sociologia Scienza che ha per oggetto i fenomeni sociali indagati nelle loro cause, manifestazioni ed effetti, nei loro rapporti reciproci e in riferimento ad altri avvenimenti.
La nascita della s. come scienza autonoma è una vicenda concettuale che corrisponde ad alcune componenti significative della rivoluzione industriale compiutasi in Europa durante il 19° sec.: il progresso tecnico e materiale; la trasformazione dei modi di produzione e di organizzazione del lavoro; lo sviluppo delle scienze naturali; l’espansione della classe borghese e l’emergere nel suo seno di alcuni gruppi di intellettuali profondamente delusi dai fallimenti della Rivoluzione francese. La nuova scienza della società poteva consentire alle élite intellettuali interventi attivi sull’organizzazione della società stessa. Così è per gli esponenti del positivismo francese dell’Ottocento – con A. Comte e C.-H. de Saint Simon a capofila – e per gli esponenti del marxismo, le due scuole di pensiero che per prime si fecero interpreti di queste esigenze. Di de Saint Simon era l’idea che la società moderna fosse caratterizzata dall’industria e dalla produzione in genere; che gli scienziati e gli industriali dovessero diventare le classi dirigenti della nuova società; che un nuovo tipo di religione ‘laica’ e umanistica avrebbe dovuto garantire l’integrazione sociale; che si dovesse costruire una teoria generale a fondamento dell’unità delle conoscenze umane.
Queste idee furono ereditate e sviluppate da Comte nel progetto di una s. positiva – distinta, come in un manuale di fisica, tra statica e dinamica – che aveva come scopo quello di fissare le leggi oggettive dello sviluppo sociale, individuate in particolare nella legge del progresso e nella legge dei ‘tre stadi’ (teologico, metafisico e positivo) attraverso i quali si compie necessariamente l’evoluzione storica di ogni società. Alla società considerata alla stregua di un organismo naturale si ispira anche H. Spencer (Principles of sociology, 1883), che applica alla società il concetto di evoluzione tratto dalla biologia darwiniana. Le teorie dell’evoluzionismo sociologico ebbero un seguito particolare in Italia con le diverse correnti della s. giuridica e criminale (da R. Ardigò a G. Ferrero, da C. Lombroso a E. Ferri.). L’altra scuola importante nella fase che si potrebbe definire della protosociologia si richiama al pensiero di K. Marx, dal quale derivano alcune fondamentali categorie (divisione del lavoro, classi sociali, alienazione ecc.).
Dal punto di vista metodologico, la s. è subito segnata dalla contrapposizione fra positivismo e storicismo, ovvero fra la tendenza a ricondurre l’analisi dei fatti sociali al modello di spiegazione generalizzante proprio delle scienze naturali e la tendenza a costituirla come scienza a sé che, al pari della ricerca storiografica, è orientata piuttosto verso compiti interpretativi. Sul primo versante spicca l’opera di É. Durkheim, cui va il merito di aver fondato (o rifondato) la s. su basi di scienza empirica e come ricomposizione coerente di teoria e fatti; sul secondo si situano le riflessioni degli esponenti più rappresentativi della cosiddetta Scuola neokantiana: W. Dilthey, W. Windelband, H. Rickert, cui si deve il tentativo di sistematizzare una linea di demarcazione fra le scienze della natura e le scienze della cultura. Questa dicotomia è in parte ricomposta da Max Weber, per il quale la s. e le scienze sociali in genere, pur muovendosi sul terreno del sapere ontologico e privilegiando l’interpretazione dei fenomeni, non rinunciano al sapere nomologico, cioè agli strumenti della generalizzazione empirica e della causalità sotto forma di leggi.
Altri autori, sempre in Germania, contribuirono al progresso della s. di impianto storicista, approfondendo alcune categorie fondamentali della teoria sociologica: fra questi, F. Tönnies, G. Simmel, E. Troeltsch, A. Weber, M. Scheler, E. Gothein.
