Il complesso di norme che regola lo svolgimento di un’azione sacrale, le cerimonie di un culto religioso. Suo connotato essenziale è l’imprescindibilità da un ordinamento preesistente alle singole azioni sacre; diversamente si possono avere manifestazioni soggettive di religiosità, non riti.
Etimologicamente il termine r. discende dal sanscr. r̥tà-, che è concetto fondamentale della religione vedica, significando l’ordine cui devono conformarsi sia il cosmo sia la società sia l’individuo; a esso si conforma evidentemente anche l’azione sacra, mentre deviando da esso rischierebbe di rompere l’ordine, provocando conseguenze dannose. Una tale concezione del r. non si limita ai popoli di lingua indoeuropea, ma, con diverse formulazioni e accentuazioni, si ritrova in quasi tutte le religioni. Quale che sia l’efficacia che si richiede da un’azione sacra, essa dipende dall’esecuzione ineccepibile, aderente al rito. Sul r. può vegliare l’intera comunità o, secondo i casi, quella dei maschi adulti (nelle società in cui le tradizioni vengono trasmesse oralmente in occasione delle iniziazioni tribali) o determinate categorie sacerdotali; esso può esser conservato, infine, anche in libri rituali.
Esistono casi in cui le azioni sacre non richiedono esecutori speciali (sacerdoti), ma il controllo del r. è affidato ugualmente a precise categorie di persone: così, per es., nell’antica religione romana sia i magistrati dello Stato, sia i privati potevano sacrificare, ma quanto veniva ritenuto r. era fissato dai pontefici che, del resto, controllavano anche l’operato degli altri sacerdoti particolari. Il r. può determinare il tempo, il luogo, le persone, il costume, gli oggetti adoperati, i singoli gesti e parole ecc., dell’azione sacra.
Il r. può decadere soprattutto per due specie di processi storici: con il sopravvento di una nuova religione (per es., del cristianesimo presso i popoli pagani) i r. della religione precedente si conservano in forma di semplici usanze popolari; ovvero, con una crescente interiorizzazione della religiosità, essi tendono a essere considerati o puramente simbolici o mere esteriorità e possono finire per diventare pratiche superstiziose.
Quando si parla di una tipologia o classificazione dei r., s’intendono le azioni sacre stesse; queste comprendono naturalmente oltre all’azione strettamente intesa, cioè i gesti o movimenti (per es., sacrificio, processione ecc.), anche le parole da pronunciarsi (formule, invocazioni, preghiere). Si è voluto distinguere (É. Durkheim) r. positivi (che mirerebbero a consolidare la coesione del gruppo) e r. negativi (che si fonderebbero sulla separazione, sull’esclusione del profano dal sacro); oppure r. magici, tendenti cioè a una efficacia automatica, e r. religiosi, rivolti a esseri superiori con lo scopo di indurli ad agire nel senso desiderato; dal punto di vista puramente formale si distingue tra r. orali e r. manuali.
Secondo lo scopo del r. si può parlare di r. di passaggio, al cui interno particolare importanza hanno quelli di iniziazione e di Capodanno, di partecipazione (preghiere, sacrifici, consacrazione), di propiziazione, di purificazione, di regalità, connessi spesso a concezioni di regalità sacra, di inversione e di ribellione, di rituali funerari legati alla celebrazione della morte.
Punto nodale per l’interpretazione del r. restano ancora oggi le riflessioni formulate a suo tempo da Durkheim, a partire dalle quali si sono poi sviluppate gran parte delle successive interpretazioni. Contrapponendosi alle tesi ‘intellettualiste’ sostenute da J.G. Frazer e E.B. Tylor, che vedevano nelle credenze magico-rituali forme erronee di conoscenza, e nel r. un’azione tecnica inefficace e sostanzialmente illusoria, Durkheim, in linea con W. Robertson-Smith, ritiene che rituali e credenze a essi associate non servano a soddisfare bisogni teorici, intellettuali, ma necessità di tipo pratico, morale e sociale. Per Durkheim il rituale capace di determinare stati di effervescenza psichica collettiva è un meccanismo fondamentale per rinforzare il sentimento di identità di un gruppo e, dunque, la sua integrazione sociale. A partire dagli anni 1950 si sono ricollegati a Durkheim tanto l’approccio funzionalistico di A.R. Radcliffe-Brown, che tende a ridurre il significato di un’azione rituale alla relazione sociale che un dato r. deve avere, quanto il superamento dello stesso funzionalismo da parte di altri studiosi britannici, in particolare M. Gluckman e V. Turner, che sottolineano come il r. sia un meccanismo in grado di riprodurre un equilibrio sociale in situazioni controllate di conflitto.
