifico la scomparsa dei sintomi più gravi e apportando miglioramenti anche nella cura dei casi cronici. Al tempo stesso si ha l’impressione che il poter disporre di farmaci efficaci abbia determinato non di rado un diminuito approfondimento dell’indagine psicopatologica del singolo, non sufficientemente compensata dallo studio biochimico dei processi psicofarmacologici e dei meccanismi d’azione delle varie sostanze psico- e neurotrope.
Rappresenta un ambito di fondamentale importanza teorica e pratica, collegato direttamente a quel vasto settore della clinica psichiatrica che studia e cura le numerosissime e frequenti sindromi psicopatologiche dipendenti da alterazioni anatomiche o funzionali del sistema nervoso centrale. Questa branca della p., di stampo prettamente medico, trae i suoi argomenti dall’anatomia e istologia patologiche (di cui è ben noto il contributo sostanziale allo studio degli stati demenziali, dei disturbi psichici conseguenti ai traumi cranici, alle intossicazioni, alle malattie infiammatorie e degenerative, ai tumori, all’epilessia), dagli effetti delle chemioterapie, dai risultati della neurochirurgia, da diversi dati della genetica e dai modelli generali forniti dalla neurofisiologia e dalla neurochimica, specie dei neurotrasmettitori e dei neurormoni. È un capitolo destinato a un’ulteriore, rapida espansione in rapporto all’estendersi delle conoscenze medico-biologiche e all’approfondirsi delle indagini sui legami tra eventi mentali ed eventi fisici nel sistema nervoso centrale.
L’apporto delle indagini psicologiche e psichiatriche effettuate sugli animali non può essere trascurato, in quanto si è rivelato molto fecondo, sia pure evidenziando il rischio sempre incombente della generalizzazione analogica: in tal senso è possibile parlare di una fiorente ‘p. sperimentale’. L’analisi dei substrati biochimici in rapporto alle risposte differenziate allo stress e dei substrati biofisiologici per i processi di fissazione e di regressione e per i processi mnemonici e di apprendimento, gli studi sui ritmi, le prospettive aperte dalle indagini sulle relazioni tra esperienza di deprivazione sensoriale e diminuzione del fattore dell’accrescimento nervoso consentono di intravedere prima, e precisare poi, correlazioni neuropsicologiche di estremo interesse, che sono documentabili fin dai primi mesi di vita extrauterina. Lo studio delle correlazioni mente-cervello e mente-persona costituirà la base scientifica della futura p., il fondamento della sua prassi, anche di quella maggiormente ancorata alla realtà sociale e storica dell’uomo.
Negli ultimi decenni del 20° sec. l’indirizzo fenomenologico ha lentamente condotto a una riformulazione globale delle tematiche di fondo della p. e a un modo radicalmente diverso di essere psichiatri, sia di fronte al sintomo sia di fronte alla persona che lo esprime. Vi è stato un vero e proprio salto di qualità: il superamento delle categorie riduttive biologistiche e psicologistiche; l’accesso al mondo dell’altro-da-sé, al mondo-della-vita (l’husserliana Lebenswelt), all’universo dei rapporti interpersonali come coessenziali alla realtà del singolo, prescindendo da giudizi clinici e da funzionalità operative. Tale approccio non intende invalidare né le categorie diagnostiche né l’atto clinico, purché con essi non si pretenda di cogliere l’altro nella sua realtà esistenziale. La p. dell’esistenza si considera l’ancella della p. clinica e intende a buon diritto rappresentare un sostegno reale della scienza medica psichiatrica, senza voler con ciò costituire la base gnoseologica dell’intero conoscere psichiatrico. Il fenomenologo, anche in p., si sforza di mettere fra parentesi la preoccupazione eziopatogenetica e il bisogno dell’ordinamento nosologico per poter entrare liberamente e senza impedimenta in un immediato rapporto cognitivo-empatico con le ‘cose’. La ricchezza qualitativa dell’atto fenomenologico, indipendente dalla conoscenza induttiva e causale, è indubbia, e si comprende come gli aspetti più originali della contestazione psichiatrica abbiano preso le loro mosse proprio da qui.
K. Jaspers fu, specie nella Psicologia delle visioni del mondo (1919), uno dei grandi precursori di questa p., e la sua Psicopatologia generale (1913), pietra d’angolo della moderna psico(pato)logia, ha educato almeno tre generazioni di psichiatri, contribuendo a preparare il terreno alla numerosa schiera di psicopatologi destinati a recepire e maturare l’influenza di E. Husserl e di M. Heidegger. Come ha mostrato L. Binswanger, il metodo fenomenologico favorisce in modo davvero singolare la ricostruzione e la comprensione del ‘mondo di significato’ del paziente. Esso consente il recupero del dispiegarsi intenzionale della vicenda del singolo e una continuità di senso delle sue vicissitudini, cioè un ordinamento strutturale significativo anche là dove lo psichiatra vecchio stampo vedrebbe solo frammenti di senso o addirittura il caos del senso. La messa in parentesi (non la negazione) del naturalismo psichiatrico comporta anzitutto un ‘voto di povertà’ in materia di classificazioni e di giudizi diagnostici, proprio sulla base della dipendenza del giudizio da criteri esistentivi e culturali.
