Atto rituale attraverso il quale si dedica un oggetto o un animale o un essere umano a un’entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana, come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio.
Il s. è di centrale importanza nella maggior parte delle religioni; la sua definizione è difficile, in quanto con il termine si indicano usualmente riti di diversa natura e finalità, affini solo sotto certi aspetti. Ciò che accomuna tutti i generi possibili del s. è il trasferimento di un oggetto inanimato o di un essere animato dalla sfera del profano in quella del sacro; ma questa operazione (consacrazione) è soltanto una condizione del s. che per lo più implica anche la distruzione o la consumazione dell’oggetto o dell’essere sacrificato, atto concepito come passaggio di questo nella proprietà della divinità, o, comunque, di potenze venerate o temute. Preso in questo senso e con la consapevolezza del rischio di generalizzare, il s. avrebbe come presupposti una persona (o gruppo) sacrificante, un oggetto (offerta) o essere (vittima) da sacrificare, un rito del trasferimento di quest’ultimo, mediante distruzione, consumazione o abbandono dell’oggetto in proprietà di un nuovo destinatario di natura non profana e, appunto, una qualsiasi concezione di esseri ‘potenti’, ‘superiori’ e ‘sovrumani’.
Gli studi scientifici sul significato del s. sono iniziati dalla comparazione di usi rituali, empiricamente considerati come analoghi, delle varie società. Per E.B. Tylor, iniziatore della comparazione etnologica, fondamento del s. è l’antropomorfismo degli dei: come quando si vuol guadagnare il favore di una persona potente, le si presentano doni, così anche agli dei concepiti antropomorficamente si offrono s. per ottenere la loro benevolenza o attutire la loro contrarietà. Al principio del do ut des risalirebbe anche il s. preventivo come il s. di fondazione o i s. offerti alla vigilia di imprese rischiose. In un’ottica evoluzionistica, oggi soggetta a critiche, da questo concetto affaristico del s. si sarebbe sviluppata l’idea del s. come omaggio e, più tardi ancora, come atto di rinuncia volontaria.
Con la formazione della teoria del preanimismo (➔), anche la concezione del s. subì rilevanti modifiche. Gli studiosi misero in rilievo il fatto che esistono s. che non presuppongono affatto un’idea antropomorfa del destinatario. L’essenza del s. non sarebbe dunque un dono per ottenere la ricompensa, ma un’operazione magica intenta ad agire sulle potenze impersonali. Nel periodo in cui si considerava il totemismo come una tappa obbligata dell’evoluzione religiosa, W. Robertson Smith formulò la teoria (successivamente accettata da S. Reinach, da É. Durkheim e altri), secondo cui le origini del s. si trovavano nella comunione totemica: lo scopo originario del s. sarebbe stato non già il trasferimento di forza all’essere venerato, ma l’assorbimento, da parte dell’uomo, delle potenze superiori, mediante l’ingerimento della vittima identificata con gli esseri superiori. Per J.G. Frazer, che in principio aderì alla tesi di Robertson Smith, mentre dopo distinse dal s. di comunione il s. magico, si trattava dell’uccisione rituale dello spirito (o Dio) della vegetazione, incarnato ora nel re, ora in un animale o in altri esseri, come condizione dell’annuale rinnovamento della fecondità.
Più tardi, alla concezione razionalistica e utilitaria dell’evoluzione subentrarono altre interpretazioni del sacrificio. Per H.-P.-E. Hubert e M. Mauss la funzione originale del s. sarebbe stata quella di modificare lo stato della persona o gruppo che lo compiva, attraverso la mediazione della vittima. La scuola storico-culturale sostiene che la prima forma del s. è quella del s. primiziale; suo fondamento è il dono, non tanto nel senso materiale (spesso l’offerta è esigua, o simbolica), quanto come riconoscimento del diritto di proprietà della divinità sul creato e della posizione di sudditanza dell’uomo che è soltanto usufruttuario dei beni messigli a disposizione dal creatore. Per G. van der Leeuw, intento essenziale del s. è di creare un rapporto tra offerente e ricevente; ogni s. è parte dell’offerente, di modo che, accettato, porta a una comunione tra l’uomo e la potenza superiore; perciò ogni s. sarebbe un sacramento. Per e J.-P. Vernant, occorre essere prudenti nell’interpretare universalmente il s. attraverso concetti ebraici e cristiani etnocentrici e anacronistici. Inoltre, per ciò che concerne il s. nell’antica Grecia, occorre valorizzare la spartizione della carne in cui si riflette l’organizzazione sociale. Per M. Bloch, molti interpreti del s. hanno trascurato il significato politico delle pratiche sacrificali.
