Ramo della farmacologia che studia l’attività dei farmaci sulle funzioni superiori del sistema nervoso in condizioni normali e patologiche. Il suo sviluppo è legato alla scoperta di un vasto gruppo di sostanze, sintetiche o estrattive, dotate di notevoli proprietà terapeutiche, e di altri farmaci, quali la dietilammide dell'acido lisergico e la psilocibina, che al contrario inducono un comportamento di tipo psicotico.
Il termine p. risale al 1920, ed è stato coniato dal farmacologo D. Macht in occasione di un’acuta descrizione degli effetti psichici della cocaina sui cani.
L’inizio della sperimentazione psicofarmacologica è antico; rientrano in questo campo il riconoscimento degli effetti euforizzanti del protossido d’azoto (1799), l’individuazione delle psicosi saturnine (1839), gli studi scientifici sul hashish (1845), l’opera del farmacologo tedesco Louis Lewin (1850-1929), autore di uno dei primi inventari delle droghe psicoattive, e la scoperta delle psicosi mescaliniche. La p. moderna ha inizio nel 1952, con la scoperta del primo farmaco neurolettico, la clorpromazina.
La p. costituisce un tipico esempio di materia interdisciplinare: supera i limiti della farmacologia e sfrutta acquisizioni e metodi della neurochimica, della neurofisiologia e della psicologia, essenzialmente di quella comportamentistica sperimentale. Caratteristica fondamentale della sperimentazione psicofarmacologica è l’accoppiamento dell’analisi dell’azione diretta del farmaco sul sistema nervoso con l’osservazione delle ripercussioni sul comportamento generale e su funzioni specifiche, con l’obiettivo d’individuare le possibili correlazioni tra evento biochimico centrale ed evento comportamentale, nei limiti di approssimazione imposti dallo stato attuale delle conoscenze sulle attività biochimiche nell’intimo del sistema nervoso. Le tecniche neurochimiche e neurofisiologiche permettono d’individuare il comportamento delle varie sostanze nei differenti distretti nervosi e, grazie alle possibilità dei micrometodi, persino a livello dei singoli neuroni e degli stessi neurotrasmettitori, con l’intento, per questi ultimi, di precisare su quale dei molteplici processi sinaptici agiscano e con quali modalità, quali siano le tappe del loro metabolismo e quale il senso della loro azione (se attivante o inibente) su particolari sistemi anatomici o biochimici.
Lo studio sul comportamento generale e su funzioni specifiche degli animali di laboratorio è realizzato con tecniche ispirate a quelle impiegate nelle indagini di psicologia sperimentale per saggiare l’attività motoria, la memoria e l’apprendimento, il tono emotivo e l’energia con cui vengono perseguiti scopi utili. Ulteriori elementi di giudizio si ricavano ricercando nelle sostanze in esperimento l’attitudine a svolgere un’azione protettiva da situazioni fisiopatologiche appositamente istituite, e la presenza di azioni particolari proprie di sostanze già ben riconosciute come psicoattive, nella presunzione che la comunanza di queste proprietà parziali significhi anche comunanza di azione terapeutica. Questa complessa procedura di laboratorio ha un valore puramente orientativo: permette di limitare la sperimentazione sull’uomo a sostanze che abbiano una fondata presunzione di successo.
Le prove sull’uomo in una fase preliminare concernono la conferma della non tossicità già stabilita sull’animale e i problemi relativi alle eventuali incompatibilità e agli effetti collaterali sui vari organi e apparati; in una fase più specialistica, mirano a raccogliere elementi orientativi sull’efficacia terapeutica nel presunto campo di applicazione: rientrano in quest’ordine di ricerche lo studio dell’attività bioelettrica encefalica mediante registrazioni in svariate condizioni sperimentali e il controllo, realizzato con prove standardizzate e di varia natura spesso coordinate in batterie di test, delle interferenze sulle funzioni neurovegetative (regolazione della pressione arteriosa, termoregolazione ecc.), sulle funzioni endocrine a vari livelli, sul tono della coscienza, sulla veglia e sul sonno, sulle varie prestazioni sensorie e psicomotorie, sui processi associativi e sulle prestazioni intellettive e concettuali.
Il controllo definitivo non può essere praticato che sui malati, ed è effettuato con particolari accorgimenti, intesi a ridurre al minimo l’interferenza dei fattori soggettivi d’ordine suggestivo e deve essere condotto su scala tale da permettere un’elaborazione statistica che garantisca da errori di apprezzamento che potrebbero essere indotti dalle fluttuazioni spontanee della fenomenologia psichiatrica.
Gli psicofarmaci, farmaci capaci d’influenzare l’attività psichica, normale e patologica, si dividono in sedativi, neurolettici, ansiolitici, antidepressivi.
I sedativi sono il gruppo di psicofarmaci più antico: comprendono gli ipnotici e i narcotici, e sono rappresentati principalmente dai barbiturici, dai derivati dell’oppio, dall’idrato di cloralio e dai bromuri.
