La lesione di un interesse giuridicamente tutelabile implica di regola responsabilità, sia se è prodotta dolosamente sia se è cagionata per c. (art. 2043 c.c.). In tale settore del diritto la c. assume maggiore rilevanza rispetto al dolo perché per il perfezionamento dell’illecito è di solito ritenuta sufficiente una condotta colposa. Mentre il dolo presuppone la piena coscienza e intenzionalità dell’atto da parte del soggetto, ai fini della individuazione della c. il criterio di valutazione del comportamento dell’agente è costituito dalla diligenza propria del buon padre di famiglia; con tale concetto si intende la condotta che, con riferimento alla natura dell’attività esercitata, può essere richiesta al soggetto secondo una retta coscienza sociale, il cui mancato rispetto costituisce la cosiddetta c. lieve. Esistono tuttavia ipotesi in cui, per certi tipi di attività, la responsabilità può derivare solo da atti commessi dolosamente o con c. grave, ossia con negligenza di particolare rilevanza. Tale limitazione di responsabilità è prevista, per es., per il libero professionista nel caso in cui la prestazione comporti la soluzione di complessi problemi tecnici. Con il termine c. lievissima si definisce invece la violazione di una diligenza ancor più accentuata rispetto a quella media prevista. Con riferimento a ipotesi particolari si parla di c. in vigilando (per es., la c. dei genitori per i danni cagionati dai figli minori) e di c. in eligendo (per es., la c. dei committenti per i danni cagionati dai propri dipendenti); mentre nel primo caso il soggetto può essere liberato dalla responsabilità se provi di non aver potuto impedire il fatto adempiendo correttamente l’obbligo di vigilanza (che comprende anche un’adeguata e continua opera di educazione), per la seconda ipotesi sembra più proprio parlare di responsabilità diretta e oggettiva prescindente da una particolare c. personale del soggetto e fondata sul rischio che, per solidarietà sociale, deve gravare sul committente in relazione alla utilità che lo stesso trae dall’attività affidata a terzi. La c. contrattuale (derivante dalla preesistenza tra le parti di un’obbligazione specifica) è assoggettata a una disciplina giuridica per alcuni aspetti diversa dalla c. extracontrattuale (derivante dalla lesione di un interesse giuridicamente tutelato a prescindere da uno specifico rapporto obbligatorio); il debitore, se vuole liberarsi dall’obbligo di risarcire il danno, deve provare che l’inadempimento dipende da causa a lui non imputabile, ma se la sua condotta non è dolosa è tenuto al risarcimento dei soli danni prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione.
Forma di imputazione della responsabilità penale qualificata sussidiaria rispetto al dolo, perché la condotta antigiuridica che dà luogo al delitto colposo è punibile nei soli casi espressamente previsti dalla legge. L’art. 42, co. 2, c.p. stabilisce, infatti, che nessuno può essere punito per un fatto, previsto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, tranne nei casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente indicati dalla legge. Nelle contravvenzioni, invece, ai fini della punibilità, è indifferente che la condotta sia dolosa o colposa (art. 42, ultimo co., c.p.). Per la configurazione del delitto colposo, è necessario che la condotta sia cosciente e volontaria, che l’evento, salvo determinati casi, non sia voluto e che il fatto sia imputabile all’agente per negligenza, intesa come errore di valutazione nel compimento di un’attività, per imprudenza, identificabile nell’errore di attuazione di una data attività, o per imperizia, qualificata come negligenza o imprudenza propria di chi compie atti che presuppongono la conoscenza di regole tecniche ma non le rispetta per ignoranza o inettitudine. Se l’obbligo di diligenza, prudenza o perizia ha le sue fonti in cosiddette regole sociali, non previste in alcun tipo di norme, si ha c. generica; laddove invece viene posta in essere in violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline dal contenuto precauzionale, si ha c. specifica. In entrambi i casi il fondamento della c. risiede nell’inosservanza di regole cautelari, il cui rispetto avrebbe impedito il verificarsi dell’evento. Il contenuto di tali regole può consistere in un obbligo di astensione, in un obbligo di adozione delle misure cautelari richieste nel caso specifico, nell’obbligo di preventiva informazione o in un obbligo di controllo sull’operato altrui da parte di chi riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata. Prevedibilità ed evitabilità dell’evento sono i criteri fondamentali per stabilire il nesso causale tra la condotta colposa dell’agente e l’evento stesso. La prevedibilità si identifica nella possibilità per l’agente di rappresentare nella sua mente l’evento dannoso come conseguenza di una certa azione od omissione; essa va valutata in concreto, secondo un giudizio di prognosi postuma basato sul parametro normativo del cosiddetto ‘agente modello’ rapportato alle conoscenze specifiche del soggetto agente nella realtà. L’evitabilità consiste invece nell’effettiva possibilità di evitare l’evento dannoso o pericoloso oggetto delle regole precauzionali. Qualora l’agente, pur rappresentandosi l’eventualità che il fatto si verifichi, ne escluda la reale possibilità e non si astenga dal porre in essere la condotta vietata, si ha c. cosciente; se invece non prende in considerazione il verificarsi dell’evento, nemmeno a livello di rappresentazione, si ha c. incosciente. Si parla, infine, di c. impropria quando l’agente ha voluto l’evento non con dolo, ma per errore sul fatto di reato (art. 47 c.p.), per eccesso nella rappresentazione di una causa di giustificazione (art. 55 c.p.), o per erronea supposizione di circostanze di esclusione della pena (art. 59, ultimo co., c.p.).
Una particolare forma di c. è quella propria del professionista che compia un illecito penale nell’esercizio della sua attività. In merito ai criteri di individuazione e imputazione, parte della dottrina sostiene che anche questo tipo di c. debba essere valutato alla stregua dei parametri generali di negligenza, imprudenza e imperizia (ex art. 43 c.p.), con possibile rilevanza penale della c. lieve; altro orientamento dottrinario afferma invece l’applicabilità, anche in sede penale, dell’art. 2236 c.c., che prevede che il professionista possa rispondere fondamentalmente per imperizia e solo per c. grave. Fondamento di questa tesi è la salvaguardia della discrezionalità tecnica del professionista rispetto a situazioni complesse che richiedono anche l’assunzione di rischi; tipico in tal senso è l’esempio dell’attività medico-chirurgica.
Il senso di c. è il classico sintomo di melancolia, che può restare a livello di spiacevole sentimento diffuso, ma che si concretizza a volte in temi deliranti, esprimendosi in rimorsi laceranti, idee di espiazione e angosciose attese della punizione. Accanto a questa fenomenologia psicotica della c., che può giungere fino all’alienazione, si osservano molto spesso sentimenti più o meno intensi e diffusi di c. nei soggetti nevrotici, i quali elaborano continuamente tematiche di peccato (spesso sessuale). La psicanalisi fa derivare il senso di c. dal complesso edipico e dalla paura della punizione, e lo postula quale fondamento delle attitudini masochiste. O. Rank ha collegato il senso di c. alla volontà di indipendenza del bambino rispetto alle richieste e ai divieti dei genitori, con evidente rapporto di questa teoria con la originalis culpa in senso teologico.
Difesa legittima putativa determinata da colpa. Note giuridiche ed antropologiche di Margherita Basile