Le varie teorie, anche quelle che cercano di ridurre a un significato unico e originario i vari fenomeni rituali definiti come s., mostrano chiaramente la grande varietà di questi fenomeni. Per accennare brevemente ai tipi principali del s., si può cominciare con i casi limite, in cui l’uccisione rituale di una vittima avviene senza alcun riferimento a un destinatario: così, per es., quando essa suggella un patto o un giuramento. Tali uccisioni rituali non hanno necessariamente carattere di s., ma, se incluse in un determinato culto divino, possono essere concepite anche come sacrificio. Simile è il caso dei s. sul tipo del capro espiatorio: come gli antichi Ebrei su un capro, i Greci caricavano su due uomini spregevoli (detti, per la loro funzione, pharmakòi) tutte le impurità accumulatesi nella comunità in un anno; dopo aver fatto far loro il giro della città, li espellevano e li uccidevano.
Ma anche il s. concepito come offerta alla divinità conserva spesso valori magici: con la sua consacrazione, la vittima, o l’offerta, acquista una potenza particolare; se si unge la porta della casa con il sangue della vittima sacrificale, esso protegge la casa; nel s. di fondazione il corpo della vittima viene interrato nel suolo del paese o incluso nel muro dell’edificio fondato; le interiora della vittima sacrificata rivelano agli esperti la volontà divina; d’altra parte, la potenza che il s. conferisce alla vittima può essere anche pericolosa: perciò è proibito (per es. nell’antica Grecia) portar fuori dal luogo sacro i resti del sacrificio.
Il concetto magico del s. può svilupparsi in forme cosmogoniche: il cuore ancora palpitante strappato dal corpo della vittima umana, presso gli Aztechi, dava vitalità al sole, aiutandolo a compiere il suo giro, mentre le lacrime versate dalla vittima promuovevano la pioggia. Anche la creazione del mondo viene qualche volta concepita come risultato di un atto sacrificale. L’immenso potere attribuito al s. spiega come in certe religioni (per es. in quella vedica) gli strumenti o l’oggetto del s. stesso appaiano come grandi divinità: così Agni è il fuoco sacrificale e il Soma, oltre che bevanda sacrificale, è anche un dio con caratteri cosmici. In molte religioni però non è l’efficacia diretta del s. a essere in primo piano nel culto.
Nel s. primiziale con l’idea del dono è organicamente connesso l’intento di liberare dalla sacralità, totalmente conferita alla quantità offerta, il resto del prodotto e renderlo così adatto al consumo umano. Perciò, in alcuni contesti sacrificali, si offrono alla divinità un pezzo dell’animale abbattuto o il primo frutto raccolto, prima di consumare il resto; presso i popoli coltivatori, e così anche nelle religioni del mondo classico, non s’incomincia la mietitura prima dell’offerta delle prime spighe alla divinità.
Ancora diverso è il s. in cui prevale l’aspetto della comunione; tale aspetto può essere presente e per lo meno affiorare anche in altri tipi di s., come appare dal fatto che in diversi politeismi a ogni divinità si offre ciò che si pensa coessenziale a lei: l’animale preferito (che è l’aspetto teriomorfo della divinità); animali maschi agli dei, femmine alle dee ecc., di modo che la consumazione della vittima (di cui solo una parte è bruciata per gli dei) ricorda la consumazione della divinità stessa. La comunione vera e propria presuppone l’identità della vittima sacrificale con la divinità, mentre la consumazione della vittima equivale a un’identificazione del sacrificante con la vittima divina: nel concetto dell’eucaristia cristiana, secondo cui si consuma realmente il corpo del Cristo, è presente, in una formulazione e con significato nuovi, il s. di comunione.
Si può ancora distinguere il tipo del s. in cui interviene anche l’intento morale della rinuncia: si testimonia alla divinità la sottomissione più completa, sacrificandole ciò che si ha di più caro (per es. nell’Antico Testamento Abramo era pronto a sacrificare il suo primogenito).
Oltre a queste differenze di significato, si possono distinguere i vari tipi di s. anche da punti di vista formali. Secondo la natura dell’offerta si può parlare di s. incruenti (tra cui s. vegetali, libagioni ecc.) e di s. cruenti (tra cui anche il s. umano); secondo le occasioni del s. si parla di s. impetratori quando al s. si associa la richiesta di un beneficio, di s. espiatori, il cui scopo è di cancellare gli effetti di una colpa (o infrazione rituale) umana, di s. gratulatori, in cui prevale l’intento di esprimere la riconoscenza.
La fenomenologia, infine, dei più vari tipi di s. concorda normalmente nel distinguere nel s. tre fasi: la preparazione che comporta per lo più un particolare atto di consacrazione dell’offerta, lo svolgimento del s. e i riti di purificazione successivi al s., che permettono al sacrificante il ritorno nella vita profana.