Nel corso del 20° sec., la s. si caratterizza per il passaggio e la continua oscillazione dagli estremi della grande teorizzazione agli estremi dell’empirismo astratto. La scuola americana dello struttural-funzionalismo di T. Parsons rappresenta la società come un sistema integrato di ruoli, strutture e funzioni. Tutta una generazione di sociologi – fra i quali G.C. Homans, E. Shils, N.J. Smelser – si ispireranno a questa impostazione, sia pure cercando di correggerne gli aspetti più problematici e controversi: R.K. Merton nell’intento di sostituire il funzionalismo assoluto di Parsons con un funzionalismo relativo, introduce l’idea che, accanto alle funzioni, possano esistere anche disfunzioni, accanto alle funzioni manifeste anche funzioni latenti nonché effetti non attesi nelle conseguenze delle azioni sociali. Infine, da un punto di vista metodologico, fornisce l’indicazione di teorie a medio raggio che possono servire meglio l’attitudine della s. come scienza empirica. Per un altro verso, la s. empirica della cosiddetta Scuola di Chicago si caratterizza per la ricerca quasi maniacale dei metodi quantitativi (P.F. Lazars;feld).
A porre con forza le ragioni dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali sono gli esponenti della scuola marginalista austriaca – già con C. Menger agli inizi del 20° sec., e poi con L. von Mises e F. von Hayek – che si contrappongono alla maggior parte delle teorie ereditate dalla tradizione sociologica. La Scuola di Francoforte di M. Horkheimer e T.W. Adorno rivendica, invece, contro le pretese dello scientismo, il primato di una s. critica orientata all’elaborazione di programmi non solo conoscitivi ma anche di azione politica, in particolare contro la razionalità del capitalismo maturo e i suoi strumenti tecnologici e consumistici di dominio sulle masse. Il movimento dei francofortesi accelera un processo di crisi, di identità e di consenso interna alla disciplina, causandone la frantumazione in una pluralità di metodi, approcci e teorie.
L’alternativa fra individualismo metodologico e olismo si riduce, a cavallo fra gli anni 1970-80, a una scelta fra diversi livelli di analisi, ovvero fra contesti di micro- e di macro;analisi. Dalla parte della microsociologia stanno le offerte di metodo e di analisi che si possono definire come s. della vita quotidiana (G.H. Mead, W.I. Thomas, E. Goffmann, H. Garfinkel, A.V. Cicourel, A. Shutz). Dalla parte della macrosociologia si collocano le teorie strutturaliste e sistemiche sulla società. La complessa architettura sociologica di N. Luhmann costituisce un esempio interessante di teoria sistemica costruita con i contributi di più teorie analitiche. Lo strutturalismo – dopo la fase classica degli anni 1960 – ha riproposto una lettura di una società asincronica e di una storia i cui contenuti di socialità sono dati dagli insiemi statici e relazionali di organizzazioni, simboli, forme discorsive assunti sia come modelli euristici, sia come oggetti reali di analisi (A. Giddens, M. Crozier, L.A. Coser).
Tre linee di tendenza caratterizzano lo sviluppo della s. contemporanea. La prima concerne la moltiplicazione dei paradigmi teorici e degli approcci metodologici. La seconda riguarda la progressiva espansione dei campi della ricerca empirica, in particolare della ricerca applicata, a scapito dell’elaborazione teorica generale. La terza, diretta conseguenza delle due precedenti, è rappresentata dalla frammentazione della disciplina in una pluralità di sottodiscipline che hanno acquisito nel tempo una sempre maggiore autonomia. Sono pochi i sociologi che nutrono ancora ambizioni teoriche così generali da comprendere sotto un unico mantello teorico le altre scienze sociali. Sembra inevitabile dunque che i confini tra la s. e le altre discipline (storia e psicologia sociale comprese) restino sfumati e per di più mutevoli nel tempo. Difficoltà di particolare rilievo si incontrano nel passare dal livello micro al livello macro dell’analisi sociologica. Nell’ampio quadro delle teorie macrosociologiche, il neofunzionalismo (➔ funzionalismo) ha formulato nuove ipotesi in diversi campi di studio quali quelli relativi alla cultura, al mutamento sociale e alla s. politica.
