Il termine latino codex, nel suo significato originario, indicava, come liber, la parte interna del fusto degli alberi, cioè il legno; designò poi le tavolette cerate a uso di scrittura e infine il libro manoscritto formato di più fogli, come il libro moderno, in opposizione al rotolo.
Come termine bibliografico, nel senso di libro manoscritto, il codice si oppone tanto a rotolo quanto a libro stampato. Il codice come complesso di fascicoli fece la prima apparizione, accanto al rotolo di papiro, nel 2° sec. a.C., con il diffondersi della pergamena (codice membranaceo; il papiro mal si prestava a una confezione del genere per la sua fragilità). Al sistema più antico, che prevedeva di porre tutti i fogli necessari uno sopra l’altro e piegare il tutto in due, subentrò il sistema più pratico di riunire così non più di 4 fogli (quaderno) e mettere uno sopra l’altro il numero di quaderni necessario a contenere i testi desiderati. In entrambi i casi, il tutto era posto in una rilegatura che aveva un’anima in legno, o in papiri incollati insieme, e un involucro esterno in pelle. Già apprezzato da Marziale (Epigr., I 2) per la praticità e il piccolo ingombro, che permetteva di portarlo in viaggio, nel 4° sec. d.C. il codice è d’uso prevalente. Nel 13° sec. la carta, più economica, comincia a sostituirsi alla pergamena, affermandosi tra 14° e 16° sec. (codice cartaceo o bombicino).
Nell’uso filologico, il codice, spesso nella forma latina codex, assume denominazioni specifiche: codex descriptus, copia di altro codice già noto; interpositus, codice perduto ricostruito mediante l’analisi comparativa delle lezioni attestate da altri manoscritti della stessa opera; optimus, il manoscritto che si ritiene più corretto e più completo; codices recentiores, codici di data più recente; codex rescriptus o palinsesto, antico manoscritto in cui la scrittura originale fu raschiata per scrivervi sopra un nuovo testo; unicus, codice unico, quando di un’opera non esiste altro manoscritto; vetustissimus, il manoscritto che risulta più antico e che, in passato, si riteneva anche il migliore (circostanza che spesso, però, non si verifica). Altri codici sono definiti autografi se contengono opere scritte di pugno dell’autore; anonimi o adespoti se non indicano il nome dell’autore; anepigrafi, privi di un titolo; miscellanei, di vario contenuto; compositi, risultanti dall’unione di più manoscritti o parti di manoscritti in un’unica legatura. Si dice mutilo il codice in cui manca qualche foglio e, se i fogli mancanti sono i primi, acefalo. Un codice del formato degli atlanti, cioè di massimo formato, si dice atlantico.
Il singolo codice, come oggetto di studio, s’individua mediante uno o più aggettivi, seguiti dalle indicazioni (lettere, numero d’ordine ecc.) che valgono a precisarne la collocazione nella biblioteca in cui si trova (segnatura del codice). Gli aggettivi che lo distinguono, per lo più in lingua latina, si riferiscono nella maggioranza dei casi alla città, alla biblioteca, al particolare fondo in cui il codice è conservato: per es. cod. Montepessulanus H 113 (della biblioteca di Montpellier in Francia); Vat. Ott. lat. 1883 (del fondo Ottoboniano latino della Biblioteca Vaticana). Alcuni codici particolarmente famosi si designano con epiteti tradizionali, legati a loro caratteristiche: il cod. Oblongus e il Quadratus di Lucrezio; il cod. Argenteus (della bibl. di Uppsala), del 5°-6° sec., con frammenti della traduzione gotica della Bibbia, scritto in lettere d’argento su pergamena tinta di porpora (altri codici dello stesso genere hanno l’epiteto di purpurei). Nell’apparato delle edizioni critiche i singoli codici sono indicati con sigle (per lo più lettere maiuscole).