Negli anni 1970 una delle teorie antropologiche più complesse sul r. è stata elaborata da Turner, analizzando i problemi legati alla comprensione dei molteplici significati attribuibili all’azione rituale e individuandone tre diverse possibilità di significazione: un significato esegetico legato all’intera protezione fornita dagli attori sociali; un significato operazionale, che deriva dall’uso di un simbolo all’interno di un sistema di azioni rituali; un significato posizionale, connesso con la posizione di un gesto o azione all’interno di un sistema rituale, e con le sue relazioni con azioni analoghe. Il sistema rituale, per Turner, serve a mantenere l’equilibrio sociale e a regolamentare i conflitti. In particolare, nel r. vengono rappresentati e drammatizzati conflitti strutturali dell’ordine sociale, altrimenti irrisolvibili sul piano formativo e giuridico.
Qualche anno più tardi G. Lewis, in polemica con Turner, rifiutò l’idea che il r. possa avere significati, e che dunque abbia una valenza comunicativa: i gesti rituali sono semplici indici, sintomi, forme espressive che riflettono stimoli non solo cognitivi, ma soprattutto emozionali, sensibili, fisiologici, difficilmente esplicitabili attraverso il linguaggio parlato. Per Lewis sarebbe quindi arbitrario pensare a piani nascosti, inconsapevoli dei significati di un r., interpretabili solo da parte di uno studioso esterno. Un altro filone di studi (G. Bateson, E. De Martino, M. Bloch e C. Severi) tende a riflettere sui meccanismi psicologici e ontologici che sono alla base del funzionamento del r., mentre altre prospettive sono quelle che sottolineano il carattere creativo e innovativo dell’azione rituale, considerata come un modo di agire che si svolge all’interno di uno spazio operativo e interattivo dove gli attori sociali possono far fronte, in maniera cognitivamente e socialmente controllata, a esigenze psicologiche, esistenziali e sociali (V. Valeri). Al contrario, autori quali, per es., Bloch sottolineano come il r. riesca a fornire una cornice formale in grado di irrigidire e controllare i contenuti dell’azione umana e, dunque, capace di frenarne il mutamento dei significati nel tempo. Se nel primo caso sono l’interazione quotidiana e la dimensione individuale a essere sottolineate, nella seconda prospettiva i rapporti tra r., storia e potere divengono temi ineludibili.
Nella Chiesa cattolica il r. è, in senso proprio, la prassi secondo la quale si celebrano la Messa, o Cena del Signore, i Sacramenti e i Sacramentali, l’Ufficio divino, e si compiono le altre azioni liturgiche che caratterizzano i vari tempi dell’anno. Esso è determinato da norme introdotte originariamente per via di consuetudine e successivamente fissate nei libri liturgici approvati dalla sede apostolica. In senso più largo il termine indica l’intero ordinamento della liturgia, comprendente la distribuzione delle feste nel calendario e il loro grado di solennità.
Ogni fedele cristiano appartiene a un r. determinato; l’appartenenza all’uno piuttosto che all’altro r. non è elettiva per i singoli, ma determinata da precise norme di diritto canonico; in pratica, per la quasi totalità dei casi, ciascuno appartiene al r. dei genitori. Parimenti, il cambiamento di r. non è facoltativo: fatta eccezione per la donna che sposa un uomo di r. diverso, si richiede il permesso esplicito della Santa Sede. Tuttavia ai singoli fedeli è sempre lecito ricevere i sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia in un r. diverso dal proprio.
La disciplina e la vigilanza sui r. orientali è affidata alla Congregazione per le Chiese orientali, quella dei r. latini alla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.