In senso oggettivo, il complesso di norme giuridiche, che comandano o vietano determinati comportamenti ai soggetti che ne sono destinatari, in senso soggettivo, la facoltà o pretesa, tutelata dalla legge, di un determinato comportamento attivo od omissivo da parte di altri, o la scienza che studia tali norme e facoltà, nel loro insieme e nei loro particolari raggruppamenti.
Con l’espressione d. oggettivo o d. positivo ci si riferisce al complesso delle norme poste dall’autorità sovrana e che costituiscono l’ordinamento giuridico. Elementi essenziali del d. oggettivo sono le norme giuridiche, che fungono da regole per una determinata classe di rapporti intersoggettivi, e le fonti del d., da cui le norme scaturiscono. Strettamente connesse alla nozione di norma sono le nozioni di fattispecie e di sanzione. L’essere regola della norma si identifica con la creazione della cosiddetta fattispecie giuridica, cioè di un rapporto tra uno o più fatti e uno o più eventi qualificati come effetto dei primi, non dipendenti necessariamente sul piano della causalità materiale, ma affermati sul piano della causalità giuridica. D’altra parte, l’essere precetto della norma implica la sanzione, vale a dire l’applicazione di una pena quale conseguenza dell’azione che viola la norma, sebbene occorra sottolineare come tale concezione, di matrice normativistica, non renda pienamente conto della complessa fenomenologia della sanzione, e in particolare del modo in cui agiscono le cosiddette sanzioni positive o premiali, e più in generale gli imperativi senza sanzione. In ogni caso, l’applicazione concreta delle sanzioni previste dalle norme giuridiche implica, a sua volta, un accertamento circa la violazione dei comandi contenuti nelle norme. Questo accertamento, circondato di precise garanzie per i soggetti coinvolti, è il processo; qui l’azione e la norma diventano termini di un giudizio in forza del quale si stabilisce se l’azione considerata possa essere compresa nell’ambito di previsioni della norma e assoggettata alle sanzioni in quella previste. Nel suo perenne significato il processo presuppone la presenza e l’attività di un soggetto imparziale, che può essere l’arbitro di una controversia, ovvero il giudice in quanto espressione di una volontà obiettiva di ordine propria dello Stato. Tra i valori che concorrono a formare il significato globale del d. va anche ricordato il principio della certezza del d., secondo cui ogni individuo deve essere messo in condizione di conoscere la norma giuridica alla quale la sua azione è assoggettata poiché, diversamente, la norma non sarebbe un imperativo per l’azione, ma coercizione pura e semplice.
Il rapporto tra d. oggettivo e giustizia è stato ed è tuttora oggetto di discussione, nella riflessione filosofica e nella teoria generale del d.; in linea generale, l’idea che la norma, per poter funzionare adeguatamente, debba in qualche modo fondarsi sulla giustizia è stata sostenuta nell’ambito delle dottrine giusnaturalistiche. Di contro, nelle posizioni di matrice giuspositivistica è emersa la tendenza a separare la questione del d. da quella della giustizia.
Tra le varie suddivisioni del d. oggettivo rimane centrale quella tra d. pubblico e d. privato, le cui origini risalgono all’epoca romana.
Il pensiero moderno tende a considerare norme di d. pubblico quelle che regolano l’organizzazione e la funzione dello Stato o, più in generale, degli enti forniti di sovranità.
Parte fondamentale del d. pubblico è il d. costituzionale, ossia l’insieme delle norme che definiscono la forma del governo, i diritti e i doveri fondamentali dei cittadini, il funzionamento degli organi supremi dello Stato e i rapporti relativi alle posizioni dei cittadini e di tutti i soggetti sottoposti all’ordinamento giuridico interno. Fonti principali del d. costituzionale sono la Costituzione, le leggi costituzionali e le sentenze della Corte costituzionale. I rapporti dello Stato e degli enti autarchici operanti come persone giuridiche pubbliche per i fini dell’amministrazione, sia tra loro sia con i privati, sono invece oggetto del d. amministrativo, che si esplica soprattutto attraverso gli atti e i provvedimenti.
Particolare rilievo assume, nel d. pubblico, il d. penale, che disciplina la materia dei reati e delle pene, mentre il codice penale e le altre leggi penali individuano in maniera minuziosa le varie fattispecie aventi rilievo penale. Nell’ordinamento italiano la Costituzione detta i principi fondamentali ai quali deve attenersi la legislazione penale: legalità; irretroattività; riserva assoluta di legge formale; non ;ultrattività della legge penale; e responsabilità penale personale (art. 27 Cost.). Completano il quadro il principio dell’indipendenza e della precostituzione del giudice (o principio del giudice naturale), in base al quale la Costituzione fa divieto di fissare giudici per casi singoli, e il principio della territorialità, per cui la legge penale italiana obbliga tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato, salvo le eccezioni stabilite dal d. pubblico e internazionale. Il d. penale si distingue, inoltre, in generale (o comune) e speciale, a seconda che valga per tutti gli appartenenti alla comunità statale o solo per una categoria di persone in base alla loro qualità o alla speciale condizione in cui si trovano. Nel secondo gruppo rientrano, in particolare, il d. penale militare e quello della navigazione.
Il complesso delle norme giuridiche che disciplinano l’attuazione del d. oggettivo, in quanto avviene attraverso il processo, è il d. processuale. Tali norme hanno in prevalenza carattere strumentale e regolano l’organizzazione, i requisiti, l’attività degli organi chiamati ad agire nel processo, i mezzi di prova e gli effetti degli atti processuali. Il d. processuale civile, il d. processuale penale, il d. processuale costituzionale e il d. processuale amministrativo, considerati nel loro complesso e nelle loro strette relazioni, costituiscono il d. processuale semplicemente detto o d. processuale generale. Tuttavia, l’autonoma elaborazione, in distinti codici (➔ codice), delle norme processuali civili e penali fa escludere che l’una delle due legislazioni penali possa considerarsi legge comune rispetto all’altra e rende assai delicato stabilire fino a che punto i principi dell’un processo possano trasportarsi all’altro, nel silenzio della legge. Invece, è pacifico che le norme processuali civili, in quanto non abbiano carattere eccezionale, costituiscano d. comune anche per il processo amministrativo e per quello costituzionale.
L’insieme delle norme che regolano i rapporti fra gli individui, oppure fra essi e gli enti pubblici, qualora questi ultimi non esplichino funzioni di potere politico e sovrano, costituisce il d. privato. Esso si incentra, in particolare, sulla nozione di persona fisica e giuridica, in quanto soggetto di relazioni paritarie che attengono sia alla sfera personale sia a quella patrimoniale.
Branca fondamentale del d. privato è il d. civile, ossia il complesso delle norme che si applicano all’universalità dei cittadini, e che concernono: il matrimonio, la famiglia e la filiazione legittima e naturale; i d. reali, relativi cioè alla natura giuridica delle cose e alla disciplina dei d. di proprietà e di ogni altro d. sulle cose; il d. delle obbligazioni, che comprende la dottrina dei rapporti obbligatori; e il d. successorio, che contiene i principi della successione a causa di morte.
Altro settore del d. privato è il d. commerciale, la cui peculiarità consiste nel regolare le attività dei soggetti economici e i relativi obblighi. Sebbene ricondotto all’interno del d. civile già dalla codificazione del 1942, il d. commerciale ha mantenuto una sua autonomia, scientifica oltre che didattica, anche in virtù della notevole dinamicità che lo caratterizza. Incentrato sull’istituto dell’impresa, e quindi sul d. societario, comprende, tra l’altro, le norme che regolano il mercato, la concorrenza, lo sfruttamento economico di invenzioni e creazioni intellettuali.