La codicologia è la disciplina storica che studia il libro manoscritto in ogni suo aspetto, sia esterno o formale, sia interno. Praticata sin dal Rinascimento, ha acquistato dignità di scienza autonoma soltanto nel corso del 20° sec., e soprattutto in Francia, in Germania, in Belgio, dove sono sorti nel secondo dopoguerra istituti specializzati. Suo fine è la descrizione, il più possibile completa, dei codici antichi e medievali e dei manoscritti moderni. Essa deve indicare anzitutto se il codice è membranaceo o cartaceo; in questo secondo caso è utile descrivere la filigrana della carta, facendo riferimento a un apposito repertorio, in particolare quello di Charles-Moïse Briquet. Si descrivono inoltre: il formato, il numero delle carte, la disposizione della scrittura (a riga piena o a colonne), le caratteristiche paleografiche della scrittura, in quanto servono a dare indizi sull’area geografica di provenienza e sull’età del codice; gli ornamenti, la legatura; l’elenco degli scritti in esso contenuti con l’indicazione per ciascuno dell’incipit ed explicit; il carattere e l’entità delle postille o annotazioni marginali, le segnature precedenti all’attuale e così via. Lo studio dei codici tende ad assumere sempre maggiore autonomia, per il generale orientamento a considerare il singolo codice non solo come depositario di un testo, ma anche come documento di cultura in sé, nella sua formazione e nelle sue vicende.
Per la relazione esistente tra la sequenza di basi azotate del DNA di un gene e la sequenza di amminoacidi di una proteina ➔ còdice genètico.
Poiché la Rivoluzione francese ha dato il primo esempio di codice, la storia della codificazione si confonde, in gran parte, con la storia del codice civile francese (Code Napoléon). La codificazione ebbe tuttavia precedenti anche in altri tempi e paesi: sono tali i Libri feudorum, che diedero all’Italia redazioni scritte delle consuetudini feudali, le raccolte analoghe con cui in Spagna si attese alla redazione scritta dei fueros locali, in Portogallo delle costumbres e in Francia delle coutumes. Così, si formarono ovunque numerose compilazioni di leggi principesche, come le Constitutiones Regni Siciliae di Federico II, e i notevoli Code Henry III e Code Marillac (1629). La preoccupante molteplicità delle fonti del diritto fece avvertire quindi l’esigenza di una sistemazione organica delle norme. Dopo i singoli giuristi, fu il movimento filosofico della scuola del diritto naturale a reclamare l’elaborazione di un nuovo sistema di diritto, che avrebbe dovuto sostituirsi alla folla delle antiche leggi. Entrambi i movimenti, quello pratico e quello filosofico, contribuirono, quindi, alla formazione dei codici moderni.
L’esigenza di dividere la legislazione nelle parti sistematiche che la giurisprudenza aveva già stabilito nei secoli precedenti, portò alla formazione di un codice civile, un codice di leggi penali, uno di procedura civile, uno di procedura penale, uno di commercio. Il codice civile, opera di J.-J.-R. de Cambacérès, venne presentato alla Convenzione nel 1793, ma apparve troppo complicato, sicché si venne a un secondo progetto in 297 articoli. Nello stesso periodo si stesero i primi progetti di codice penale e di procedura penale (1795) e di procedura civile, che però non furono approvati. L’ultimo progetto risultò un abile compromesso fra l’antico patrimonio giuridico e le nuove idee bandite dalla Rivoluzione. Storia analoga ebbero il codice penale e quello di procedura criminale, redatti in forma definitiva nel 1804. Nel 1803, per ordine del governo consolare, fu formato un progetto definitivo di codice di procedura civile. Il progetto del codice di commercio attingeva invece alle ordinanze di J.-B. Colbert del 1673 e del 1681. Con i cinque codici francesi iniziò il sistema del diritto codificato. Estesi a tutti i paesi in cui, direttamente o indirettamente, dominava la Francia, tali codici furono introdotti anche in Italia.
Fortemente influenzati dai principi della codificazione francese furono, oltre all’Italia, il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania, la Svizzera, la Spagna, il Portogallo, e, in seguito, l’Egitto, la Siria, il Libano, l’Algeria e numerosi Stati africani, nonché l’America Meridionale e Centrale. In America Settentrionale l’influenza francese si fece avvertire soprattutto in Louisiana e nel Québec. Accanto ai processi di codificazione influenzati dal sistema giuridico romanistico si sono tuttavia sviluppati anche altri sistemi, frutto di esperienze diverse e che prescindono dalla logica della codificazione. Oltre al sistema anglo-americano (➔ common law), si ricordano, in particolare, quello scandinavo e quello dell’Estremo Oriente, nonché il diritto islamico e il diritto indù.