Uno dei tratti più rilevanti della s. contemporanea è rintracciabile nel notevole incremento della ricerca applicata, in continua espansione anche per corrispondere ai crescenti bisogni conoscitivi non solo delle autorità politiche e delle amministrazioni pubbliche, ma anche di grandi organizzazioni di interessi, di fondazioni con scopi filantropici o di promozione sociale.
Anche la frammentazione disciplinare della s., fenomeno certo non recente, è in progressiva espansione, con lo sviluppo di sottodiscipline sempre più autonome. Tale tendenza è inevitabile non solo perché riflette la più generale tendenza alla specializzazione dei saperi, quanto perché il campo dei possibili interessi di studio della s. è di fatto sterminato.
La nozione, introdotta da M. Weber nel 1917, e intesa in senso generale come indagine sui rapporti tra arte e società, si presenta complessa e problematica: va infatti operata una distinzione tra studi di s. della cultura, indagini sociologiche vere e proprie applicate alle professioni o ai criteri di valutazione artistici e l’ampio spettro di posizioni per le quali è preferibile la definizione di storia sociale dell’arte. Al primo caso sono riconducibili le posizioni di G. Lukács o T.W. Adorno, nel secondo vanno incluse ricerche come quelle di A. Boime, C. Charle, H.S. Becker, W. Kemp, P. Bourdieu. Nel terzo caso, e cioè nell’ambito degli studi storico-artistici, più che una vera e propria metodologia sociologica si deve rilevare una molteplicità di indirizzi di ricerca che mettono in causa il nesso arte-società all’interno di una consapevolezza, variamente sfumata, degli aspetti stilistici, simbolici, tecnici e comunicativi delle opere. Appartengono a questo ambito gli studi di J. Ruskin, G. Semper, R. Krautheimer, W. Benjamin, A. Hauser, F. Antal, F. Klingender.
All’approccio di questi autori si andò contrapponendo a partire dagli anni 1950 un nuovo concetto di storia sociale dell’arte, di cui sono interpreti E.H. Gombrich e altri studiosi di area anglosassone, che affronta le condizioni materiali in cui l’arte è stata prodotta e fruita, le strutture istituzionali, la committenza, il pubblico. Un’altra direzione di ricerca è quella che prende in esame le abitudini e le attese del pubblico, cercando di individuare le preferenze e le griglie culturali attraverso cui viene filtrata la produzione artistica (E. Panofsky, M. Schapiro, M. Baxandall, G. Romano). La corrente della gender critic ha posto in primo piano, con le ricerche di T.J. Clark, L. Mulvey e G. Pollock, la questione della differenza (di genere sessuale, di classe sociale ecc.) nella produzione e nella decodificazione dei messaggi artistici.
La definizione dell’ambito della s. della comunicazione si deve a H.D. Lasswell (1927), ed è esprimibile nella formula «chi dice cosa, a chi, con quali effetti». All’inizio degli anni 1950, E. Katz e P.F. Lazars;feld nell’ambito di una complessa ricerca sull’influenza personale nel flusso della comunicazione di massa, enunciarono in forma sistematica la teoria del flusso a due fasi, secondo cui il messaggio è veicolato dal mezzo al ‘leader d’opinione’ e da questo, una volta decodificato in coerenza con la subcultura del gruppo, riproposto ai ‘seguaci’. Questa teoria ha costituito il paradigma dominante nella s. della comunicazione per oltre vent’anni.
I sociologi della comunicazione in particolare ancora discutono se e in quale modo possano essere accertati effetti sociali di lungo periodo sui modelli di comportamento, sugli stili di vita, sui modi di sentire e di pensare del pubblico, in particolare di quello televisivo. Ci si è domandati, fra l’altro, quali effetti sociali siano ascrivibili alla programmazione evasiva, con risposte che hanno oscillato fra quella di P.F. Lazarsfeld e R.K. Merton (Mass communication, pop;ular taste and organized social action, 1948), secondo cui i messaggi evasivi darebbero luogo a una «disfunzione sociale narcotizzante», e quella, più rassicurante, di J.T. Klapper (The effects of mass communication, 1960), secondo cui «il materiale d’evasione tende con tutta probabilità a riconvalidare l’apatia sociale dell’apatico, ma non spegne il sacro fuoco di chi è socialmente attivo». Si è potuto accertare che l’introduzione della radio e soprattutto della televisione in zone rurali o isolate contribuisce a sconvolgere gerarchie di status consolidate da secoli; che i programmi televisivi violenti possono avere, in determinate circostanze, effetti di stimolo dell’aggressività adolescenziale e infantile; che tra gli effetti della prolungata esposizione dei bambini alla televisione c’è da un lato l’acquisizione di una precoce maturità cognitiva, dall’altro la formazione di una peculiare subcultura preadolescenziale.