Si fa tradizionalmente rientrare nel d. privato anche il d. del lavoro, se non altro per il suo nucleo essenziale. Esso comprende, in senso stretto, il complesso delle norme attinenti al rapporto di lavoro subordinato, incluse quelle relative alla disciplina delle fonti non statuali di regolamentazione del rapporto stesso. Alcuni autori, però, propenderebbero a riconoscere autonomia a quest’ultima parte del d. del lavoro, cui viene attribuita la denominazione di d. sindacale. Tra le fonti del d. del lavoro sono da ricordare, oltre la legge, i contratti collettivi di lavoro, e gli usi.
Con l’espressione d. dell’economia si intende invece un settore relativamente recente degli studi giuridici che analizza la regolamentazione delle attività economiche sulla base di un metodo interdisciplinare; il suo campo di indagine risulta pertanto circoscritto, in linea generale, agli ordinamenti settoriali dell’attività bancaria, finanziaria, assicurativa. Al d. dell’economia è correlato il ‘metodo dell’economia nella legislazione’, la cui finalità consiste nell’introdurre i concetti economici nel linguaggio giuridico.
Il concetto di d. soggettivo è uno dei più importanti e dibattuti dell’intera scienza giuridica. Secondo l’opinione di alcuni giuristi (facenti capo a B. Windscheid), il diritto soggettivo sarebbe un potere o una signoria della volontà, attribuita al singolo dal diritto oggettivo. Secondo altri (R. von Jhering) sarebbe invece, sostanzialmente, un interesse protetto. Entrambe queste teorie hanno suscitato forti dubbi. Contro la prima si è fra l’altro osservato che la volontà del titolare del diritto (o di un suo rappresentante), se è necessaria per l’esercizio del d. stesso, non lo è per la sua esistenza; altrimenti non si spiegherebbe come un diritto possa costituirsi a favore di un incapace o anche, semplicemente, di uno che ignori di averlo. Contro l’altra sta anzitutto l’obiezione che l’interesse, se ne costituisce lo scopo, non esaurisce però l’essenza del d.; e, in secondo luogo, la circostanza che non tutti gli interessi garantiti dalla legge costituiscono diritti soggettivi. Secondo altre definizioni proposte, il d. soggettivo sarebbe la facoltà accordata dal diritto oggettivo a un singolo individuo di esigere una determinata condotta da altri soggetti, ovvero la garanzia normativa di una utilità (bene, prestazione) sostanziale e diretta a favore del soggetto titolare. In ogni caso, può dirsi che il diritto soggettivo rappresenta il massimo grado di tutela di un interesse individuale.
La principale distinzione all’interno dei d. soggettivi è quella che intercorre tra d. assoluti e d. relativi. I d. assoluti si caratterizzano per il fatto che il loro titolare dispone immediatamente del bene della vita che ne forma oggetto e non ha quindi bisogno dell’altrui cooperazione per soddisfare il suo interesse. Ai d. assoluti corrisponde in capo a tutti gli altri consociati un dovere generico di astenersi da ogni comportamento che possa in qualche modo interferire con l’esercizio del diritto da parte del titolare. Per comune insegnamento sono considerati d. assoluti sia i d. della personalità, i quali sono riconosciuti ad ogni individuo a tutela di suoi interessi fondamentali (ad esempio: l’onore, la reputazione, l’identità personale) e sono imprescrittibili ed inalienabili, sia i d. reali, i quali hanno ad oggetto una cosa determinata (res) e possono essere di godimento o di garanzia a seconda se attribuiscono al titolare poteri di godimento o di garanzia. D. reale per eccellenza è la proprietà, tutelato dalla Costituzione (art. 42), che attribuisce al titolare il d. di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico (art. 832 c.c.). Altri d. reali di godimento sono la superficie, l’enfiteusi, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, l’uso, le servitù; d. reali di garanzia sono il pegno e l’ipoteca. L’opinione di gran lunga prevalente nega che i privati possano costituire d. reali diversi da quelli previsti dalla legge (Autonomia privata): si parla di numerus clausus, ovvero di tipicità dei d. reali. I d. relativi si caratterizzano perché il loro titolare non dispone immediatamente del bene della vita che ne costituisce oggetto, ma, per soddisfare il suo interesse, dovrà rivolgersi ad uno o più soggetti determinati o determinabili. I d. relativi si distinguono in d. di credito, che consistono nel potere di pretendere un certo comportamento da parte di uno o più soggetti che si trovano così in una posizione di obbligo e che sono quindi tenuti a porre in essere quel comportamento (ad esempio, Tizio è debitore di Caio di una somma di denaro), e d. potestativi (categoria che tuttavia è più controversa), che consistono nel potere di modificare l’altrui sfera giuridica mediante un atto unilaterale senza che il destinatario, che si trova in una posizione di soggezione, possa fare alcunché per opporsi (ad esempio, il diritto di recesso). Tra i d. di credito, si segnalano i d. personali di godimento, i quali presentano numerose affinità con i d. reali. Conferiscono, sulla base di un rapporto obbligatorio, il potere di godere di un determinato bene nella cui disponibilità materiale viene immesso il creditore; il Codice civile (art. 1380) stabilisce che se, con successivi contratti, una persona concede a diversi contraenti un d. personale di godimento relativo alla stessa cosa, il godimento spetta al contraente che per primo lo ha conseguito. Se nessuno dei contraenti ha conseguito il godimento, è preferito quello che ha il titolo di data certa anteriore. Esempio tipico di diritto personale del godimento è quello del conduttore sul bene concesso in locazione.
Con l’espressione d. quesiti (o d. acquisiti) si indicano invece quei d. che sono entrati nel patrimonio di un soggetto ai quali, perciò, non si applica la legge nuova. Tra questi, spiccano i d. acquisiti dai lavoratori, in quanto su di essi non può incidere la contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori. All’interno di questa categoria, oltre ai d. di natura personale costituzionalmente garantiti, possono essere ricompresi tutti i d. di natura patrimoniale: d. alla retribuzione, d. al trattamento di fine rapporto, indennità speciali. Vi rientrano anche i d. sindacali. Inoltre, in alcune situazioni la stessa prestazione lavorativa, che si configura in via generale come un obbligo, viene a essere essa stessa un d., come nel caso dell’apprendistato, nel quale lo svolgimento dell’attività è finalizzato alla formazione professionale del lavoratore, o del lavoratore in prova, che ha interesse a completare il periodo contrattualmente previsto al fine di essere definitivamente assunto.
Per d. costituzionali si intendono generalmente tutti quei d. che vengono riconosciuti, proclamati, e/o garantiti in documenti costituzionali. La nozione di d. costituzionali è una nozione onnicomprensiva: in molti testi costituzionali si parla, infatti, di «diritti fondamentali» (artt. 130 ss. Cost. Francoforte 1849; art. 109 ss. Cost. Germania 1919; art. 1 ss. Legge fondamentale Germania 1949; artt. 10, co. 2, e 15 ss. Cost. Spagna 1978; art. 7 ss. Cost. Svizzera 1999); in altri, in nome di una visione universalistica, si parla, invece, di «diritti dell’uomo» (Dichiarazione di indipendenza statunitense del 1776; Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, del 1793 e del 1795; Preambolo Cost. Francia 1946; Preambolo Cost. Francia 1958); altri ancora parlano di «diritti inviolabili» (art. 2 Cost.; art. 10, co. 1, Cost. Spagna 1978); altri di «libertà pubbliche» (art. 13, co. 1, Cost. Spagna 1978) e via discorrendo.