I neurolettici sono chiamati anche antipsicotici e comprendono le fenotiazine, i tioxanteni, i butirrofenoni e le dibenzepine e la clozapina. Alla fine degli anni 1990 sono state introdotte altre molecole eterocicliche, come la pimozide o il risperidone, che hanno dimostrato di avere proprietà neurolettiche pur colpendo altri bersagli. Questi farmaci si differenziano tra loro per struttura chimica, cinetica ed effetti collaterali, ma hanno tutti un analogo meccanismo d’azione e simili proprietà farmacologiche e terapeutiche. Bloccano la funzionalità delle sinapsi dopamminergiche, soprattutto nelle regioni striatali e limbiche. Nelle zone striatali producono un’alterazione del controllo motorio, mentre nelle zone limbiche producono gli effetti antipsicotici. I farmaci neurolettici non sono sedativi, anche se alcuni di loro hanno tali proprietà, ma, inibendo le vie dopamminergiche, modificano in modo specifico alcune funzioni del cervello: riducono l’iniziativa, l’interesse per il mondo esterno, l’affettività e le emozioni, ma le capacità intellettive vengono in larga parte conservate. A dosi elevate possono provocare sedazione profonda e limitazione nei movimenti. Nei pazienti schizofrenici producono una diminuzione dei sintomi allucinatori e dei pensieri disorganizzati e incoerenti, aumentano la collaborazione con l’ambiente e attenuano l’aggressività comportamentale. Questi farmaci sono utili nel trattamento delle forme acute e croniche della schizofrenia e risultano attivi fin dalle prime settimane; sono anche utilizzati nella terapia di altre forme patologiche, come la fase maniacale della sindrome maniaco-depressiva.
Gli ansiolitici sono farmaci necessari nella terapia dell’ansia. L’ansia è un fenomeno generalmente positivo che contribuisce a mantenere un’appropriata reattività verso l’esterno, soprattutto in condizioni di emergenza e di stress, ma in alcuni casi e in alcuni individui i sintomi ansiosi non sono sopportabili, e generano sofferenza e incapacità relazionale. Il tentativo di alleviare l’ansia con l’uso di alcolici o sostanze stupefacenti non produce che una diversa percezione del fenomeno ansioso, senza tuttavia eliminarlo. La terapia dell’ansia ha inizio con la scoperta delle benzodiazepine; anche le successive molecole si rifanno sempre alla stessa struttura di base. Le benzodiazepine agiscono potenziando selettivamente l’azione del GABA, il più importante neurotrasmettitore inibitorio del sistema nervoso centrale, su alcuni recettori GABAergici. Oltre a un effetto ansiolitico, le benzodiazepine hanno attività anticonvulsivante (per questo sono usate in terapia come antiepilettici), attività ipnogena (sono usate anche come sonniferi) e attività di rilasciamento della muscolatura, ma a dosi molto elevate; si diversificano tra loro per la vita media, per alcune di poche ore, per altre di giorni. La scelta sulla benzodiazepina da somministrare dipende quindi dalla patologia: se, per es., vi è difficoltà a prendere sonno si userà un preparato a breve emivita, se si tratta di una terapia antiepilettica si adotterà un prodotto a lunga emivita. Le benzodiazepine hanno pochi effetti collaterali o tossici, ma divengono pericolose se prese in associazione con alcol o altre sostanze deprimenti il sistema nervoso centrale, in quanto vi è un reciproco effetto potenziante; esse danno tolleranza e dipendenza dopo un uso anche relativamente breve. Questo fa sì che la loro azione diminuisca nel tempo e che alla sospensione del trattamento si osservino fenomeni di astinenza, anche se meno gravi di quelli provocati dagli oppioidi. Negli anziani si assiste talvolta a una reazione paradossale con aumento della irritabilità e confusione mentale. I farmaci più recenti, come il buspirone, sono inibitori del recettore serotoninergico. I farmaci psicotropi non risolvono e non esauriscono il problema terapeutico, ma certamente sono un presidio importante e indispensabile per il successo della terapia.
La depressione è una malattia molto grave che dà una notevole sofferenza psichica e che può portare, nel 10-15% dei casi, a tentativi di suicidio; è una delle patologie più diffuse nella nostra società (ca. il 10% della popolazione ne soffre). L’effetto principale degli antidepressivi è quello di innalzare l’umore nel paziente depresso, mentre nella persona normale questo non avviene che in modo assai modesto. Tali farmaci raggiungono questo scopo aumentando l’efficienza della trasmissione adrenergica e serotoninergica nel sistema nervoso centrale.
Tra gli psicofarmaci vanno infine ricordati i sali di litio, il cui uso si è diffuso nella pratica clinica a partire dagli anni 1970, efficaci soprattutto come normotimici nelle crisi maniacali e nella psicosi maniaco-depressiva. Hanno attività psicotropa, inoltre, molte sostanze come le amfetamine, che determinano un effetto eccitatorio sulle funzioni psichiche superiori, più o meno marcato a seconda della dose assunta, gli psicodislettici (LSD, mescalina ecc.), che inducono alterazioni della percezione e allucinazioni, e le varie droghe d’abuso.