Una crescente attenzione è stata dedicata ai modi della comunicazione politica. È individuabile una peculiare logica dei media che, nel caso della televisione, esige una sintassi lineare-visuale di eventi e una struttura narrativa elementare, rapida e incalzante, nella presentazione delle notizie. Ciò implica spettacolarità e un linguaggio che enfatizza i conflitti, vale a dire una grammatica incentrata sulla drammatizzazione.
Ramo della s. che si occupa dei rapporti tra conoscenza e realtà sociale. Nata in Germania, trova la sua più compiuta espressione nell’opera di K. Mannheim (specie in Ideologie und Utopie, 1929), che sostenne l’inevitabile influenza del contesto sociale su qualunque forma di pensiero e di conoscenza. In ambito statunitense le tematiche della s. della conoscenza sono state ulteriormente sviluppate da R.K. Merton, che ha tentato un’integrazione del punto di vista della s. della conoscenza con quello della s. strutturale-funzionale. Nella direzione di una s. della conoscenza che non si limiti a trattare il problema dell’ideologia ma affronti piuttosto il tema della conoscenza come tale, del senso comune anzitutto, nel suo rapporto con il contesto sociale, si sono mossi P.L. Berger e T. Luckmann. Un posto a parte in questo quadro occupa l’opera di P.A. Sorokin, la cui analisi ad ampio respiro sull’evoluzione e il mutamento dei sistemi socio-culturali può essere considerata una forma particolare di s. della conoscenza.
Connessa alla s. della conoscenza, la s. della scienza si propone di analizzare le condizioni sociali e culturali entro cui si sviluppa un particolare paradigma epistemologico nei diversi campi umani di esperienza e conoscenza.
Settore specializzato della s. interessato allo studio delle istituzioni giuridiche in rapporto alle funzioni sociali che queste sono designate ad assolvere e a quelle che di fatto assolvono. Si è sviluppata nel Novecento a opera di studiosi di formazione giuridica come R. von Jhering, E. Ehrlich, O. Wendell Holmes e R. Pound; Ehrlich, in particolare, distinguendo il ‘diritto vivente’ dalla giurisprudenza concettuale, sostenne la tesi che la fonte di ogni legge è da ricercarsi nella società piuttosto che nella legislazione o nell’autorità dello Stato. In Italia la disciplina nacque con La filosofia del diritto e la sociologia (1892) di D. Anzillotti, che attribuiva al sociologo un settore specifico di competenza, complementare a quello del filosofo del diritto, nella determinazione del ruolo sociale delle istituzioni giuridiche.
Malgrado gli sviluppi, restano irrisolte le fondamentali aporie della s. del diritto, denunciate dal sociologo francese G. Gurvitch, secondo cui manca ancora una definizione univoca di ‘diritto’ e sopravvivono, nella disciplina, approcci metodologicamente contrastanti e difficilmente sintetizzabili. Lo statunitense P. Selznickha ha individuato nell’insufficiente integrazione fra prospettiva giuridica e prospettiva propriamente sociologica il limite sostanziale della s. del diritto.
La s. criminale è la branca della s. che si occupa dei fenomeni della criminalità. Tra i suoi promotori emerge E. Ferri, il quale la concepì come «una scienza di osservazione positiva che si giova della psicologia, della statistica criminale, come del diritto penale e delle discipline carcerarie», una scienza sintetica che applica il metodo positivo allo studio del delitto, del delinquente e dell’ambiente in cui il delitto si manifesta.