Anche in Italia, in seguito alla Restaurazione, i principi diedero opera alla formazione di codici sulla traccia di quelli francesi. Nel regno di Napoli si giunse, nel 1819, per decreto di Ferdinando I, alla promulgazione del Codice per lo Regno delle Due Sicilie. Alla codificazione napoletana seguì quella parmense: il codice civile fu promulgato nel 1820, seguito nello stesso anno dal codice di procedura civile e dai codice criminale militare, penale comune e di procedura penale. In Piemonte, la codificazione tardò ad attuarsi fino all’assunzione al trono di Carlo Alberto. Il codice civile fu promulgato nel 1837; seguirono il codice penale (1839), il codice di leggi penali militari (1840), il codice di commercio (1842) e il codice di procedura criminale (1847). Il codice di procedura civile venne promulgato nel 1854 da Vittorio Emanuele II. Con questo codice si chiuse il primo periodo della codificazione piemontese. Un secondo periodo si aprì subito dopo, determinato dalle nuove annessioni. Si ebbe così il nuovo codice penale militare (1859), e poi il codice penale comune, e quelli di procedura penale e di procedura civile, tutti promulgati il 20 novembre 1859.
Si ebbero codice anche nel ducato di Modena, in Toscana, nello Stato Pontificio. Nel nuovo regno Lombardo-Veneto furono accolti nel 1815 i codici civile e penale austriaci; questo secondo fu sostituito nel 1852 da un nuovo codice penale, seguito nell’anno successivo da un Regolamento di procedura penale.
Quando gli Stati d’Italia si unirono nello Stato nazionale unitario, con la divisione politica doveva scomparire anche quella del diritto e nel 1865 si compì il passo decisivo verso l’unificazione legislativa sotto forma di codificazione italiana. Infatti, con la legge del 2 aprile, il governo venne autorizzato a promulgare, in tutte le province costituenti il Regno d’Italia, il codice civile, il codice di procedura civile, di commercio e di marina mercantile, ai quali seguì poco dopo quello di procedura penale.
È la più importante fonte normativa sui rapporti di diritto privato. L’unificazione legislativa dell’Italia (estesa alle province successivamente riunite al Regno) si compì con il r.d. 2358/25 giugno 1865, che approvava e pubblicava il codice civile. Entrato in vigore il 1° gennaio 1866, esso sostituì i codici civili dei vari Stati italiani, seguendo in molte parti il modello del code civil francese. In seguito vi furono apportate modifiche, finché venne riformato con r.d. 262/16 marzo 1942, che fissò l’entrata in vigore del nuovo codice civile al 21 aprile 1942, sostituendo da questa data i libri separati del codice stesso che erano stati singolarmente approvati con vari regi decreti (a cominciare da quello 1852/12 dicembre 1938, per il libro I).
Il nuovo codice civile, che è più complesso dell’antico perché è stata unificata la materia propria dei precedenti codice civile e di commercio, è composto da 2969 articoli, divisi in sei libri: 1° Delle persone e della famiglia; 2° Delle successioni; 3° Della proprietà; 4° Delle obbligazioni; 5° Del lavoro; 6° Della tutela dei diritti. Il testo è preceduto dalle Disposizioni sulla legge in generale, dette anche disposizioni preliminari o preleggi, e accompagnato dalle Disposizioni di attuazione e transitorie. Nel codice, in cui molti principi che si applicavano in materia di commercio sono stati estesi a tutto il diritto privato, è prevalsa la concezione unitaria, in modo che il codice civile, assorbendo il codice di commercio, regola tutti i settori dell’attività dei privati; e ciò perché il lavoro è considerato elemento essenziale dell’ordinamento giuridico e i rapporti economici sono riferiti nel libro del lavoro al concetto dell’impresa e dell’imprenditore, la cui disciplina assorbe una buona parte della materia che prima era regolata dal codice di commercio, mentre un’altra parte, quella dei contratti, è regolata nel libro delle obbligazioni.
