Ciò che è connesso, più o meno intimamente, con la divinità, con la religione e con i suoi misteri, e perciò impone un particolare atteggiamento di riverenza e di venerazione (contrapposto in genere a profano).
Il concetto di s. è fondamentale nello studio delle religioni, per quanto esso sia indefinibile, salvo nella sua contrapposizione al profano: s. è, infatti, tutto ciò che non è profano. Quali che siano i termini che nelle varie lingue e nell’ambito delle varie civiltà corrispondono più o meno al nostro termine s., e quali che siano le peculiarità che distinguono il s. di una religione da quello di un’altra, il s., e quindi la distinzione tra s. e profano, sono alla base di tutte le religioni, anzi rappresentano l’elemento fondamentale costitutivo della religione come tale.
Mentre il concetto del s. è indefinibile, la realtà che esso esprime si presta a uno studio fenomenologico. Un tale studio è stato intrapreso da R. Otto, il quale mettendo a fuoco il problema del s. volle affermare il carattere completamente autonomo (cioè non riducibile a categorie razionali né morali) del fenomeno religioso, fondando la sua analisi del s. soltanto sulle esperienze religiose ebraica, cristiana e indiana. La fenomenologia del s. deve, invece, mirare a cogliere anzitutto quei caratteri che contraddistinguono il fenomeno in tutte le sue più varie formulazioni culturali. La sacralità non si presenta infatti mai in modo indipendente da qualunque veicolo: tutt’al più assume forma di divinità (spirito o altra forma di potenza extra-umana). Uno dei caratteri più generali del s. consiste nel fatto che esso appare sempre come una qualità che può essere propria delle più varie cose: di luoghi (il luogo s., come per es., i templi, i santuari naturali, si distingue dal luogo profano da cui spesso è delimitato), di periodi di tempo (per es., le feste che con il loro carattere si contrappongono ai giorni comuni), di azioni (per es., il rito), di testi pronunciati, narrati o scritti (formule rituali, miti, scritture s.), di persone (per es., il re divino, certi tipi di sacerdoti, monaci ecc.), di oggetti (feticci, strumenti rituali ecc.). In tutti questi casi la qualità di s. ha per effetto di richiedere un comportamento umano particolare, differente cioè dal comportamento di fronte allo stesso genere di cose, ma prive di sacralità: a un luogo s. si accede, e vi si rimane, in determinate condizioni (per es., a piedi nudi, a capo scoperto, in silenzio ecc.); nel tempo s. si sospendono le attività profane (per es., il lavoro, la pulizia, il mangiare ecc.); un racconto s., cioè un mito, o una formula rituale, si narra in determinate occasioni (per es., di notte, prima della mietitura ecc.); e in determinate forme, di fronte a una persona s. sono obbligatorie certe cose (per es., prosternazione), proibite altre (per es., toccarla) ecc.
Questi obblighi e divieti particolari trovano corrispondenza nella convinzione che la sacralità significhi o comporti una particolare potenza nelle cose o persone che ne sono investite: potenza che può essere del tutto indefinita e impersonale (➔ mana), oppure può essere concepita come derivata da un essere personale (per es., divinità) che la conferisce a esse. Tale potenza può manifestarsi in senso positivo (in luoghi s. si ottengono guarigioni, le azioni s. promuovono la fertilità ecc.) ma, se il comportamento richiesto viene violato, si manifesta in modo negativo: una delle forme elementari del s. è il tabu (➔), la cui infrazione provoca conseguenze deleterie; queste sono concepite nella maggior parte delle religioni primitive come automatiche e derivanti dalla carica di sacralità inerente all’oggetto dell’interdizione, senza riguardo nemmeno all’intenzionalità dell’infrazione (chi mangia senza saperlo cibi proibiti, per es. il resto di un pasto del re, muore); nelle religioni interiorizzate, invece, assumono carattere di punizione divina e si limitano alle infrazioni volontarie. Per queste opposte maniere di esplicare la propria potenza, il s. è sempre ambivalente (da cui il doppio significato, per es., del lat. sacer «sacro» e «maledetto»), venerando e temuto, benefico e pericoloso.
Per il soggetto religioso, nell’ambito di qualsiasi religione, gli effetti del s. sono evidenti e non si pone il problema delle sue origini o cause. Diversa è la situazione per gli studi storico-religiosi, che invece indagano la ragion d’essere del fenomeno, problema che equivale a quello dell’origine delle religioni. Anche per questo problema è la fenomenologia del s. che offre il punto di partenza. Osservando le cose (luoghi, tempi, persone ecc.) cui nelle varie religioni è attribuito un carattere s., si può notare che in molti casi esse hanno alcune qualità eccezionali o preminenti: luogo s. è facilmente un monte, un bosco, un fiume, come elemento dominante dell’ambiente; nel tempo, facilmente diventano feste i momenti di cambiamento di stagione, i solstizi, gli equinozi o i momenti salienti della vita economica (semina, mietitura ecc.); tra le persone, quelle di dominante posizione (re) o di singolari capacità (veggenti, guaritori ecc.) possono essere considerate s., e così via. In tali casi è chiaro che l’emozione prodotta da fenomeni eccezionali è tra le fonti dell’esperienza del s.: ma, mentre l’esperienza stessa non si esaurisce nell’emozione, comprendendo invece la reazione attiva della coscienza che la organizza, d’altra parte la fenomenologia del s. offre casi in cui dietro la sacralità attribuita alle cose non si scorge alcun fondamento emotivo, bensì unicamente l’intento umano di attuare una separazione tra s. e profano: gli Indiani vedici, come pure gli antichi Romani, costituivano i loro luoghi s. indipendentemente dall’ambiente naturale, mediante inaugurazione, e un simile conferimento di sacralità può osservarsi in tutte le sfere del s. (feste promulgate, persone consacrate ecc.).