Risulta dall’applicazione dei concetti, delle variabili e dei modelli esplicativi della s. al complesso di attività che riguarda la produzione, lo scambio e il consumo di beni e servizi. I contributi di maggiore rilevanza provengono da un lato dagli indirizzi del positivismo evoluzionistico e funzionalistico (H. Spencer, É. Durkheim), specialmente attraverso le riflessioni dedicate ai problemi della complessità, nella società moderna, della divisione e specializzazione del lavoro, dell’integrazione e dell’istituzionalizzazione normativa come base stessa delle relazioni di scambio; dall’altro lato dalla s. di matrice storicistica. In questo ambito, vanno ricordate le tesi di G. Simmel sull’imprescindibilità della dimensione economica in ogni contesto di relazioni sociali, le teorie di W. Sombart sul capitalismo moderno, e l’opera fondamentale di M. Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922) volta ad applicare la categoria dell’agire economico razionale alla genesi storica del capitalismo, attraverso l’etica protestante, e alla configurazione del modello burocratico.
La s. economica ha acquisito una propria identità disciplinare per merito soprattutto delle teorie sistemiche di scuola funzionalista, secondo le quali il sistema economico può essere considerato un sottosistema differenziato ma interdipendente dell’azione sociale (T. Parsons e N.J. Smelser, Economy and society, 1956). Per J. Schumpeter, economista con vasti interessi per la cultura sociologica, la s. economica non è che una scienza integrativa dell’analisi economica, che si occupa del modo in cui «le persone sono giunte a comportarsi come si comportano nei loro affari» (History of economic analysis, 1954).
Alla fine del 19° sec. e all’inizio del 20° la s. manifesta un’attenzione specifica verso i problemi interni dell’industria e dell’azienda industriale: caratteristiche e ruolo degli imprenditori (T. Veblen), funzione e posizione sociale dei lavoratori (S. Webb), problemi della divisione del lavoro sociale (É. Durkheim), ma soprattutto è M. Weber che può essere considerato il fondatore della s. dell’industria e dell’azienda, come promotore di un programma di ricerche «sulla scelta e l’adattamento dei lavoratori della grande industria» presso il Verein für Sozialpolitik (1907). Una svolta decisiva per gli studi di s. industriale fu determinata dagli esperimenti e dalle ricerche compiute in America da E.G. Mayo e dalla scuola da lui fondata presso il Department of industrial research dell’università di Harvard. Celebre la ricerca presso le officine Hawthorne (della Western Electric Company di Chicago, 1924-32). Dopo la Seconda guerra mondiale, il panorama degli sviluppi della s. industriale ha visto un progressivo estendersi di ricerche e di istituti specializzati.
Nei suoi sviluppi più recenti, la s. dell’industria tende a fondersi con la s. del lavoro nel cui campo è stata prodotta un’ampia letteratura relativa alle forme di organizzazione del lavoro e ai cambiamenti dovuti alle tecnologie produttive. Nell’ambito della s. del lavoro rientrano anche gli studi di s. delle relazioni industriali, con particolare riguardo ai conflitti di lavoro e alle forme di contrattazione.
Indirizzo di studi che ha il suo punto di riferimento nell’analisi del nesso letteratura-società. All’origine della riflessione sociologica sulla letteratura troviamo i contributi di quella critica romantica che riflette sui problemi della funzione nazionale della letteratura, dei suoi legami con il popolo e con le tradizioni popolari, e infine sul concetto di pubblico, problemi poi ripresi in ambito positivistico, in particolare da H.-A. Taine. La distinzione marxiana di struttura e sovrastruttura, insistendo sul radicamento delle ideologie nei rapporti di produzione, avvalora l’idea di una corrispondenza fra letteratura e sistema sociale. Da tale premessa si dipartono tuttavia indirizzi critici assai diversi, alcuni volti a individuare nelle opere il punto di vista di classe soprattutto per denunciare quelle non rispondenti ai supposti interessi della classe operaia; altri inclini a riconoscere una validità estetica solo alle opere raffiguranti la realtà sociale (realismo borghese e socialista).