In virtù dello stretto legame con il costituzionalismo prima moderno e poi contemporaneo, è opinione comune che i d. costituzionali nascano tra la fine del XVII e il XVIII secolo, in corrispondenza con le tre grandi rivoluzioni dell’età moderna (inglese, americana e francese). D’altra parte, il legame tra i d. costituzionali e il costituzionalismo consente anche di porre una linea di demarcazione tra le dichiarazioni medioevali dei d. (ad esempio, la Magna Charta Libertatum del 1215) e quelle moderne: in virtù del carattere particolaristico degli ordinamenti giuridico-politici del medioevo, le libertà riconosciute nei coevi documenti si caratterizzavano infatti come meri privilegi, dei quali il singolo beneficiava in ragione della sua appartenenza a uno specifico ordine e non avevano portata potenzialmente universale. Tuttavia, questo non deve portare a ritenere che l’affermazione dei d. costituzionali non sia la risultante di un lungo processo storico: se è vero, infatti, come ha sottolineato Villey, che i d. umani nascono e proliferano solo nel XVII secolo, è anche vero che, come è stato evidenziato da Oestreich, non può essere sottaciuta l’importanza della tradizione greco-romana e di quella cristiana nell’elaborazione delle categorie concettuali proprie del costituzionalismo moderno e contemporaneo.
Va detto che le prime carte costituzionali erano espressione di una visione di tipo giusnaturalistica: i d. costituzionali venivano così concepiti come pre-stauali, che lo Stato doveva limitarsi a riconoscere e garantire. Non è un caso, quindi, che la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 parli di «diritti inalienabili» (vita, libertà, perseguimento della felicità) e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 di «diritti naturali e imprescrittibili» (libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione). Tuttavia, a partire dal XIX secolo, in corrispondenza del tramonto, sul piano filosofico, delle posizioni giusnaturalistiche, il rapporto tra Stato e d. costituzionali si è invertito: questi ultimi hanno perso l’originaria valenza antagonistica nei confronti dello Stato ed anzi sono stati interpretati in un contesto che prevedeva l’assorbimento della società civile e dell’individuo nella superiore unità dell’organismo statale, sulla base delle riflessioni di Hegel. Muovendo da tale premessa, C.F. von Gerber è arrivato, in particolare, a parlare dei d. dei sudditi come meri «diritti riflessi», cioè come meri effetti riflessi di un eventuale ritrarsi del potere statale dalla sfera degli individui; e, sulla stessa scia si è collocato anche G. Jellinek – ma anche studiosi italiani quali Orlando e Romano – con la sua teoria dei «diritti pubblici soggettivi», effetto dell’autolimitazione dello Stato.
Una tradizionale tripartizione dei d. costituzionali è quella tra d. civili, d. politici e d. sociali. Da un punto di vista storico-comparatistico, come rimarcato in particolare da Marshall, i d. civili sono i d. che si affermano per primi, e cioè che vengono proclamati sin dai primi documenti costituzionali: essi si esplicitano essenzialmente nella pretesa di non subire ingerenze da parte dei poteri pubblici e sono, perciò, d. «negativi di difesa». Tra di essi rientrano i diversi aspetti della libertà individuale (di manifestazione del pensiero, di religione, di stampa, di circolazione, di stipulazione dei contratti ecc.), il d. ad avere un giusto processo (con le relative garanzie dagli arresti arbitrari), il d. di proprietà ecc., secondo la compiuta e rigorosa teorizzazione formulata, in particolare, da B. Constant.
I d. politici, invece, sono diritti di partecipazione e spettano all’individuo in quanto membro di una comunità politica. Il d. politico per eccellenza è l’elettorato attivo e passivo (Diritto di voto). Tuttavia, va detto che la piena affermazione dei d. politici non è stata altrettanto rapida che quella dei d. civili: se, infatti, il suffragio universale maschile si è affermato in Francia a partire dal 1848 (art. 24 Cost. Francia 1848; art. 1 l. cost. 25.2.1875), in Italia e in Gran Bretagna si è dovuto attendere il primo dopoguerra e, per il voto alle donne, addirittura il secondo dopoguerra. A differenza dei d. civili, che possono spettare a tutti gli individui in quanto tali, i diritti politici riguardano tendenzialmente i soli cittadini (Cittadinanza. Diritto costituzionale), anche se in molte esperienze costituzionali odierne si è ormai cominciato a mettere in discussione tale assunto, permettendo agli stranieri legalmente residenti per un certo numero di anni di votare alle elezioni amministrative.
Per d. sociali si intendono, infine, sia i d. di partecipazione correlati alla posizione assunta dal singolo nella società (c.d. d. sociali di partecipazione), come, ad esempio, la libertà sindacale e lo sciopero, sia quei d. a prestazioni positive da parte dello Stato (c.d. d. sociali di prestazione), che realizzano il c.d. Stato sociale (Forme di Stato e forme di governo): dal d. al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla previdenza sociale ecc. Se non vi è dubbio che un organico sistema di d. sociali ha trovato accoglimento nei testi costituzionali solo a partire dalla Costituzione tedesca del 1919, mentre gli studiosi sono molto più divisi sugli antecedenti storici, tra cui spicca, in ogni caso, la Costituzione francese del 1848.
A proposito del d. costituzionali, alcuni studiosi preferiscono parlare di «generazioni» di diritti. La prima sarebbe formata dai classici d. «negativi» e da un primo nucleo di d. di partecipazione alla vita pubblica (quali, ad esempio, un elettorato attivo e passivo alquanto ristretto e il diritto di riunione e di associazione, sebbene con forti limitazioni), che troverebbe la sua esplicitazione nei documenti costituzionali elaborati tra il XVIII ed il XIX secolo. A partire dalla seconda metà del XIX secolo, in virtù dello sviluppo dell’ideologia socialista e del movimento dei lavoratori, si comincerebbe a delineare una seconda generazione di diritti, che troverebbe la sua esplicitazione nelle carte costituzionali del XX secolo, caratterizzate, oltre che dalla più completa valorizzazione dei diritti di riunione e di associazione (in particolare, in campo politico e sindacale), anche dai meccanismi di redistribuzione e di riequilibrio delle disuguaglianze di fatto propri dello Stato sociale. A partire dalla seconda metà del XX secolo, poi, comincerebbe a delinearsi una terza generazione di d. costituzionali, caratterizzata, da un lato, da un sempre più esteso processo di universalizzazione (cfr. la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 o la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950), e, dall’altro, dall’emersione di ulteriori tipologie di d. (i cd. «nuovi diritti»), tra i quali spiccano le problematiche riguardanti l’ambiente e la qualità della vita.
Un problema fondamentale che concerne l’elaborazione odierna dei diritti costituzionali è se essi siano un catalogo «chiuso» o aperto. La grande diffusione di clausole generali nelle Costituzioni europee del secondo dopoguerra (basti pensare, oltre all’art. 2 Cost., anche all’art. 2 Legge fondamentale Germania 1949, ove si parla di «libero sviluppo della personalità») è stata valorizzata in maniera discontinua dalla giurisprudenza delle corti costituzionali e, in particolare, nell’esperienza italiana vede attualmente la Corte costituzionale orientata su posizioni di grande prudenza, nel senso di richiedere tendenzialmente un ancoraggio costituzionale non solo all’art. 2 Cost. ma anche ad uno dei d. costituzionalmente enumerati.
