Sanzione afflittiva comminata dall’autorità giudiziaria a chi abbia commesso un reato.
La p. criminale, o p. in senso stretto, appartiene al genere delle sanzioni punitive, rivolte cioè a garantire l’osservanza della norma prima che se ne verifichi la violazione e ad asseverare la dissuasione una volta che tale violazione sia stata commessa.
Il problema teorico fondamentale in materia di p. è la sua stessa ragione di essere. Le risposte al quesito si inquadrano in tre orientamenti di base: la teoria retributiva, la teoria della prevenzione speciale e quella della prevenzione generale. Secondo la teoria retributiva la funzione della p. è compensare la colpevolezza del reo. La sua formulazione primitiva, come la legge del taglione «vita per vita, occhio per occhio, dente per dente» (Esodo 21, 24) corrisponde a una razionalizzazione e a una limitazione della vendetta privata. In seguito costituì il sostrato ideologico per l’affermazione del monopolio statuale nell’esercizio della potestà punitiva: la reazione all’illecito diventa un compito della comunità organizzata che si assume il compito di reprimere l’offesa punendo la colpevolezza del reo. La teoria della prevenzione speciale considera la p. uno strumento per impedire che il reo in futuro delinqua. Tale risultato può essere raggiunto o attraverso la rieducazione del reo, ossia il recupero morale interiore o la maturazione di una coscienza etico-civile; o mediante l’intimidazione, e cioè l’efficacia dissuasiva che la condanna o la sua esecuzione possono esercitare sulla psiche del reo; infine con la neutralizzazione, ovvero la segregazione carceraria del reo impedendone materialmente la possibilità di delinquere. La teoria della prevenzione generale sostiene, invece, che la p. serva a impedire che i consociati delinquano. La p. svolge, quindi, una funzione dissuasiva perché intimidisce i consociati con la minaccia di una conseguenza negativa, e al contempo di persuasione perché la comminatoria di una conseguenza negativa implica il messaggio che delinquere non è giusto. La teoria in esame tende a concepire la punizione del reo in chiave meramente strumentale nel senso che egli non viene punito per se stesso, ma per fornire un esempio agli altri.
Sotto il profilo dinamico, la pena attraversa tre fasi distinte: edittale, o della comminatoria legislativa (p. prevista dalla legge per il reato); giudiziale o della determinazione in concreto (p. applicata dal giudice al singolo reo); esecutiva o della espiazione effettiva (pena eseguita in base alla condanna). Le p. edittali si distinguono in p. principali e p. accessorie: le prime, elencate nell’art. 17 c.p., sono rispettivamente morte, ergastolo, reclusione e multa per i delitti, e arresto e ammenda per le contravvenzioni. Esse accompagnano immancabilmente la previsione del reato e sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna. Le p. accessorie, invece, sono elencate nell’art. 19 c.p., distinte in quelle per i delitti e per le contravvenzioni: le prime sono interdizione dai pubblici uffici, da una professione legale, dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione, estinzione del rapporto di impiego o di lavoro e la decadenza o sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori; le seconde consistono nella sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte e nella sospensione dagli uffici direttivi delle persona giuridiche e delle imprese. Comune ai delitti e alle contravvenzioni è la p. accessoria della pubblicazione della sentenza penale di condanna. Caratteristica di questa tipologia di p. è che si riferisce a determinati reati e consegue di diritto alla condanna come effetti penali di essa. Con l’introduzione della competenza penale del giudice di pace (d. legisl. 274/2000) sono sopraggiunti nuovi tipi di sanzione: la permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità.
Ammessa dalla grande maggioranza degli ordinamenti penali del passato e, con molti limiti, dagli ordinamenti penali odierni, la p. di morte ha conosciuto nella storia più d’un grado di gravità: accanto alla p. di morte semplice, il diritto penale dei secoli passati prevedeva una p. di morte aggravata con feroci e prolungati tormenti, riservata alla punizione di quei delitti che si definivano atroci. Così, oltre all’impiccagione e alla decapitazione, le due forme tradizionali d’esecuzione della p. di morte, fin dall’antichità ne sono state praticate altre, come l’annegamento, il rogo, la crocifissione, lo strangolamento, la lapidazione, lo squartamento, l’esposizione alle belve, il veleno.