Con il d. legisl. 287/14 settembre 1944, sono state eliminate dal codice civile alcune norme che erano espressione di concezioni politico-sociali superate, come è stata abrogata la Carta del lavoro premessa al codice del 1942. Il sistema del Codice è stato integrato da alcune leggi e decreti legislativi, tra i quali vanno ricordati i decreti sulla cambiale, sul vaglia cambiario e l’assegno bancario ecc. Negli ultimi decenni queste leggi e decreti sono particolarmente aumentati di numero, in alcuni casi inserendosi con la tecnica della novellazione nell’impianto del codice civile (per es., l. 151/1975 sulla riforma del diritto di famiglia; d. legisl. 6/2003 sulla riforma del diritto societario; l. 6/2004 sull’amministrazione di sostegno; l. 55/2006 sul patto di famiglia ecc.), in altri affiancandosi invece al codice civile (per es., l. 300/1970 sullo statuto dei lavoratori; l. 898/1970 sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio; l. 10/1977 sull’edificabilità dei suoli; l. 322/1978 sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani, cosiddetta legge sull’equo canone; l. 203/1982 sui contratti agrari; l. 184/1983 sulla disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori; d. legisl. 385/1993, testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; d. legisl. 58/1998, testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria; l. 431/1998 sulla disciplina delle locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo). Questi provvedimenti legislativi hanno talvolta assunto il nome di codice, come il d. legisl. 30/2005 (codice della proprietà industriale), il d. legisl. 206/2005, il d. legisl. 209/2005 (codice delle assicurazioni private), ma trattandosi di meri testi unici si tratta di uso improprio del termine. Si deve tuttavia escludere che si sia verificata la cosiddetta decodificazione, cioè che le leggi speciali – da sempre necessarie per integrare un codice – siano tutte caratterizzate da un’ispirazione che le contrapopone al codice civile e costituisce i cosiddetti microsistemi: il codice civile costituisce pur sempre il diritto comune e a esso le leggi speciali devono essere ricondotte.
Dal punto di vista tecnico il codice civile costituì senza dubbio un notevole progresso rispetto alla legislazione precedente, per il suo disegno sistematico e l’opera di unificazione del diritto privato che con esso fu realizzata. Per quanto riguarda il suo contenuto, invece, rappresentò spesso un punto d’arrivo, a volte un punto di partenza. Al tempo della sua emanazione le nuove idee, che avrebbero poi improntato la Carta costituzionale nella parte relativa ai rapporti economici e sociali, non erano ancora compiutamente formate. Per tale motivo, la disciplina che il codice civile dettò circa i rapporti di famiglia e il diritto del lavoro fu sottoposta a un’ulteriore, successiva elaborazione.
Il codice di procedura civile (c.p.c.) attualmente vigente (dal 21 aprile 1942) fu approvato con r.d. del 28 ottobre 1940. Fu redatto da L. Conforti, che si valse del consiglio di illustri professori, in particolare di P. Calamandrei, indicato come l’autore della Relazione al re (firmata dal guardasigilli D. Grandi), ma anche di F. Carnelutti ed E. Redenti. Per la sua ispirazione più marcatamente pubblicistica, e più attenta agli svolgimenti della scienza del processo, che frattanto aveva acquistato un proprio autonomo statuto e guadagnata una nuova impronta sistematica sulle orme della dottrina germanica, il codice del 1940-42 si discosta sensibilmente da quello del 1865, che alla indifferenza rispetto alle posizioni teoriche associava la tendenza a privilegiare le esigenze delle parti, a detrimento dei poteri del giudice.
Importanti modificazioni al codice vigente si ebbero già con una legge del 1950, che servì a mitigare la rigidità di talune soluzioni, non sempre corrispondenti alle esigenze dei contendenti e dei loro difensori. Ulteriori importanti riforme sono state introdotte a partire dagli anni 1990 e sono proseguite con ulteriori interventi sulla tessitura interna del processo e sulla stessa organizzazione giudiziaria, con l’istituzione del giudice di pace, nuova figura di giudice onorario tendenzialmente a tempo pieno.
Quanto al c.p.c. del Regno d’Italia, che divenne legge il 25 giugno 1865 e restò in vigore fino al 1942, la sua fonte immediata fu il Code de procédure civile napoleonico, varato il 1° gennaio 1807 e modellato sulla famosa ordinanza del 1667 di Luigi XIV, la prima compiuta codificazione processuale della storia. Non meno di quello attuale, anche il codice del 1865 fu il risultato del lavoro di uomini insigni e rinomati giuristi (tra cui G. Pisanelli), che seppero filtrare nel modello francese elementi derivati da leggi italiane o vigenti in Italia.