Lo stesso genere di dibattuto si è avuto anche negli U.S.A., in corrispondenza del processo di espansione dei d. stessi, operato, tra la metà degli anni cinquanta del Novecento e il ventennio successivo, dalle Corti Warren e Burger. Va segnalato come, in quello specifico contesto, le interpretazioni «chiuse» dei d. costituzionali hanno espresso una visione restrittiva sul piano delle libertà individuali e collettive, come attesta la circostanza che, proprio negli U.S.A. la polemica più dura contro l’interpretazione «aperta» del catalogo dei d. costituzionali sia stata portata avanti da giudici dichiaratamente conservatori, come Bork e Scalia.
Nella seconda metà del Novecento si è venuta affermando anche la tematica dei nuovi soggetti di d. e si è iniziato a discutere della possibilità di attribuire d. morali e giuridici a esseri ai quali in precedenza veniva data una rilevanza soltanto marginale e indiretta, e in particolare agli animali.
Dal punto di vista etico-filosofico la ‘questione animale’ è stata sollevata dal libro di P. Singer Animal liberation (1975). Nella discussione che ne è seguita sono emerse due impostazioni principali. L’una, di stampo utilitaristico e consequenzialista, è rivolta soprattutto a dimostrare che esiste il dovere di non infliggere sofferenze, non solo all’uomo ma a qualsiasi altra creatura sensibile. L’altra, di matrice giusnaturalistica, afferma l’esistenza di veri e propri d. naturali di tutti gli esseri viventi. Le principali questioni attorno a cui ruota la discussione sono: il d. a non subire sofferenze, che si riferisce all’allevamento intensivo di animali, alla caccia, alla sperimentazione scientifica, il d. alla libertà, riguardante gli animali utilizzati in zoo, parchi e circhi, e il d., per gli animali domestici o da compagnia, a essere accuditi e non abbandonati.
Dal punto di vista normativo va segnalata, in materia di maltrattamenti nei confronti degli animali, la L. 189/2004 (➔ maltrattamento degli animali).
Il d. internazionale pubblico costituisce un sistema giuridico separato e distinto rispetto agli ordinamenti interni degli Stati, volto a regolare i rapporti tra gli Stati appartenenti alla comunità internazionale. La sua nascita è storicamente legata alla formazione degli Stati moderni, che, in seguito alla Pace di Westfalia (1648), hanno dato vita al primo nucleo della odierna comunità. Lo Stato è, infatti, il soggetto per eccellenza del d. internazionale pubblico; la consuetudine è la fonte primaria dell’ordinamento internazionale, e vincola tutti gli Stati; mentre l’ accordo costituisce fonte di secondo grado, vincola solamente gli Stati contraenti, può essere bilaterale o multilaterale e vertere su qualsiasi materia gli Stati intendano regolare, ma senza entrare in contrasto con le norme imperativa del d. internazionale (per lo ius cogens ➔ ius). Fonti di terzo grado sono gli atti vincolanti delle organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, NATO, Consiglio d’Europa ecc.) istituite dagli Stati per meglio tutelare i loro interessi e favorire la cooperazione internazionale.
Importante settore del d. internazionale pubblico è la parte del d. bellico volta a tutelare la popolazione civile e inerme ( d. di Ginevra) o a porre limiti all’impiego di mezzi e metodi di guerra ( d. dell’Aia) in situazioni di grave emergenza (per es., in caso di conflitto armato). Il d. internazionale umanitario non va confuso con il d. internazionale dei diritti umani, giacché si applica in situazioni di guerra (interna o internazionale), ha portata generale (si impone a qualsiasi parte del conflitto, aggredito e aggressore) ed è inderogabile. Inoltre, non si occupa di ius ad bellum, ossia delle ragioni per cui ha inizio un determinato conflitto, ma solo dello ius in bello, ossia di regolamentare la condotta delle ostilità, a prescindere dal motivo per cui hanno avuto inizio.
Oltre che nelle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907, il d. umanitario ha trovato sistemazione nelle Convenzioni di Ginevra del 1906, 1929 e 1949. Come ha precisato la Corte internazionale di giustizia (Parere sulla liceità delle armi nucleari, 1996), le due branche si sono fuse in un unico sistema di diritto. Fondamentali sono state, in questo senso, le quattro Convenzioni di Ginevra elaborate nell’agosto del 1949: per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna; per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate sul mare; sul trattamento dei prigionieri di guerra; sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra. A queste convenzioni vanno sommati i protocolli aggiuntivi codificati nel 1977, rispettivamente sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali e dei conflitti armati non internazionali.
Le categorie tutelate dalla Convenzione di Ginevra sono: la popolazione civile; i feriti; i naufraghi; gli ammalati; i caduti; i prigionieri di guerra. In seguito all’ampliamento del concetto di ‘vittima’ dei conflitti armati, la definizione è stata estesa, mediante specifiche convenzioni internazionali (per es., la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato), anche a oggetti diversi dalle persone, e precisamente: ai beni culturali e all’ambiente.
Caratteristica comune di questo corpus di convenzioni è la ‘clausola Martens’, secondo la quale le persone civili e i combattenti sono protetti dai d. in uso al momento e nel luogo in questione e dai principi umanitari dettati dalla coscienza pubblica. Le norme contenute nelle Convenzioni di Ginevra sono state ritenute dalla Corte internazionale di giustizia parte integrante del d. internazionale consuetudinario, nella sentenza del 1986 sulle Attività militari e paramilitari in Nicaragua. Nelle sentenze del 1995 e del 1997 sul caso Tadić, il Tribunale per i crimini commessi nella ex Iugoslavia ha affermato, in sintonia con la Corte internazionale di giustizia, che non solo i principi umanitari contenuti nell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, ma anche quelli del Protocollo addizionale applicabile nei conflitti non internazionali costituiscono norme inderogabili del d. internazionale generale.
Il d. internazionale ha per lungo tempo ignorato i rapporti tra lo Stato e l’individuo (a eccezione delle norme sulla protezione diplomatica), sulla base del principio della ‘non ingerenza degli affari interni’, sicché la tutela dei d. umani rientrava nella sfera di competenza interna di ogni singolo Stato. Tuttavia, in seguito alle flagranti violazioni dei d. umani commesse durante il secondo conflitto mondiale, la loro tutela è divenuta oggetto di norme internazionali, sia pattizie che generali.
La Carta delle Nazioni Unite (1945) già conteneva, nel preambolo riferimenti ai d. fondamentali dell’uomo ed esortava le nazioni (art. 1) a sviluppare relazioni amichevoli, fondate sul d. all’autodeterminazione dei popoli, e a promuovere e incoraggiare il rispetto dei d. umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione. Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea generale adottò inoltre, con risoluzione 217 (III), la Dichiarazione universale dei d. dell’uomo che, pur non avendo carattere vincolante, pose le basi per l’affermazione di tali d. a livello internazionale. Tra questi, vanno anzitutto ricordati i d. civili politici (cosiddetti di ‘prima generazione’, di matrice occidentale), che comportano soprattutto obblighi di astensione per gli Stati: il d. alla non discriminazione, all’integrità fisica, alla vita, alla libertà personale, di pensiero, di religione. Ci sono poi i d. economici, sociali e culturali (cosiddetti di ‘seconda generazione’, propugnati in passato dai paesi socialisti), che comportano obblighi di agire da parte degli Stati: d. al lavoro, alla salute, all’istruzione.
Negli anni 1970, i paesi in via di sviluppo sostennero l’esistenza di d. collettivi o della solidarietà (cosiddetti di ‘terza generazione’), tra cui il d. allo sviluppo, alla pace, a un ambiente salubre. Questi ultimi possono essere considerati d. solo in senso lato, in quanto è difficile individuare il titolare degli obblighi corrispondenti, configurandosi piuttosto quali interessi collettivi delle comunità. In seguito si è venuta delineando una ‘quarta generazione’ di d. umani, connessi all’impiego delle nuove tecnologie soprattutto nel campo della genetica e dell’informatica. Tale classificazione ha carattere descrittivo e non indica una gerarchia, in quanto i d. umani riconosciuti a livello internazionale si caratterizzano per essere indivisibili e interdipendenti.