Il s. con vittima umana è un fenomeno che ha avuto larghissima diffusione; era praticato da popoli di lingua indoeuropea (India, Grecia, Italia, Celti, Germani, Slavi) e semitica, da popoli dell’America precolombiana, da popoli dell’Africa e dell’Oceania. Come il s. in genere, così anche il s. umano può avere vari significati. Tra questi figura con grande rilievo il s. umano concepito come riscatto della collettività: se ogni s. può esser interpretato come offerta di parte di sé stessi (G. van der Leeuw), la validità di tale interpretazione è particolarmente evidente nel caso del s. umano, in cui una comunità umana effettivamente sacrifica una parte di sé stessa cioè un suo componente. Gli Ewe del Togo dicono che la malignità divina colpirebbe a caso la società, se non la si prevenisse saziandola di vittime prescelte dalla società stessa. L’idea che uno debba morire per salvare gli altri è il motivo più peculiare del s. umano: in essa si ha un’applicazione del tutto particolare, in quanto direttamente riferita alla vita umana, dello stesso principio che informa i s. primiziali, cioè l’offerta di una parte del prodotto al fine di riscattare per l’uso umano tutto il resto; d’altronde, in alcuni casi il s. umano può fungere propriamente da s. primiziale: così nel s. del primogenito (di cui l’antico ebraismo conserva il ricordo) che era destinato a garantire la vita dei figli successivi. Esistono pure casi in cui la morte di un individuo è destinata a riscattare quella di un altro (per es., si sacrifica un suddito per il re, uno schiavo per il padrone ecc.). In questo tipo rientra spesso anche l’infanticidio rituale (masse di resti di bambini sacrificati a Tanit sono stati ritrovati nel sito dell’antica Cartagine) in cui il bambino riscatta la famiglia o il padre. All’idea del riscatto della collettività mediante il s. umano si ricollegano, invece, i suicidi rituali, concepiti come s. umani volontari: così nell’antica religione romana la devotio, in cui per es. il capo di un esercito offriva la propria vita per la vittoria; fenomeni analoghi si riscontrano anche altrove (per es., il harakiri giapponese).
Il comune fine del riscatto non impedisce differenze assai pronunciate tra i diversi tipi di s. umano. Una di queste differenze appare chiaramente nella scelta delle vittime. Presso diversi popoli infatti la vittima viene scelta tra i criminali. In tal caso, quando cioè la società si riscatta mediante l’eliminazione dei propri elementi più spregevoli, il s. umano a volte assume il carattere di un s. penale che è forse la più antica forma della pena capitale (per es. nelle isole Hawaii, a Tahiti ecc.). Nell’arcaica Roma il ladro di frumento era sacro a Cerere, cioè punito di morte a carattere sacrificale. In alcuni casi l’eliminazione rituale di esseri spregevoli ha lo scopo di convogliare in loro ed eliminare insieme con loro i mali e le impurità accumulatisi all’interno della società (così nel caso dei pharmakòi greci). Diverso è il caso, invece, quando l’intento di riscatto richiede il s. di elementi preziosi alla società. Si sceglie la più bella ragazza o il più bel giovane (Chippewa, Aztechi) o addirittura il capo, il re. Nel cannibalismo rituale spesso la vittima viene esaltata e il pasto antropofago che mira ad assorbire la potenza e le qualità della vittima presuppone i pregi della persona sacrificata: in tal caso il s. umano è detto s. sacramentale, ciò che appare chiaramente quando la vittima è assimilata al dio (per es., a Tezcatlipoca, nell’antico Messico). In certe religioni, infine, il s. umano non mira apparentemente né alla comunione, né al riscatto, bensì a creare una comunicazione diretta con le potenze superiori, la cui dimora non è tra gli uomini vivi. Bisogna ricordare a parte la grande diffusione del s. umano nel culto funebre. Come Achille fa sacrificare i prigionieri troiani ai funerali di Patroclo, per metterli al suo servizio nell’aldilà, così le vedove e i servitori dei defunti dovevano morire ai funerali di questi in India (fino a tempi recenti), nella Cina arcaica, nell’America precolombiana e altrove.
Se, come si è visto nella maggior parte dei casi, il s. umano si fonda sull’idea del riscatto mediante sostituzione, la possibilità della sostituzione apre d’altra parte la via verso il superamento del s. umano. Come quando nel s. in generale prevale la concezione che esso deve essere più che altro un’espressione della subordinazione e perciò può assumere forme sostanzialmente simboliche, così anche il s. umano può essere sostituito da forme simboliche, qual è il s. di immagini umane in luogo di persone vive: nell’antica Cina, come in Egitto, si mettevano nelle tombe immagini di servitori. Altrove il s. dei capelli, il s. di sangue, riti di fustigazione o di finta morte finirono per occupare il posto dell’originario s. umano.