Il campo d’indagine della s. della letteratura si è andato spostando nel tempo dall’osservazione delle opere letterarie allo studio di fattori come l’estrazione sociale, l’ambiente di formazione, l’entità e la provenienza del reddito degli scrittori (mecenatismo, secondo mestiere, professionalità ecc.), lo status sociale dell’autore, la sua subordinazione o autonomia, il sistema delle censure e delle ricompense.
Un lavoro approfondito è stato compiuto sulle modifiche apportate dal sistema di riproduzione e diffusione alla composizione e alle competenze del pubblico, ai modi di ricezione dell’opera, al progetto stesso dello scrittore. La produzione a larga diffusione che ha inizio nel primo Ottocento interrompe, secondo R. Escarpit, i precedenti circuiti autore-lettori in cui, per l’appartenenza alla medesima cerchia omogenea e intercomunicante, l’autore poteva facilmente conoscere riserve e apprezzamenti sull’opera. Il nuovo pubblico anonimo dei lettori non possiede più canali propri per esprimere bisogni e giudizi, in quanto il critico appartiene generalmente al medesimo gruppo di intellettuali cui fa capo l’autore. Di qui l’idea, avanzata da Escarpit, di un possibile compito della s. della letteratura, quello di trovare i modi per ristabilire un circuito a doppia direzione. Per conoscere il pubblico reale sono state condotte indagini sulla sua stratificazione sociale, sulle motivazioni di selezione, sui modi di lettura.
La s. della letteratura considera l’opera un fatto sociale non solo per quanto riguarda la genesi del testo, ma anche in quanto essa è percepita come letteratura da un’assise sociale (critici, accademie, cerchie più o meno estese e qualificate di lettori), in quanto viene fruita secondo codici di comunicazione, culturali e ideologici particolari. Da questo punto di vista viene respinta ogni tradizionale divisione a priori fra i grandi scrittori e i minori, fra i capolavori e la letteratura di massa o paraletteratura (in cui rientrano anche giornalismo di consumo, pubblicità ecc.), verso la quale si orientano gruppi consistenti di pubblico, e si tende a identificare gli ambiti sociali di diffusione dei vari generi e la misura della loro percezione letteraria.
Tra le ipotesi teoriche di s. della letteratura, quelle, opposte fra loro, del controllo sociale da parte dei gruppi egemoni (anche mediante i testi letterari) e della contestazione dell’assetto sociale vigente, o utopia dell’arte (T.W. Adorno, M. Horkheimer); ma vanno ricordate anche quelle sulla funzione di integrazione (coesione o socializzazione) dell’individuo al gruppo e dei gruppi nell’insieme sociale (O.D. Duncan); sulla progettazione e sperimentazione di ruoli sociali, di situazioni, di sentimenti, possibili se non attuali (J. Duvignaud).
A uno stadio più avanzato di verifica sul terreno della ricerca si presentano le tesi di L. Goldmann. L’opera letteraria esprimerebbe la visione del mondo di cui è portatore un gruppo o un aggregato sociale: di conseguenza costituirebbe l’elaborazione formale, fino alla massima coerenza, di elementi concettuali, sentimentali ecc., già presenti implicitamente nel corpo sociale.
Settore della s. che studia l’insieme delle relazioni deliberatamente scelte dagli individui e dei vincoli dati, necessari per raggiungere obiettivi specifici idonei a durare nel tempo con precise regole di funzionamento. Gli approcci con i quali può essere affrontato lo studio sociologico dell’organizzazione sono due: uno di tipo manageriale, l’altro di tipo strutturale. Il primo rileva gli effetti prodotti dall’ambiente sociale sull’organizzazione e il suo funzionamento; il secondo considera invece il ruolo che l’organizzazione svolge nei confronti del sistema sociale nel quale è inserita, dei suoi equilibri e dei suoi cambiamenti.
