suicidio Il fatto, l’atto di togliersi deliberatamente la vita.
I giuristi romani accolsero la massima degli stoici che dichiarava lecito il s., ma lo punivano se risultava di pregiudizio ai privati (come nel caso del servo), alla repubblica (nel caso del militare), al fisco (quando il suicida voleva con il suo atto sottrarsi alle conseguenze penali di un misfatto che avrebbe comportato la confisca dei beni). Nel Medioevo la legislazione statutaria puniva il suicida con la confisca dei beni; ma la dottrina cercava di distinguere le cause che avevano indotto il suicida al suo atto, riallacciandosi alla casistica romana.
Nella moderna codificazione italiana, il s. non è incluso nel novero dei reati. Viene, invece, incriminato (art. 580 c.p., istigazione o aiuto al s.) colui che determina al s. una persona capace o ne rafforza il proposito stesso, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione. La pena prevista è la reclusione da 5 a 12 anni se il s. avviene, da 1 a 5 anni se dal tentativo di s. derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata è minore degli anni 18 o inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica sia pure per abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti. Se la persona è minore degli anni 14 o comunque è priva della capacità d’intendere e di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio. Diversa è l’ipotesi dell’omicidio del consenziente, prevista dall’art. 579 c.p., che commina la pena della reclusione da 6 a 15 anni.
L’atto suicida e la pulsione che lo sottende vengono abitualmente inscritti in una cornice di patologia. Essi possono avere origini molto diverse ma, pur presupponendo quasi sempre un grave indebolimento dell’istinto di conservazione o addirittura la sua inversione, eventualmente in rapporto con determinati tratti caratterologici, non possono essere inquadrati a priori nell’ambito di una malattia mentale o, comunque, di un disturbo psichico: si parla, in questi casi, di ‘ambiguità esistenziale’ del s. oppure ci si riferisce a s. rituali o per motivi d’onore o per sottrarsi a situazioni insopportabili (o ritenute tali). Nell’ambito delle malattie mentali propriamente dette il s. si verifica soprattutto nelle sindromi depressive, sia come frutto di lenta elaborazione interiore, sia come improvviso e imprevedibile raptus; si osserva anche nelle sindromi deliranti, specie persecutorie. Gli aspetti psicologici e psichiatrici del s. e del comportamento suicidario sono sempre più al centro dell’attenzione, anche per quanto concerne la prevenzione. In primo piano si mantiene tuttora la dimensione psicanalitica della psicopatogenesi del s., secondo la quale il s. viene considerato come il risultato di una caduta degli investimenti libidici e di un convergere di intense pulsioni aggressive verso un oggetto introiettato, prima amato e poi odiato (il noto concetto freudiano del s. come omicidio inconscio). Recenti teorie, psico- e sociodinamiche, tendono a rendere pluricausale l’approccio esplicativo del suicidio.
Molto frequente, e da valutarsi in modo diverso dal s. per malattia mentale, è anzitutto il s. da abuso di sostanze e poi il tentato s., cioè l’effettuazione di un tentativo di s. con mezzi per lo più inadeguati (per es., farmaci inoffensivi o in quantità insufficiente, palese intenzione dimostrativa); quest’ultimo viene ripetuto, e lo si osserva per lo più presso nevrotici, isterici, psicoreattivi; è inoltre molto più frequente del s. vero e proprio e occorre assai più spesso fra le donne, specie giovani. Negli ultimi decenni del 20° sec. è notevolmente aumentato il numero dei s. fra gli anziani, sia per un incremento della frequenza degli stati depressivi in questa fascia d’età, sia per il verificarsi di condizioni economiche e socio-culturali sfavorevoli. Non raro, tra gli strati professionali della popolazione, il s. da bilancio, come atto consapevole che suggella il fallimento di una vita o di una situazione o che mette fine a una malattia inguaribile. Anche qui si è lungi dall’ammissione concorde della presenza di una libertà razionale e affettiva che conduca a questa decisione.
Una forma da ricordare per l’aumento del suo riscontro è il s. allargato, cioè un s. preceduto dall’uccisione di un familiare amato; si verifica soprattutto nelle psicosi depressive endogene, e va distinto dall’omicidio con aggiunto s. (per es., negli sviluppi psicopatici di gelosia). Ugualmente da considerare il s. assistito, che costituisce ormai tema di importante dibattito per la salute pubblica e per le valutazioni etiche a esso connesse; tale forma di s., strettamente collegato all’eutanasia, consiste nella prestazione da parte del medico, su richiesta di un malato terminale, dei mezzi idonei a determinarne il decesso senza sofferenze. Di rilevanza anche teoretica è il s. collettivo, su base ideologica, carismatica o suggestiva di gruppo.