Nell’epoca moderna sono stati poi introdotti sistemi nuovi, come la fucilazione, la sedia elettrica e la camera a gas, e perfezionamenti tecnici di sistemi tradizionali, come la decapitazione con la ghigliottina e lo strangolamento con la garrota. Tuttavia, già a partire dal Settecento, la p. di morte è stata attaccata a fondo, specialmente da importanti esponenti del pensiero illuminista, tra cui C. Beccaria (1764). Più in particolare, nella teoria generale del diritto l’istituto sembra ormai avviato a perdere qualsiasi legittimità etica e giuridica, sulla base di argomentazioni fattuali o di principio. Nel primo caso viene messa discussione l’opportunità sociopolitica della p. di morte, negandone il carattere di deterrenza o sottolineando come la p., in questo caso, perda ogni funzione rieducativa per via dell’irreparabilità. Le argomentazioni del secondo tipo, invece, contestano la liceità della p. di morte sul piano etico-religioso, ritenendola contraddittoria rispetto a un sistema di valori assoluti che si possono ricondurre a un unico postulato etico, ossia che la vita umana è sacra e indisponibile da parte di qualunque soggetto, pubblico o privato, a prescindere dal vantaggio che verrebbe alla comunità dalla soppressione di individui colpevoli e socialmente pericolosi.
In Italia, prima dell’unificazione politica, la p. di morte era praticata ovunque, tranne che in Toscana. Abolita nel 1889, in tutto il Regno d’Italia, dal codice Zanardelli, fu ristabilita dal fascismo per i più gravi delitti politici (1926) e comuni (1930); il d. l. lgt. 224/10 agosto 1944, la soppresse di nuovo e la sostituì con l’ergastolo. Ammessa dalla Costituzione soltanto «nei casi previsti dalle leggi militari di guerra» (art. 27, co. 4, Cost.) è stata eliminata anche da questo ambito con la l. 589/1994.
L’abolizione della p. di morte è oggetto di quattro trattati internazionali. Tre di essi ne prevedono il mantenimento soltanto in tempo di guerra: il 2° Protocollo al Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1989, ratificato da 56 Stati e firmato ma non ratificato da 8; il 6° Protocollo alla Convenzione di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, adottato dal Consiglio d’Europa nel 1982, ratificato da 45 Stati e firmato ma non ratificato dalla Federazione Russa; il Protocollo alla Convenzione americana sui diritti umani, adottato dall’Assemblea generale dell’Organizzazione degli Stati americani nel 1990, ratificato da 8 Stati e firmato ma non ratificato dal Cile. Il Protocollo 13 alla Convenzione di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, adottato dal Consiglio d’Europa nel 2002, ratificato da 33 Stati e firmato ma non ratificato da 10, richiede l’abolizione della p. di morte in ogni circostanza.
Nel 2009 i paesi o i territori che avevano abolito la p. di morte per legge erano 104 (96 totalmente, 8 per i crimini ordinari); 5 paesi attuavano una moratoria delle esecuzioni; altri 42 paesi erano abolizionisti di fatto, non eseguendo sentenze capitali da oltre dieci anni. La p. di morte era in vigore in 46 paesi.
Le p. canoniche consistono nella privazione di un bene di cui il fedele gode in quanto membro della Chiesa. Sebbene la punizione del colpevole in foro esterno abbia sempre come fine ultimo la correzione del delinquente e la tutela dell’ordine sociale, tuttavia si distinguono le p. medicinali, o censure, a scopo prevalentemente emendativo (scomunica, sospensione e interdetto), e le p. espiatorie, a scopo prevalentemente punitivo (privazione di un ufficio, proibizioni, dimissioni ecc.; cfr. Cod. iur. can., can. 1331-53). Sia le une sia le altre possono essere inflitte dal giudice (p. ferendae sententiae), oppure applicate ipso iure per il solo fatto di aver commesso un dato reato (p. latae sententiae); in questo secondo caso l’eventuale sentenza del giudice non può fare altro che dichiarare la p. in cui il reo è già incorso (sentenza dichiarativa).