Nella sua nozione fondamentale, invocazione della divinità come testimone della verità di quanto si afferma (g. assertorio) o come mallevadrice e vindice di una promessa o di un voto (g. promissorio). In senso più generico, forma solenne di affermare e promettere, che impegna la propria coscienza sia di fronte a un’autorità civile o ad altre persone sia anche solo di fronte a sé stessi.
Nel processo civile il g. è un mezzo di prova. Può essere decisorio, suppletorio o estimatorio. Il g. decisorio è la prova (➔) con cui una parte è invitata dalla controparte a giurare personalmente sui fatti costitutivi della domanda giudiziale in materia di diritti disponibili. Si tratta di fatti a lei favorevoli, da cui dipende la decisione dell’intera causa o di parte di essa e che non riguardano illeciti o l’esistenza di un contratto a forma scritta ad substantiam (art. 2739 c.c.). Si ha, invece, il g. suppletorio quando è il giudice a ordinare a una parte di giurare sui fatti di causa non pienamente provati, ma nemmeno completamente sforniti di prova. Infine, il g. estimatorio si ha quando il giudice lo deferisca a una delle parti al fine di stabilire il valore della cosa domandata quando questo, per impossibilità anche soggettiva della parte, non sia altrimenti determinabile (art. 2736, co. 2, c.c.).
L’atto con cui si invita la parte a giurare è il deferimento (art. 233 c.p.c.). Il deferimento del g. decisorio può farsi in qualsiasi stato e grado del processo, deve essere fatto personalmente, per articoli separati, in modo chiaro e preciso ed è revocabile fino a che la parte non sia pronta a giurare. Colui a cui è stato deferito il g. decisorio può a sua volta riferirlo alla controparte, sullo stesso fatto, nei limiti fissati dal codice civile (art. 2739). La parte che ha deferito o riferito il g. decisorio non può revocarlo quando l’avversario si sia dichiarato pronto a prestarlo. Se la parte cui il g. decisorio è deferito o riferito, senza giusto motivo, si rifiuti di prestarlo o non si presenti all’udienza all’uopo fissata, viene dichiarata soccombente su quanto avrebbe dovuto giurare. Una volta esperito g., i fatti in esso dichiarati veri sono da considerare accertati e vincolanti per il giudice e a nulla rileverebbe un’eventuale prova contraria. Se venisse accertata la sua falsità, non si potrebbe ottenere la revocazione della sentenza civile (art. 2738 c.c.), ma il soccombente potrebbe chiedere solo il risarcimento dei danni.
Nel diritto canonico il g. è l’invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità e deve essere prestato secondo verità, prudenza e giustizia (can. 1199, par. 1). Il g. è obbligatorio, a norma di diritto, per gli amministratori ecclesiastici, per i giudici e i ministri di tribunale, per le parti chiamate a deporre nei giudizi, quando è in causa un bene pubblico, per i testimoni. Chiunque presti g. ha inoltre l’obbligo di religione di compiere quanto è sancito con il g. stesso, mentre è nullo, ipso iure, il g. estorto con dolo, violenza o timore grave. Il g. va interpretato applicando sempre il criterio di interpretazione restrittivo, mai quello estensivo.
Sia nelle civiltà primitive sia, sporadicamente, in quelle superiori, si trovano forme di g. senza alcun richiamo a un essere superiore. Il g., in questi casi, è semplicemente un’auto-maledizione o maledizione dei congiunti, dei beni o di parti del corpo, condizionata alla falsità dell’asserzione o della promessa, formula che agisce automaticamente per la potenza magica delle parole. A questo concetto magico risalgono le formule di g. eventualmente rinforzate da gesti rituali, dal contatto di determinati oggetti sacri o magici, dal sacrificio. Per le forze magiche che mobilita, il g. è un atto pericoloso sia per il giurante sia per tutta la comunità. Nelle religioni politeistiche la divinità garante del g., spesso una divinità solare (così, in Babilonia Shamash, nell’India antica Mitra) o celeste perché concepita come onniveggente, assume grande importanza: il g. spesso si compie nel suo santuario e in genere è collegato con impegni extraindividuali e collettivi come patti, trattati, ecc.
Nella Bibbia, il g. viene utilizzato frequentemente come formula per invocare Dio come testimone della verità affermata, e anche a Dio stesso si attribuisce il giurare. Contro l’uso del g. presso gli Ebrei si rivolge il monito di Cristo nel vangelo di Matteo.