Detto anche di rito penale, il c.p.p. disciplina lo svolgimento dei processi penali. Approvato con il d.p.r. 447/1988, l’attuale c.p.p. è entrato in vigore il 24 ottobre 1989 dopo un anno di vacatio legis, subentrando così al precedente codice che risaliva, nella sua versione originaria, al r.d. 1399/1930 ed era entrato in vigore il 1° luglio 1931. L’abrogazione del codice del 1930-31 rispondeva all’esigenza culturale di adeguare il processo penale a un sistema propriamente accusatorio. Dopo vari tentativi di riforma, l’ultima legge delega per l’emanazione del nuovo codice di rito pervenne il 18 luglio 1984 all’esame della Camera dei deputati, che approvò un elenco di 103 principi e criteri direttivi, il 21 novembre 1986 al Senato, e fu definitivamente recepito dalla Camera dei deputati nella seduta del 4 febbraio 1987, poco prima della fine della IX legislatura. Il d.p.r. 448/1988 approvò poi le disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, il d.p.r. 449/1988 dispose quelle per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale e a quello nei confronti dei minorenni; entrambi furono pubblicati contemporaneamente al codice e con esso entrarono in vigore. Tra gli interventi riformatori succedutisi dal 1988, particolarmente rilevanti sono: il d. legisl. 51/1998 istitutivo del giudice unico di primo grado; la l. 479/1999 inerente il procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica; la l. cost. 2/1999 sul giusto processo; la l. 46/2006 sull’inappellabilità delle sentenze di primo grado.
Fonte principale del diritto penale sostanziale contenente i principi fondamentali e le regole generali che informano tutto il sistema penale. Le disposizioni del codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, salvo non sia da queste altrimenti stabilito. Compiuta l’unità nazionale, in Italia fu ovunque introdotto il codice sardo del 1859 (codice sardo-italiano), tranne che in Toscana dove fu mantenuto il codice del 1853. Nel 1889 subentrò poi il codice Zanardelli, i cui tratti innovativi erano l’abolizione della pena di morte, il principio di legalità, il divieto di estradizione per i delitti politici anche a favore dello straniero, il sistema del cumulo giuridico e dell’assorbimento per il concorso di reati, e in generale una maggiore tutela dei diritti dei cittadini contro gli abusi dell’autorità. La scuola positiva di diritto penale, in aperto contrasto con quella classica, riuscì a elaborare, per iniziativa di E. Ferri, un progetto preliminare di codice penale impostato sui principi della pericolosità sociale del delinquente e delle misure di difesa sociale commisurate alla maggiore o minore pericolosità del reo.
Nel 1930 l’avvento del fascismo diede vita a un nuovo codice penale, espressione dello scontro culturale tra l’orientamento classico e quello positivo, ma al contempo congeniale alle esigenze di tutela e di autocelebrazione di un regime autoritario come quello fascista. Il codice di diritto penale, denominato codice Rocco dal nome dell’allora ministro di giustizia, e approvato con r.d. 1398/9 ottobre 1930, entrò in vigore il 1° luglio 1931. Esso è diviso in 3 libri: 1° Dei reati in generale; 2° Dei delitti in particolare; 3° Delle contravvenzioni in particolare. Il codice Rocco si caratterizzò per l’introduzione del cosiddetto sistema del doppio binario, che prevedeva la comminazione delle misure di sicurezza in via aggiuntiva o esclusiva a quella delle pene. Le riforme che maggiormente ne hanno modificato la fisionomia sono state introdotte con: la l. 220/1974 in materia di concorso formale, di reato continuato, di circostanze del reato e di recidiva; la l. 689/1981, che ha disposto le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, indicato una nuova disciplina della pena pecuniaria e modificato significativamente la disciplina delle pene accessorie; la l. 663/1986 in materia di misure di sicurezza; la l. 19/1990 che ha esteso la sospensione condizionale anche alle pena accessorie e, soprattutto, ha eliminato l’imputazione oggettiva delle circostanze aggravanti; la l. 134/2003 con l’innovazione per la pena pecuniaria di un sistema di tassi giornalieri; la l. 251/2005 in materia di recidiva, prescrizione, circostanze del reato, concorso di reati e regime penitenziario; la l. 59/2006 inerente l’istituto della legittima difesa. Le iniziative di riforma complessiva del codice penale hanno inoltre riservato particolare attenzione a una profonda revisione del sistema sanzionatorio, nella prospettiva di affiancare alla tradizionale pena detentiva una gamma articolata di sanzioni diverse. In attesa dell’entrata in vigore di una riforma complessiva la l. 205/1999 ha delegato il governo a operare un’ampia depenalizzazione dei reati minori.