A questi diversi approcci possono ricondursi altrettanti indirizzi metodologici: quello proprio della scuola classica (scientific management) che si applica specialmente nell’ambito della s. industriale, e l’altro – proprio della scuola struttural-funzionalista – per il quale l’organizzazione non è che una funzione d’integrazione sociale che rende compatibili gli obiettivi degli individui con gli imperativi del sistema sociale (T. Parsons). L’analisi del fenomeno burocratico, come forma di organizzazione del potere politico, ha spostato sempre più l’attenzione della s. dell’organizzazione verso gli apparati dell’amministrazione pubblica, tanto da costituirla più specificamente come s. dell’amministrazione.
Vasto settore dell’indagine sociologica, le cui differenziazioni rispetto alla scienza della politica sono oggetto di discussioni e polemiche. Alle origini della s. politica contemporanea si collocano senza dubbio i classici studi sulle élites politiche di G. Mosca e R. Michels; un’altra importante fonte intellettuale è nell’opera di A. de Tocque;ville e, più tardi, nella critica sociale di T. Veblen e di C. Wright-Mills; fra i teorici sociali contemporanei hanno apportato significativi contributi T. Parsons, S.M. Lipset ed E. Shils, mentre il filone degli studi empirici sull’opinione pubblica (sondaggi d’opinione, ricerche sulla partecipazione politica ed elettorale, studi sugli effetti della propaganda) ha favorito, soprattutto negli Stati Uniti, lo sviluppo di un’attitudine empirica fra i sociologi della politica.
L’oggetto centrale della s. politica resta quello definito da M. Weber con l’elaborazione, ormai classica, della tipologia delle forme di potere (tradizionale, carismatico, burocratico-legale). La s. politica ha avuto uno sviluppo impetuoso non solo negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa occidentale, ma anche in numerosi paesi del Terzo mondo e in particolare nell’America latina. La protesta studentesca ha favorito lo sviluppo di studi sulla domanda di partecipazione di categorie sociali tradizionalmente destinate ad assumere posizioni prossime al centro della società; le emergenti istanze di partecipazione operaia hanno richiamato l’attenzione sul rapporto fra lavoro, gerarchie sociali e partecipazione; la decolonizzazione e i fermenti affioranti in diversi paesi del Terzo mondo hanno favorito lo sviluppo di studi comparativi sulle élites, la cultura politica e i meccanismi dei sistemi politici in società che si collocano a diversi livelli di sviluppo economico.
Tutto ciò postula la necessità – come suggerisce N.J. Smelser (Sociology and the other social sciences, 1967) – di tracciare una qualche linea di demarcazione fra s. politica e scienza politica con riguardo al quadro delle rispettive variabili esplicative: mentre la s. politica le sceglie nell’ambito delle condizioni socio-strutturali, la scienza politica le fissa nel complesso delle condizioni politico-strutturali.
Lo studio sociologico della religione si può sviluppare a diversi livelli: come indagine sulla religione quale problema centrale per la comprensione della società; come studio della relazione fra religione e altri fattori della vita sociale; come studio delle istituzioni, dei movimenti, dei ruoli religiosi ecc. I primi due livelli d’analisi corrispondono all’orientamento dei massimi rappresentanti di quella s. della religione che, fiorita agli inizi del 20° sec., può definirsi classica: É. Durkheim (teoria funzionale della religione), M. Weber e E. Troeltsch (teoria evolutiva e analisi dell’incidenza della religione sulla vita economica e sociale). Il pensiero di Durkheim è caratterizzato dalla progressiva enfasi sulle componenti normative di quella realtà sui generis che è la società e attribuisce un’importanza sempre maggiore alla religione, che diviene sinonimo del modello funzionale che struttura e integra la società. La teoria funzionale, però, se è soddisfacente per l’analisi delle società primitive, nelle quali il grado di differenziazione fra società e cultura è molto basso, lo è meno per l’analisi delle società altamente differenziate.