Vanno inoltre menzionate le numerose convenzioni in materia stipulate grazie all’azione dell’ONU: la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948); la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965); il Patto sui diritti civili e politici (con due Protocolli addizionali) e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali (1966); la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (1979, con un Protocollo facoltativo); la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1984); e la Convenzione sui diritti del minore (1989, con due Protocolli facoltativi). Tra gli accordi stipulati a livello regionale occorre infine ricordare: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950, integrata da 14 Protocolli), che ha istituto la Corte europea dei diritti umani, cui possono rivolgersi direttamente gli individui; la Convenzione americana dei diritti umani (1969); e la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981).
La protezione dei d. umani non era prevista originariamente nei Trattati istitutivi delle comunità europee. Solamente a partire dagli anni 1970 si è posto il problema di un eventuale conflitto tra norma comunitaria e d. della persona. È stata la giurisprudenza della Corte di giustizia europea a conferire il rango di principi generali del d. comunitario ai d. umani. A partire dall’adozione dell’Atto Unico (1976), i d. umani sono entrati ufficialmente nel sistema comunitario. Con l’istituzione dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht del 1992, e Trattato di Amsterdam del 1997), i d. umani sono divenuti valori fondamentali dell’Unione e principi generali del d. comunitario (Trattato sull’Unione Europea, art. 6). È stata inoltre prevista una procedura di sospensione dal godimento dei d. derivanti dallo status di membro dell’Unione in caso di grave e persistente violazione dei d. umani, e nel rispetto dei d. umani si è riconosciuto un prerequisito per i paesi che intendano aderire all’Unione. Il 7 dicembre 2000 è stata poi adottata a Nizza la Carta dei d. fondamentali, che ha dato particolare rilievo a sei valori fondamentali: la dignità, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza, e la giustizia. A seguito del Trattato di Lisbona del 2007, la Carta è allegata al Trattato sul funzionamento dell’UE e, come precisato all’art. 6, n. 1 del Trattato, “ha lo stesso valore giuridico” di quest’ultimo. Sempre l’art. 6, al n. 2, dichiara espressamente l’adesione dell’UE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, soggiungendo che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione “e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del d. dell'Unione in quanto principi generali”.
Per quanto concerne le relazioni esterne dell’Unione, tra gli obiettivi della politica estera e di sicurezza comune vi è lo sviluppo e il consolidamento della democrazia e dello stato di d., nonché il rispetto dei d. umani e delle libertà fondamentali. Il rispetto dei d. umani è una condizione indispensabile per i paesi terzi che intendono stringere accordi commerciali o di altro genere (cosiddetta clausola di condizionalità).
L’insieme delle norme poste in essere dai trattati istitutivi della Comunità europea (Trattato sulla Comunità Europea, Trattato sull’Unione Europea), e il d. derivante da questi trattati e dalle fonti atipiche costituisce un d. di tipo particolare rispetto al d. internazionale. Infatti, mentre le norme del d. internazionale si rivolgono esclusivamente ai soggetti internazionali, quelle del d. dell’Unione Europea hanno come destinatari sia gli Stati membri, sia i soggetti di d. interno (regolamenti); esse hanno caratteri propri tanto del d. interno (per es., l’esistenza di un sistema accentrato di accertamento e attuazione del d.), quanto del d. internazionale (per es., l’origine pattizia). Le fonti comunitarie possono essere suddivise in fonti primarie (i trattati istitutivi e la giurisprudenza della Corte di giustizia) e secondarie (gli atti delle istituzioni comunitarie). Il d. dell’Unione può avere efficacia vincolante (regolamenti, direttive, decisioni) o non vincolante (raccomandazioni, pareri) ed è dotato di un sistema sanzionatorio e coercitivo che ne garantisce l’attuazione (la Corte di giustizia). Con riferimento agli ordinamenti interni, tali norme si pongono su un piano superiore a quelle degli ordinamenti giuridici degli Stati membri (per il principio della prevalenza del d. comunitario sul d. interno). I regolamenti, per il solo fatto della loro emanazione a livello comunitario, sono direttamente applicabili negli ordinamenti interni; tale connotato è rafforzato dal fatto che gli Stati membri hanno trasferito all’Unione, in determinate materie, una parte delle proprie prerogative e competenze, non potendo più emanare normative in contrasto con gli atti dell’Unione.
Con tale espressione, coniata dal giurista americano J. Story (Commentaries on the conflict of laws, 1834), si designa l’insieme delle regole e dei principi che disciplinano i rapporti giuridici di d. privato (d. delle persone, d. della famiglia, d. delle successioni, d. dei contratti, d. delle società) aventi carattere internazionale. Come altre parti del d. interno dei singoli Stati, anche il d. internazionale privato può essere oggetto di norme internazionali. Sono tali le convenzioni di d. internazionale privato, cioè gli accordi internazionali che fanno obbligo agli Stati di introdurre nel proprio ordinamento alcune particolari norme di d. internazionale privato in modo da raggiungere la maggiore uniformità possibile delle varie legislazioni. Rientrano in questa categoria le convenzioni dell’Aia del 12 giugno 1902 per i conflitti di legge in materia di matrimonio, di divorzio e separazione personale, di tutela dei minori; quella del 17 luglio 1905 sugli effetti del matrimonio relativamente ai d. e doveri dei coniugi nei rapporti personali e patrimoniali; le due convenzioni di Ginevra del 7 giugno 1930 e del 19 marzo 1931 concernenti la cambiale e il vaglia cambiario, l’assegno bancario. Norme internazionali relative al d. internazionale privato possono essere contenute anche in convenzioni collettive che, in linea principale, concernono materie diverse dal d. internazionale privato, qual è per es., con i suoi art. 4 e 5, la convenzione di Ginevra del 23 ottobre 1933 sullo statuto dei profughi. Alcune materie sono regolate da trattati internazionali che sono stati elaborati in seno a varie organizzazioni internazionali, come la Conferenza dell’Aia.
Nell’ordinamento giuridico italiano, le norme fondamentali di d. internazionale privato sono racchiuse nella l. 218/1995 (di riforma del sistema italiano del d. internazionale privato), che determina l’ambito della giurisdizione italiana, pone i criteri per l’individuazione del d. applicabile a fatti e rapporti che presentano elementi di estraneità, e disciplina l’efficacia delle sentenze e degli atti stranieri (art. 1). La struttura tipica della norma di d. internazionale privato si articola attraverso due elementi: la norma, che descrive in maniera astratta, cioè per categorie, i fatti che intende disciplinare; e il criterio di collegamento, volto a identificare l’ordinamento competente a regolare un rapporto che presenta carattere di estraneità rispetto all’ordinamento interno e che il legislatore prende in considerazione ai fini dell’individuazione dell’ordinamento straniero da richiamare.