Emanato con il d. legisl. 206/2005, il codice del consumo armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti, come già fatto in altri paesi. Si articola in sei parti (disposizioni generali; educazione, informazione, pubblicità; il rapporto di consumo; sicurezza e qualità; associazioni dei consumatori e accesso alla giustizia; disposizioni finali) e raccoglie al suo interno sia la normativa relativa ai contratti del consumatore in generale (e fatta salva l’applicazione delle disposizioni del codice civile in materia di contratto in genere, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore: cfr. il novellato art. 1469-bis, c.c.) sia le più specifiche discipline inerenti alla pubblicità ingannevole e comparativa, alle televendite, ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali, ai contratti a distanza, alla multiproprietà, alla vendita di pacchetti turistici, alla sicurezza dei prodotti immessi sul mercato ovvero in libera pratica, alla responsabilità per danno da prodotti difettosi, alla vendita dei beni di consumo.
La l. 190/1991 ha delegato al governo il potere di elaborare un codice della strada adeguato alla normativa comunitaria. È entrato in vigore con il d. legisl. 285/1992. Tra le regole in esso stabilite, si rilevano quelle in tema di velocità, posizione dei veicoli sulla carreggiata, circolazione, rispetto della segnaletica, distanza di sorpasso, uso della cintura di sicurezza e del casco per i veicoli a due ruote. Per la violazione delle norme di comportamento sono previste, in base all’evento cagionato, sanzioni penali e amministrative. Le prime si applicano alle condotte più gravi qualificate come reato: commette delitto di omicidio colposo aggravato, punito con la reclusione, e delitto di lesioni personali colpose aggravate, punite con la reclusione o con la multa, chi cagiona per colpa rispettivamente la morte o la lesione personale, violando le norme sulla circolazione stradale; costituisce altresì delitto l’omissione di soccorso a chi ha subito un danno causato da un incidente stradale; la guida in stato di ebbrezza è una contravvenzione punita con l’arresto o con l’ammenda. Rappresenta invece un’infrazione amministrativa punibile con la sanzione pecuniaria la guida di autoveicoli o motoveicoli senza patente di guida, avendola conseguita o meno. Le altre violazioni del codice della strada sono punite con sanzione pecuniaria il cui limite minimo e massimo è stabilito da ciascuna norma. A tali sanzioni si applica la disciplina ;disposta dalla l. 689/1981, capo I, sez. I e II.
In base alla l. 85/2001, che conferiva espressamente una delega al governo per l’emanazione di uno o più decreti legislativi di integrazione e modifica del codice, è stato emanato il d.legisl. 9/2002, che consta di 19 articoli. Le principali novità riguardano: il certificato di idoneità per la guida di ciclomotori da parte di minorenni che abbiano compiuto 14 anni, in vigore dal 1° luglio 2004 (dal 1° ottobre 2005 tale obbligo è stato esteso anche ai maggiorenni non in possesso di patente di guida); la possibilità, per il conducente maggiorenne, di trasportare un passeggero, purché il ciclomotore sia debitamente omologato (art. 115); la facoltà, per gli enti proprietari o concessionari delle strade, di elevare fino a 150 km/h il limite di velocità sulle autostrade a tre corsie, in presenza di determinate condizioni; la previsione dell’obbligo, in caso di precipitazioni atmosferiche, di riduzione della velocità massima di 20 km/h (art. 142) in autostrada o sulle strade extraurbane principali; l’introduzione della patente a punti (art. 126). Più in particolare, la norma prevede che a ogni patente sia attribuito un punteggio iniziale di 20 punti, che diminuiscono in caso di infrazioni (secondo l’elenco allegato all’articolo 126 bis del codice, per un massimo di 15 punti complessivi per più violazioni contestuali) e vengono reintegrati quando trascorrano due anni consecutivi senza ulteriori decurtazioni di punti. Questi possono essere recuperati parzialmente anche mediante appositi corsi, che attribuiscono 6 punti (agli utenti privati) e 9 punti (agli utenti professionali). Il punteggio iniziale viene incrementato di 2 punti ai titolari di patente che non abbiano subito sottrazione di punti per un biennio. Esaurito il punteggio, è necessario sostenere un esame di revisione della patente. La decurtazione del punteggio può avvenire soltanto se la violazione accertata e contestata è definita (per pagamento in misura ridotta, per scadenza dei termini per ricorrere, per sentenza di rigetto del ricorso). I punti decurtati sono raddoppiati per ogni violazione commessa entro i primi 3 anni dal rilascio della patente.