Acquisendo il punto di vista di una teoria evolutiva della società, la s. della religione si pone al secondo livello d’indagine e viene a considerare la religione, destituita dal suo ruolo centrale di fattore d’integrazione sociale, nel suo rapporto con gli altri fattori della vita sociale, per rendere conto della funzione modificatrice che essa può esercitare. In questa prospettiva si collocano i contributi di Weber e Troeltsch, che opponendosi alla convinzione marxista di una dipendenza non casuale della religione dalla struttura economica, ma anche alla visione totalizzante della filosofia della storia hegeliana, riconobbero nella religione una variabile indipendente della realtà sociale, capace di determinare o influenzare altri aspetti della medesima realtà e riconducibile nell’ambito motivazionale del singolo individuo in quanto rappresenta la risposta ultima alle esigenze di significato (Weber) o di valore (Troeltsch) che ne muovono l’azione. Nell’opera Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus (1905) Weber evidenziò l’influsso decisivo che la dottrina calvinista della predestinazione ebbe nella formazione del capitalismo moderno e dello spirito a esso soggiacente. Troeltsch, a sua volta, sviluppò un vasto studio delle interazioni fra alcune aree della vita sociale nel mondo cristiano (famiglia, economia, politica, insegnamento) alla luce del fattore religioso, mettendo in evidenza come in ognuna di queste aree il cristianesimo rivelasse due tendenze contraddittorie ma complementari: quella all’adeguamento e quella alla protesta (Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, 1912).
La teoria sociologica, in particolare con T. Parsons, ha cercato una sintesi fra teoria funzionale e teoria evolutiva della società, sganciandole dal preminente interesse religioso che esse avevano avuto nell’opera degli iniziatori. In seguito, la religione ha perso nella considerazione degli studiosi di s. quel posto centrale rispetto all’intera teoria sociale che aveva occupato in precedenza.
Nel corso del Novecento, si è affermato un approccio analitico e quantitativo al quale va ascritta l’ampia elaborazione di indagini collocabili al terzo livello di ricerca inizialmente ricordato, e cioè lo studio sul campo di circoscritti fatti religiosi: ruoli, movimenti, istituzioni, pratica ecc. Nota dominante e ricorrente delle attuali ricerche di s. della religione è l’attenzione all’impatto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione sulla pratica religiosa e sulla religiosità in genere; le ricerche evidenziano, generalmente, l’effetto secolarizzatore delle condizioni di vita comportate dalla civiltà industriale. Altri temi rilevanti sono l’affermarsi di forme di religiosità laica o di religione civile, e il ritorno o la moda di antiche forme di religiosità.
Un tentativo di restituire alla religione un posto centrale nell’indagine sociologica è stato operato da P.L. Berger e T. Luckmann, che hanno dato vita a una consistente opera teorica connettendo la s. della religione alla s. della conoscenza.
Settori specialistici della s. che hanno come oggetto di analisi le condizioni di vita sociale relative, rispettivamente, agli agglomerati urbani e alle comunità agricole. Tra i campi di applicazione attuali: il problema della stratificazione di classe, i flussi migratori interni, i fenomeni di conurbamento, il localismo, la modernizzazione, la famiglia, l’industrializzazione, la terziarizzazione ecc.
S. del genere Settore che si è sviluppato sotto la spinta dei movimenti femministi e nell’ambito del quale è stata prodotta una mole considerevole di ricerche, con un approccio storico-comparativo, sul rapporto maschile-femminile.
La s. della famiglia è diventata di attualità soprattutto perché la famiglia costituisce sempre più spesso l’unità di riferimento delle politiche sociali del welfare.
Anche la s. della salute e della medicina ha avuto un certo sviluppo in relazione all’espansione e alla crisi dei sistemi sanitari pubblici.
La s. del tempo è disciplina relativamente recente alla quale ha dato un contributo teorico importante N. Elias; si è pure sviluppato un consistente filone di ricerca empirica sugli usi del tempo e sull’organizzazione spazio-temporale della vita sociale.
Una posizione di rilievo, benché ancora minoritaria, è occupata dalla s. storica. Vero è che la s. rimane prevalentemente ‘generalizzante’ e la storiografia procede piuttosto in senso ‘individualizzante’, tuttavia per i sostenitori dell’approccio storico-sociologico i due orientamenti sono da intendere in modo relativo. Se non vuole essere una pura narrazione di fatti, la storiografia non può fare a meno di utilizzare un apparato teorico-concettuale e la s., se non vuole costruire astratti edifici teorici, non può fare a meno di collocare i propri enunciati in un determinato contesto spazio-temporale.