Restando sempre nel campo della fenomenologia, bisogna inoltre osservare che la sacralità può derivare alle cose anche semplicemente dalla loro antichità e dal carattere tradizionale del loro uso: così nei riti si adopereranno oggetti di pietra, più antichi di quelli di metallo, cereali di una specie più antica di quella comunemente in uso, si accenderà il fuoco mediante frizione ecc. Ogni teoria del s. deve quindi tenere conto di questi e simili dati fenomenologici. A partire dagli studi di C. Lévi-Strauss sulla nozione di mana, però, la ricerca antropologica ha sempre più evidenziato come il concetto di s. sia soprattutto una costruzione delle scienze religiose occidentali e di alcune tradizioni religiose, per chiedersi infine se tale concetto sia ancor oggi utilizzabile nell’antropologia contemporanea.
Musica s. Locuzione con cui si definiscono tre tipi di composizioni musicali: quelle specificamente destinate alle funzioni liturgiche; quelle di intento devozionale e spirituale, ma non rigidamente comprese nella liturgia; quelle di argomento religioso ma destinate a un’esecuzione concertistica. Questa distinzione, un tempo molto rigida, si è venuta sfumando. Appare tuttavia ancora chiaro il senso tipicamente liturgico del canto gregoriano e delle antiche messe polifoniche, anche se oggi si possono ascoltare anche in sala da concerto; altrettanto chiaro è il valore devozionale, ma non liturgico, dell’oratorio, della lauda, della cantata spirituale. Infine, soprattutto nell’Ottocento si è fatto un grande uso di messe, requiem, Te Deum e altre composizioni, per voci e strumenti, specificamente destinate al consumo nei teatri e nelle sale da concerto. È da notare poi che, nell’ambito della liturgia cattolia, dopo il Concilio Vaticano II, molte musiche non liturgiche hanno trovato posto nelle funzioni.
Guerre s. Nell’antica Grecia, ogni conflitto volto a difendere l’incolumità o a vendicare la violazione del santuario di Apollo Delfico. In tale guerra, promulgata dal concilio dei membri dell’anfizionia (➔ Anfizione), sotto i vari pretesti si celavano le mire degli Stati al controllo politico dell’oracolo di Delfi. Nella prima guerra s., o guerra di Crisa (inizi 6° sec. a.C.) gli abitanti di Delfi si ribellarono alla dipendenza da Crisa, capoluogo della Focide, e appoggiati da Tessali, Ateniesi e Sicioni, la distrussero; in ricordo della vittoria furono istituiti a Delfi i giochi pitici (582 a.C.). La seconda guerra s. (448 ca.) scoppiò dopo che i Focesi ottennero dagli alleati Ateniesi autorità e giurisdizione sul tempio di Apollo; gli abitanti di Delfi riconquistarono l’autonomia dopo la sconfitta ateniese a Coronea (447). La terza guerra s. (356-46) esplose quando gli strateghi Filomelo e Onomarco, per una multa imposta ai Focesi dal consiglio anfizionico, dove Tebe primeggiava, occuparono il tempio di Delfi, e si allearono con Sparta e Atene che tentava di abbattere l’egemonia tebana. Morti Filomelo nella battaglia di Neon (355) e Onomarco ai campi di Croco (353) combattendo contro Filippo II di Macedonia, che si era inserito nella contesa per penetrare nella Grecia centrale, le ostilità proseguirono con alterna fortuna sotto la guida dei focesi Faillo e Faleco, finché quest’ultimo patteggiò la resa. Il consiglio anfizionico escluse i Focesi dall’anfizionia, trasferendo a Filippo i due voti di cui disponevano. La quarta guerra s. (340-38) fu mossa da Filippo contro Anfissa, capitale dela Locride, accusata di aver contravvenuto all’obbligo di lasciare incolta la piana di Crisa: un pretesto per il macedone per penetrare ulteriormente in Grecia. Con la distruzione di Anfissa il conflitto si allargò; la battaglia decisiva presso Cheronea (338), fra le forze di Atene e Tebe, coalizzate in difesa dei locresi, e Filippo, si concluse con la vittoria di quest’ultimo e l’imposizione su tutta la Grecia della supremazia macedone. Guerre s. furono poi quelle combattute nel 289 a.C. da Demetrio Poliorcete e dieci anni dopo da Areo I di Sparta contro gli Etoli che occupavano il santuario delfico.