Per quanto concerne il regime di d. internazionale privato dei d. reali, la l. 218/1995 (capo 8°, art. 51-55) detta un criterio di collegamento generale, quello della legge del luogo di situazione della cosa, per disciplinare il possesso, la proprietà e gli altri d. reali sui beni mobili e immobili (art. 51). La stessa legge ne regola l’acquisto e la perdita, salvo che in materia successoria e nei casi in cui l’attribuzione di un d. reale dipenda da un rapporto di famiglia o da un contratto. L’articolo in questione conferma, nella sostanza, la disciplina contenuta nella legislazione precedente (disp. prel. c.c., art. 22). Il criterio della lex rei sitae è stato scelto dal legislatore italiano al fine di tutelare i terzi, i quali devono essere messi nelle condizioni di accertare la titolarità e le prerogative del titolare sulla base di una legge facilmente individuabile. Tale è sicuramente la lex rei sitae (altrettanto, invece, non si potrebbe dire per la legge nazionale del proprietario). Per quanto concerne i d. reali su beni in transito, l’art. 52 dispone che siano regolati dalla legge del luogo di destinazione. L’usucapione di beni mobili è invece regolata dalla legge dello Stato in cui il bene si trova al compimento del termine prescritto (art. 53). Con riferimento ai d. sui beni immateriali (proprietà artistica, letteraria e industriale), si applica la legge dello Stato per il quale si richiede la protezione del bene immateriale (art. 54). La pubblicità degli atti di costituzione, trasferimento ed estinzione dei d. reali è regolata dalla legge dello Stato in cui il bene si trova al momento dell’atto (art. 55).
Come attestano le testimonianze archeologiche, negli imperi babilonese, assiro, ittita, nonché in regni minori, si sviluppò un’intensa attività giuridica, che culminò nel 2° millennio a.C., con l’emanazione di leggi composte da vere e proprie norme, tra cui le leggi di Ur-numma, il codice di Lipit-Ishtar, le leggi di Eshnunna, e il famoso Codice di Hammurabi. Si trattava spesso di norme particolari, che prendevano spunto da casi specifici, mentre quelle di carattere generale si riferivano per lo più alla consuetudine. Dai reperti pervenutici, si desume inoltre che, in materia penale, la vendetta privata coesisteva con la repressione giudiziaria promossa dai tribunali, e, in alcuni casi, con l’ordalia. Rispetto a quello delle civiltà mesopotamiche, il d. egizio appare più flessibile e più legato alla consuetudine: il supremo giudice e anche gli altri organi giudiziari, dovevano godere di una certa discrezionalità nell’affrontare e decidere i casi. Quello biblico, invece, risulta strettamente legato alla religione, in quanto il suo costituirsi è preceduto dalla diretta imposizione al popolo, tramite Mosé, della Tōrāh (legge) da parte di Dio sul monte Sinai, e tutte le norme, anche quelle che per contenuto possono distinguersi come ‘giuridiche’, sono accomunate dal fatto di scaturire da una fonte divina.
Un notevole apporto allo sviluppo del d. venne dalla Grecia antica, soprattutto a seguito del costituirsi della polis, con la distinzione, al suo interno, di tre ‘organi’: l’assemblea dei cittadini, il consiglio e i magistrati. Oltre alla comparsa dei d. politici legati alla cittadinanza, si affermò, soprattutto in Atene, un d. costituito da leggi (nòmoi) votate dall’assemblea, anche se la consuetudine (àgraphos nòmos, la legge non scritta) continuò a svolgere un ruolo significativo. In ogni caso, gli atti compiuti contro la legge erano colpiti con una pena o con una sanzione; e la sua irrogazione da parte dei giudici poteva essere chiesta con un’azione del singolo interessato (dike), o da un cittadino qualunque quando si riteneva che l’interesse violato fosse pubblico (graphè).
In Grecia il tema della giustizia e della polis fu trattato soprattutto da un punto di vista filosofico; l’elaborazione sistematica del d. fu principalmente un prodotto della cultura romana. E il d. formatosi a Roma, nel corso di 7-8 secoli, a partire dalla legge delle dodici tavole, fornì a lungo modelli ai d. europei ed extrauropei. Un primo modello si configurò in epoca repubblicana, con il ruolo che vennero a svolgere i magistrati (consoli, pretori ecc.) e in particolare i tribuni della plebe. Un secondo modello si delineò per opera dell’attività interpretativa svolta, sulla base della legge delle dodici tavole, dapprima da esponenti del collegio sacerdotale dei pontefici, poi da parte delle quaestiones perpetuae (➔ quaestio), infine dai giuristi (Labeone, Giuliano, Papiniano), i quali, dopo l’instaurazione del principato e dell’impero, analizzarono le leggi anche come spunto delle modificazioni introdotte da organi che giudicavano senza giuria e fuori della relativa procedura (extra ordinem). Il terzo modello fu impersonato dall’attività del pretore e di altri magistrati operanti nel campo della giustizia, i quali disponevano del potere di derogare più o meno ampiamente dal d. vigente, laddove esso appariva inadeguato alle nuove esigenze sociali. L’esercizio di tale potere – dapprima legato a casi singoli, poi con promesse di intervento formulate attraverso editti – portò alla formazione di un d. parallelo (ius praetorium o ius honorarium) che si affiancò al ius civile, ossia a quello delle dodici tavole, arricchito e aggiornato dalla consuetudine, dai giuristi, dagli sporadici interventi legislativi e poi dalle disposizioni del senato e del principe. Un ponte tra il ius civile e il praetorianum fu il ius gentium, o d. comune, applicabile anche agli stranieri, e derivato in parte dagli usi internazionali e commerciali, in parte dai pretori, sempre con la guida dei giuristi. Con l’instaurazione della monarchia assoluta (dominato), e il forte sviluppo della burocrazia, iniziarono le raccolte dei testi classici, che culminarono, sotto Giustiniano, con la grande compilazione formata dal Codice (costituzioni imperiali), dal Digesto (antologia dei giuristi classici) e dalle Istituzioni (esposizione elementare), cui poi si aggiunsero le Novelle. Particolarmente importante fu l’introduzione in Italia, del Corpus iuris civilis come d. vigente, poco prima dell’invasione dei Longobardi (553); ciò che rese possibile la rinascita dello studio del d. romano in epoca medievale. La compilazione giustinianea rappresentò, infatti, una sorta di cerniera tra l’antichità e il Medioevo: da essa derivò – attraverso riassunti e compilazioni, con l’aggiunta di nuovi atti normativi – il d. bizantino, che da Costantinopoli si sarebbe poi irradiato nei Balcani, e quindi in Ucraina e in Russia. Soprattutto, la compilazione giustinianea influenzò la formazione dei d. europei, assieme ai d. dei popoli germanici e al d. canonico.
Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente e la formazione dei regni germanici si avviò il processo che, nel corso del Medioevo, avrebbe portato alla formazione dei d. europei continentali. In Occidente, i popoli che si impossessarono dei territori dell’Impero avevano strutture e caratteristiche loro proprie. Fra i Germani il d. aveva essenzialmente origine consuetudinaria, e queste consuetudini furono in parte sintetizzate in leggi generali o codici, quali il codice Euriciano, le leggi romano-barbariche, l’editto di Rotari (643), la lex Ribuaria dei Franchi orientali. Significativo fu anche il ruolo svolto dalle consuetudini franche (coutumes). In linea di massima i sovrani e i signori feudali di vario rango avevano nella loro giurisdizione potere normativo. Con l’affermarsi dell’Impero Carolingio prese quindi corpo il regime feudale, fondato sul vassallaggio e sul sistema delle immunità. Ripreso da Ottone I, il fondatore del Sacro romano impero, tale regime favorì il sistema medievale dei due poteri simmetrici, del papa e dell’imperatore. Più in generale, la debolezza del potere centrale rese possibile, specialmente in Italia, la conquista da parte dei comuni di un’autonomia normativa, amministrativa e giudiziaria, e quindi lo sviluppo di una struttura costituzionale simile a quella delle antiche poleis, imperniata su tre organi (magistratura, consiglio, assemblea). Un ruolo analogo ebbero, soprattutto in Inghilterra, le cosiddette chartae, segnatamente la Magna Charta, che sancì garanzie giudiziarie e costituì una importante premessa dell’originale sviluppo giuridico anglosassone. Nell’Europa continentale, invece, il fatto più rilevante fu l’imporsi del d. comune (ius commune), processo in virtù del quale il d. romano giustinianeo venne a formare la base del d. vigente e generale, in Italia e in gran parte dell’Europa, fino all’entrata in vigore delle codificazioni moderne. Alla riscoperta della tradizione romanistica contribuì la Chiesa, che, nell’elaborare un d. proprio, il d. canonico, aveva accolto la lex romana come propria lex saeculi, accanto alla lex spiritualis, e ne aveva valorizzato l’elemento universalistico, in contrapposizione al principio della personalità della legge. Decisivo, soprattutto sul piano culturale, fu inoltre l’apporto della scuola di Bologna, che, dapprima con Irnerio, poi con Accursio, contribuì grandemente alla riscoperta dei testi giustinianei, imponendosi come modello per le scuole che andavano nascendo in Francia, Spagna, Germania. Nell’applicazione pratica, questa nuova concezione del d. dovette tuttavia misurarsi con gli ordinamenti particolari e locali che venivano emergendo nella cornice dell’Impero (disposizioni consuetudinarie, legislative, giudiziarie, statuti corporativi delle città mercantili, prime forme di d. commerciale). In linea generale, si affermò così un orientamento in cui d. romano e d. canonico costituivano, assieme, il d. comune (ius commune); esso doveva regolare tutte le azioni umane, temporali e spirituali, e aveva dunque carattere generale, ma applicazione pratica limitata dai casi in cui non valeva un ordinamento particolare (ius proprium). La penetrazione della tradizione romanistica fu più lenta nei pays de coutumes, dove comunque doveva essersi compiuta nel 16° sec.; fu invece più rapida in Germania e nel resto dell’Europa occidentale, dove maturò nel corso di pochi decenni, tra il 15° e il 16° sec., anche in virtù dell’intervento diretto dell’imperatore Massimiliano. Un’evoluzione specifica si delineò invece in Inghilterra, dove la penetrazione del d. romano si arrestò intorno al 13° sec. e il processo di unificazione del d. poggiò sulla formazione della common law, in seguito integrata dall’istituto dell’equity.
Una nuova fase si aprì, tra il 15° e il 16° sec., con la nascita degli Stati nazionali e delle monarchie assolute, che fu accompagnata dall’emanazione di importanti atti legislativi. In Francia, Luigi XIV emanò una serie di ordonnances, nel 1667 (touchant l’administration de la justice), nel 1670 (criminelle), nel 1673 (du commerce) ecc. Altri atti legislativi notevoli furono la Constitutio criminalis Carolina (1532), che costituì a lungo la guida del d. penale in Germania, e gli editti dei principi elettori; la Recopilaciòn de las leyes de estos Reynos in Spagna (1567), che si ricollegò alle varie leyes de fuero precedenti; i decreti e le Costituzioni dei Savoia registrati nella raccolta di Sola (Commentaria ad decreta antiqua ac nova novasque constitutiones, 1607); nel Regno di Napoli, gli atti normativi raccolti da D.A. Vario (Pragmatica, edicta, decreta, interdicta regiaeque sanctiones Regni Neapolitani, 1772). Naturalmente questi e vari altri atti normativi – che riguardavano in prevalenza il d. e il processo penale e il d. amministrativo, ma in certa misura anche il privato – ridussero l’ambito di applicabilità del d. romano comune, ma in materia di d. privato si riferirono per lo più a punti di dettaglio e non impedirono che le sue nervature fondamentali continuassero a essere di origine romanistica. Parallelamente, l’assolutismo determinò l’istituzione o il rafforzamento delle Corti supreme, strumento essenziale della giurisdizione centralizzata, e l’autorità di queste Corti si accrebbe, in quanto le sentenze pronunziate costituivano precedenti vincolanti e assumevano praticamente valore di fonte di d., in modo analogo alle decisioni delle Corti inglesi. Ma un contributo essenziale alla nascita del d. moderno venne dallo sviluppo delle scuole di d. e, in modo particolare, dall’affermarsi del giusnaturalismo. In linea di principio i giusnaturalisti avevano una posizione diversa dalla tradizione romanistica, anzi quasi antitetica, ma il contenuto delle loro esposizioni di d. privato era in larga parte desunto dal d. romano, depurato di quanto appariva eticamente inaccettabile o storicamente superato e inserito in un quadro sistematico. Con le loro esposizioni, fondate su una nozione ideale di d., imperniata sul concetto di d. naturale, i giusnaturalisti contribuirono all’affermarsi del movimento di opposizione all’assolutismo – culminato nelle rivoluzioni americana e francese – ma diedero anche impulso a quel processo di codificazione che si sviluppò nell’Europa continentale nel corso del 18° sec. e che culminò nel Code Napoléon. Tali codici si distinguevano da quelli del passato per la loro sistematicità e organicità; inoltre, dopo il 1815 essi cessarono di essere delle creazioni originali, proprie di ciascun paese, poiché si modellarono sui codici francesi, e in particolare su quello civile. Così fecero i paesi dell’America Latina resisi indipendenti dalla Spagna, la Louisiana (1825), l’Olanda separatasi dal Belgio (1837), l’Italia unita (1865), più tardi la Spagna (1888-1889). Anche in Inghilterra fu avvertita l’esigenza di una codificazione, per es. da J. Bentham, ma senza successo; si emanarono invece, verso la fine dell’Ottocento, numerosi leggi di vasta portata, fra cui la riforma dell’ordinamento giudiziario, con l’unificazione delle Corti di common law e di quelle di equity, e la legge sulla vendita commerciale. Con un certo ritardo, anche la Germania procedette in questo senso: furono emanati nel 1861 il Codice di commercio, nel 1870 il Codice penale, e in seguito l’ordinamento processuale civile; finalmente, dopo la vittoria sulla Francia di Napoleone III e la fondazione del II Reich (1871), ci si sentì di porre mano all’elaborazione del Codice civile, il cui testo definitivo (approvato solo nel 1896 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1900) divenne presto modello dei Codici giapponese e cinese, di quelli svizzero (1907), brasiliano (1916), greco (1941), portoghese (1967). Il codice svizzero, a sua volta, fu assunto a modello del Codice civile turco, fatto emanare negli anni 1920 da Kemal Atatürk, nel quadro della laicizzazione ed europeizzazione di quell’ordinamento.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, mentre nei Paesi del blocco socialista si procedeva nel tentativo di elaborare una diversa sistemazione del d., ispirata all’ideologia del marxismo-leninismo, nuovi orizzonti del d. si delineavano in un quadro internazionale segnato dalla nascita delle Nazioni Unite. Oltre all’esigenza di consolidare il d. umanitario, si pose quella di conferire una dimensione internazionale ai d. umani, attraverso dichiarazioni, convenzioni e appositi istituti. L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha concentrato i propri sforzi principalmente nel campo del d. pubblico internazionale, il cui sviluppo e progresso sono apparsi più urgenti per assicurare la pace nel mondo. Ancora in seno all’ONU, subito dopo la sua costituzione, fu ideato il grande progetto di una carta che doveva disciplinare una serie di aspetti, giuridici ed economici, riguardanti il commercio internazionale. Altri tentativi di unificazione internazionale del d. sono stati intrapresi per iniziativa di organi internazionali permanenti, specialmente in materia di d. dei trasporti marittimi (prima con il Comitato Marittimo Internazionale, poi con l’Organizzazione Marittima Internazionale), aerei (Organizzazione dell’Aviazione Civile Internazionale); terrestri (Ufficio Centrale dei Trasporti Internazionali). Un altro settore nel quale un organismo a carattere permanente (l’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale, erede dei Bureaux réunis) si sforza di modificare il d. sul piano internazionale è quello della proprietà intellettuale: diritti d’autore, modelli e brevetti industriali. Vi sono poi l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con sede a Ginevra, competente tra l’altro per la formulazione di testi di convenzioni riguardanti il d. del lavoro, e l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (UNIDROIT).