Nuovi controlli sono stati messi a punto per contrastare il fenomeno della guida in stato di ebbrezza. È stata inibita la guida all’utente che abbia un tasso alcolemico superiore a 0,5 g/l o sia sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (art. 186-187). A tal fine si è introdotto l’impiego di etilometri e di test immuno-enzimatici, in grado di appurare l’assunzione di sostanze stupefacenti. L’art. 4 del d.legisl. 121/2002 (convertito nella l. 168/2002) ha reso inoltre possibile l’impiego di dispositivi di controllo remoto del traffico per l’accertamento delle violazioni delle norme che riguardano la velocità e il sorpasso dei veicoli. La disposizione ha permesso di utilizzare, su autostrade, strade extraurbane principali e altre strade individuate dal prefetto, strumenti di controllo telematico per accertare comportamenti illeciti dopo il transito del veicolo.
In teoria delle informazioni un codice è un sistema di simboli o parole usato per rappresentare gli elementi o i caratteri di un altro insieme, per es. per rappresentare i messaggi generati da una sorgente d’informazione. Il codice è in genere un sistema discreto e quindi se il sistema che esso deve rappresentare è analogico l’operazione di codifica può causare una perdita di informazione.
I codici vengono impiegati nella trasmissione, elaborazione e registrazione dell’informazione in forma discreta e la loro importanza aumenta di pari passo con la tendenza a passare in questi campi dall’analogico al digitale. Nel caso della trasmissione si distingue tra codice codice per le sorgenti (il cui scopo è quello di tradurre in forma opportuna, per es. binaria, l’uscita della sorgente e, insieme, di ridurne la ridondanza operando una compressione dei dati) e codice codice per i canali (il cui scopo essenziale è quello di proteggere i dati immessi sul canale dal rumore, cioè dai disturbi). La compressione ottenuta con i codice di sorgente li rende utilissimi anche per registrare i dati nelle memorie e la protezione offerta dai codice di canale li rende utilissimi anche nel campo dell’elaborazione dei dati. Le operazioni di codifica possono essere sempre separate nelle due fasi di compressione (eliminazione della ridondanza che è quasi sempre presente nei dati generati dalla sorgente) e di protezione (introduzione nei dati già compressi di ridondanza sistematica, che consente il rilevamento e la correzione di un certo numero di errori di trasmissione sul canale). Si parla anche di codifica in assenza di rumore e di codifica in presenza di rumore, rispettivamente; le due operazioni possono essere eseguite in modo ottimo l’una indipendentemente dall’altra.
Codice basato su due soli simboli, usualmente 0 e 1. Permette la trasmissione di dati e istruzioni mediante una sequenza di 0 e 1 (➔ còdice binàrio).
Codici decimali binari Codice basato sull’impiego del sistema numerico decimale in luogo di quello binario, mantenendo tuttavia una codifica binaria delle singole cifre decimali. A tal fine, le cifre del sistema decimale, da 0 a 9, devono essere codificate mediante parole di almeno 4 bit, utilizzando solo 10 delle possibili configurazioni binarie diverse che sono 16 per 4 bit, 32 per 5 bit ecc. Ogni cifra decimale è quindi considerata singolarmente, indipendentemente dalla sua posizione nel nunero, e a essa viene fatta corrispondere una definita combinazione ordinata di 0 e di 1.
Codici progettati per garantire la sicurezza delle informazioni.
Nella tecnica delle telecomunicazioni, codice costituito da gruppi di tre lettere, compresi alfabeticamente fra QAA e QUZ, ognuno dei quali corrisponde a un certo messaggio convenzionale. Fra i gruppi usati, in modo particolare dai radioamatori, ci sono i seguenti: QRA (qual è il vostro nominativo?, oppure: il mio nominativo è...); QRK (mi ricevete bene?, oppure: vi ricevo bene); QAB (sono autorizzato?, oppure: siete autorizzato).
Insieme di combinazioni d’impulsi di corrente che costituiscono i segnali telegrafici corrispondenti a lettere, cifre o simboli. Gli impulsi corrispondenti ai segnali sono separati fra loro da intervalli più o meno lunghi di riposo. Notissimo il codice codice telegrafico Morse (v. .), primo a essere impiegato e ancora usato nei collegamenti a piccola distanza e in quelli radiotelegrafici.