Per l’epidemiologia del s. va detto che le percentuali maggiori si osservano in Danimarca, Giappone, Svezia, Austria e che è evidente la tendenza al rapporto inverso fra s. e religiosità o struttura familiare integrata. Comunque si deve tenere presente che in ogni Paese il comportamento suicidario va visto in funzione dei valori culturali assunti nei confronti della vita. È stato inoltre osservato che, durante i periodi bellici, la frequenza dei casi di s. diminuisce nettamente. La profilassi, difficile compito della psichiatria sociale, tende ad attuarsi soprattutto nelle grandi città con centri di consultazione, di assistenza psicosociale, di aiuto telefonico. Malgrado gli sforzi finora compiuti, non sembra che il tasso di frequenza dei s. si sia abbassato; anzi, negli ultimi decenni del 20° sec. si è verificato un incremento, in particolare tra i giovani, anche in Italia.
L’interpretazione sociologica del s. è stata sempre di grande rilievo in quanto è inevitabile valutare l’intenzionalità dell’atto suicida alla luce dei condizionamenti socio-culturali operanti sugli individui e sui gruppi sociali. A questi stessi condizionamenti è necessario fare riferimento per spiegare i diversi atteggiamenti nei confronti del s. riscontrabili in diversi momenti storici e in diverse culture. Se in molti casi il s. è stato ed è considerato come un atto riprovevole, in altri casi è stato ed è tollerato o addirittura valutato positivamente. Questo atteggiamento ambivalente nei confronti del s., e quindi nei confronti della vita e della morte, è già riscontrabile nell’età classica. Se Platone condanna il s. come atto di illecita defezione dagli obblighi della vita terrena, gli stoici e i cinici lo esaltano come estrema testimonianza della raggiunta indifferenza per le cose del mondo e, quindi, di saggezza. Presso gli antichi, inoltre, è già presente l’esigenza di ricondurre le motivazioni individuali del s. alle istanze più generali derivanti dal costume sociale. I Romani, per es., attribuivano al s. un fondamentale carattere di onorabilità; di qui l’ammissione della liceità del s. stesso, qualora non recasse pregiudizio agli altri cittadini. La valutazione negativa del s. prende il sopravvento con l’affermazione del cristianesimo. Per quanto non vi siano nella Bibbia ebraica pronunciamenti espliciti, la tradizione ebraica lo condanna fermamente. Così il cristianesimo, che intende il comandamento di non uccidere anche nel senso di non uccidere sé stessi; è nota la sentenza di s. Agostino, che «chi uccide sé stesso uccide un uomo» (De civitate Dei 1, 20). Nella tradizione giuridica rabbinica la severità teorica della condanna è progressivamente mitigata e limitata da una complessa casistica.
Anche negli ordinamenti giuridici statuali il s. è stato a lungo considerato come reato, e conseguentemente punito con sanzioni che andavano dall’oltraggio del cadavere del suicida alla confisca dei beni. Soltanto nel Settecento la punibilità del s. è rimessa in discussione da filosofi e giuristi e, a partire dal 1791, essa non è più contemplata nella maggior parte delle legislazioni europee. La discussione avviata dagli Illuministi, l’enfasi posta dal Romanticismo sul tema della morte, la disponibilità di dati statistici, raccolti sistematicamente in molti Stati europei e negli USA già a partire dalla metà del 18° sec., pongono in primo piano nella sociologia del 19° sec. il problema del s., considerato non più come comportamento individuale oggetto di valutazione morale, ma come fenomeno sociale oggetto d’indagine scientifica. I primi organici tentativi di rilevare andamenti e tendenze costanti e regolari nei dati statistici sul s. sono stati compiuti da L.-A.-J. Quételet (Sur l’homme et le développement de ses facultés, ou Essai de statistique sociale, 1835), da E. Morselli (Il suicidio, 1879) e da É. Durkheim (Le suicide, 1897). Quest’ultimo, in particolare, si ripropone esplicitamente di risalire alle cause sociali del s., al di là delle eventuali cause immediate di natura psicologica, ponendo l’accento su variabili sociologiche complesse quali l’integrazione sociale e la solidarietà sociale. Durkheim individua tre principali tipi eziologici di s.: il s. egoistico (conseguenza di un eccesso d’individualismo nella società religiosa, domestica e politica), il s. altruistico (imposto da un alto livello d’integrazione sociale, in nome del superiore interesse della comunità), il s. anomico (indotto dal venir meno dell’ordine collettivo, cioè dell’insieme delle norme sociali, dei modelli di comportamento e dei valori fondanti una società). Alla luce dell’opera di Durkheim, le tesi sostenute nel primo Ottocento da J.-É.-D. Esquirol, e condivise tuttora da parte della psichiatria (ogni s. è frutto di patologia mentale), appaiono per lo meno unilaterali, ovvero semplicistiche e riduttive. Il s. viene ormai generalmente considerato, soprattutto dagli studiosi americani, un’istanza appresa dalla storia e dalla cultura; si suggerisce che alcuni individui sono più vulnerabili a incorporare l’idea del s. nel loro concetto di sé. Suicidologia Disciplina scientifica che si occupa sistematicamente della ricerca e della profilassi del s.; affluiscono in essa correnti psicopatologiche, psicologiche, socio-culturali, antropologiche. Suo fondatore viene considerato L. D. Dublin che, fin dagli anni 1930, ha costituito con i suoi studi la base per le ulteriori ricerche.