Uno degli ambiti più fecondi dell’indirizzo fenomenologico in p. è quello costituito dall’indagine dei diversi mondi di vita (Lebenswelt), che tanto impegnò l’ultimo Husserl e, subito dopo, A. Schutz per il problema della social reality. L’analisi fenomenologica dei mondi vissuti rivela stili diversi di esistenza e illumina di luce nuova modalità di esperire (anche tradizionalmente psicopatologiche, per es. fobiche, maniacali, schizofreniche) quanto mai autentiche e ricche di rimandi al quotidiano piano coesistentivo.
L’indirizzo sociopsichiatrico ha assunto dimensioni sempre maggiori; esso si occupa del singolo nel suo rapporto interattivo con gli altri soggetti (a livello micro- e macrogruppale). Si è mostrato che la sociologia è in grado di fornire alla p. un valido aiuto per la comprensione e la classificazione degli stati psichici e dei comportamenti (anche abnormi o devianti) grazie alla reciprocità delle prospettive d’indagine: il collettivo, l’interpersonale e l’individuale, a tutti i livelli degli atteggiamenti e delle realtà sociali, tendono a integrarsi. La p. sociale sembra comunque aver superato l’errore di voler assorbire tutto il mentale nei piani della realtà sociale, dimenticando l’autonoma corrente dello psichismo individuale e cadendo così nell’errore di attribuire esclusivamente alla società l’origine della malattia mentale, quella che T.W. Adorno ha chiamato ‘l’ideologia dell’empirismo sociologico’. Non va infine dimenticato il grande merito di aver valorizzato lo studio epidemiologico e soprattutto lo studio della comunicazione e metacomunicazione fra singoli e fra gruppi, verbale e non verbale, tanto importante per le ricerche sulla psicogenesi intrafamiliare dei disturbi psichici (si pensi al ‘doppio legame’, la situazione paradossale ben descritta e indagata dalla scuola californiana di Palo Alto).
Un settore particolare della sociopsichiatria con finalità soprattutto preventive, ma caratterizzato anche da indubbi connotati terapeutici, è costituito dalla cosiddetta p. di comunità. Essa si occupa della formulazione e dell’applicazione di un definito programma di salute mentale a una data popolazione specificata funzionalmente o geograficamente. Pur basandosi sul modello medico, la p. di comunità utilizza volentieri criteri di salute pubblica per valutare i bisogni psichiatrici di una data popolazione, per identificare i fattori ambientali che contribuiscono alla formazione di disturbi psicosociali e per esaminarne gli effetti sul singolo e sul suo gruppo.
La p. è senza dubbio fra le tante discipline mediche e psicosociali quella che ha più punti di contatto con l’universo giuridico. Lo stato mentale di chi ha stipulato un contratto, redatto un testamento, celebrato un matrimonio, commesso un crimine, subito un trauma cranico o violenze, implica inevitabilmente il parere del consulente tecnico, cioè dello psichiatra, alla cui formulazione egli (se richiesto) è tenuto per legge. Gli ambiti dell’attività psichiatrico-forense sono andati sempre più espandendosi, anche per la tendenza giuridica ad avvalersi più spesso della consulenza tecnica (per es., nelle questioni relative ai minori e al diritto di famiglia). L’incapacità di agire, l’incapacità legale, quella naturale, quella giudiziale, l’interdizione, l’inabilitazione, l’infermità o la malattia, l’incapacità di intendere o di volere, come pure la pericolosità sociale e l’affidamento, hanno da sempre costituito e costituiscono altrettanti capitoli di grande importanza applicativa.
È progressivamente cresciuto l’interesse per gli aspetti di rilevanza etica nel campo della salute mentale. Dal campo strettamente concernente la sofferenza del paziente, la sua patologia, a quello delle dissonanze culturali e del coinvolgimento di mete sociali fondamentali, i problemi che interessano lo psichiatra sono molti e ricchi di implicazioni spesso fortemente contrastanti. Sono da ricordare le tematiche legate alla manipolazione fisica del cervello (psicochirurgia) e alle tecniche di condizionamento, gli aspetti della terapia sessuale e il delicato campo della sessualità nel rapporto paziente-terapeuta, il capitolo sul trattamento dell’omosessualità e del transessualismo, quello relativo alla pedofilia, e, soprattutto, la vasta e difficile tematica concernente il cosiddetto consenso informato. Ampia è l’attenzione rivolta all’utilizzo di farmaci che sopprimono la libido nei sexual offenders e alla delicatissima questione della deprofessionalizzazione dei servizi di salute, come pure fondamentali sono le implicazioni etiche del trattamento coatto della malattia mentale. Si fa più forte la consapevolezza della carenza di specificità del codice etico, mentre cresce la complessità di ogni normativa. Numerosi e pressanti sono i problemi afferenti al segreto professionale, specie nell’organizzazione sociolavorativa e assicurativa, al trattamento dei pazienti socialmente pericolosi, alle dimensioni etiche della p. infantile, della psicogeriatria, della ‘morte dignitosa’ e, soprattutto, della p. forense.