Oltre a tutti questi sforzi su scala mondiale, altri ne sono stati tentati a livello di aree territoriali tra Stati che si sentono uniti per certi legami, o una tradizione comune, ovvero da interessi culturali o economici comuni. L’unificazione del d. è stata frequentemente realizzata mediante un ampliamento del campo di applicazione del d. federale (Germania, Svizzera); in altri contesti essa ha potuto essere attuata in larga misura, per determinate branche del d., attraverso l’opera di giudici preoccupati di mantenere una certa unità al d. dei loro rispettivi paesi. Una menzione a sé spetta ai progressi compiuti, pur tra lentezze ed incertezze, dalle Comunità europee, che hanno dato vita, con il Trattato di Maastricht del 1992, all’Unione Europea.
La riflessione filosofica sul d. ha accompagnato lo sviluppo delle forme giuridiche fin dall’antichità classica. Il d. apparve di preferenza ai Greci nel suo aspetto oggettivo, ossia come una norma di condotta civile derivata dalla natura delle cose, e il suo fondamento fu visto in un ordine naturale estraneo e presupposto all’uomo. Tuttavia, già nel 5° sec. a.C. questa concezione entrò in crisi per il mutamento generale delle condizioni storiche. Si assistette alla nascita del nòmos, dell’idea elementare di legge. Al nòmos venne comunque progressivamente contrapponendosi l’àgraphos nòmos, la legge non scritta obiettivamente assimilabile alla giustizia, al concetto di dìke, universale legge divina vincolante per tutti gli uomini e contestualmente ragione sufficiente di tutti i particolari ordinamenti giuridici. Dall’età di Solone a quella di Pericle fu questa la concezione fondamentale del diritto. In particolare, l’appello alla natura e all’ordinamento che essa prescriveva ai rapporti umani assunse nella sofistica un significato polemico contro la convenzionalità delle leggi, e cioè contro la giustizia dei più e per i più. Ma sarebbe stato Platone, sulla scorta dell’indagine socratica sull’idea del giusto in sé, a fondare l’autonomia (nel dialogo Repubblica) del d. sull’essere universale e trascendente della giustizia, ponendo così le basi della distinzione, caratteristica di molte dottrine giuridiche occidentali fino all’età moderna, tra d. naturale e d. positivo. Nel pensiero di Aristotele il d. divenne l’anello di congiunzione tra la morale e la politica: il fine ultimo dello Stato consiste nel garantire, con l’emanazione di un sistema di regole coattive, un organismo nel quale tutti siano costretti a comportarsi meglio di quanto farebbero senza coazione. Una posizione di rilievo assunse anche la concezione del d. propria dello stoicismo, mirabilmente ripresa da Cicerone (De republica e De legibus): identificata la natura con la ragione universale immanente nelle cose, lo stoicismo ammise un solo d., un solo Stato, che comprendeva tutti gli uomini raccolti nella civitas omnium maxima, riaffermando con forza l’idea di una legge naturale.
Il d. romano, che inizialmente si ispirò alla dottrina stoica del d. naturale, ne venne in seguito avvertendo i limiti, avanzando istanze critiche che lo orientarono verso uno sviluppo più legato all’esperienza pratica della sua necessità e utilità per la vita degli individui e della comunità. Alla concezione speculativa del d. s’interessò invece il pensiero medievale, di fronte al quale si pose anzitutto il problema di conciliare la necessità del d. e dello Stato con la libertà della coscienza religiosa e con i fini della Chiesa cattolica. Questo motivo fondamentale prese le mosse dalla concezione di s. Agostino della Civitas Dei, destinata a trionfare sulla città terrena, e culminò nella dottrina della legge di Tommaso d’Aquino, secondo la quale dalla lex aeterna, che è la ragione divina che ordina e governa il mondo, deriva la lex naturalis, che è la partecipazione imperfetta e limitata della ragione umana alla prima, nonché termine di riferimento ultimo per la legge positiva umana, nonostante questa si atteggi in maniera diversa in base ai luoghi, ai tempi, alle persone. Nella concezione medievale lo stesso d. soggettivo acquistò un nuovo valore: l’uomo è soggetto di d. non in quanto è cittadino di uno Stato, ma in quanto è essere spirituale e morale, e i suoi d. derivano non dallo Stato ma da Dio, e può quindi opporsi allo Stato che li violi.
In età moderna, e in particolare tra l’inizio del 17° e la fine del 18° sec., la riflessione filosofico-giuridica tornò a svilupparsi intorno alla nozione di d. naturale, che nel giusnaturalismo (➔) assume tuttavia un nuovo valore, in quanto non è più la via attraverso la quale le comunità umane possono partecipare all’ordine cosmico, ma una tecnica razionale della coesistenza. Tale concezione, formulata dapprima da alcuni giuristi-filosofi (H. van Groot, S. Pufendorf, C. Thomasius), sarebbe stata in seguito variamente elaborata, su un terreno più generalmente filosofico, da T. Hobbes, J. Locke, J.-J. Rousseau, I. Kant. Soprattutto a partire dal 19° sec. l’influenza teorica del giusnaturalismo iniziò a declinare, per effetto congiunto dello storicismo tedesco, dell’utilitarismo inglese e del positivismo francese. In contrapposizione al giusnaturalismo cominciò quindi a delinearsi una nuova concezione del d., il giuspositivismo (➔), o positivismo giuridico, che trovò una prima, significativa formulazione nell’imperativismo di J. Austin (The philosophy of positive law). L’affermazione di tale orientamento coincise peraltro con la nascita della teoria generale del d., espressione con cui si iniziò a designare lo studio dei concetti giuridici fondamentali tratti dal d. positivo e presuntivamente validi per ogni ordinamento giuridico.
Nella seconda metà del 19° sec., il positivismo giuridico segnò un momento di svolta nell’evoluzione del d., in particolare in Germania. C.F. von Gerber, P. Laband e G. Jellinek si proposero di applicare al d. pubblico la metodologia elaborata nel campo del d. privato dalla Scuola storica e dalla cosiddetta ‘giurisprudenza dei concetti’ (Begriffsjurisprudenz), e privarono il d. della sua carica intrinsecamente politica. In questa accezione, diveniva fondamentale la coerenza logica del sistema dei concetti, la cui elaborazione era compito esclusivo della scienza costituzionalistica. L’esigenza di fondo del giusnaturalismo, quella di un d. che trascendesse il d. positivo, tornò comunque a farsi sentire nei momenti di grave crisi morale e sociale, segnatamente nel secondo dopoguerra. Negli stessi anni, tuttavia, attraverso l’opera di H. Kelsen si delineò anche quella che può essere considerata come la più rigorosa teoria del giuspositivismo, il normativismo. Rivendicando il proprio carattere scientifico e anti-ideologico, esso ha assunto a oggetto di indagine la norma, intesa non come imperativo di una volontà sovrana, ma come struttura logica, giudizio ipotetico ostensibile in ogni aspetto dell’esperienza dei rapporti interindividuali. Occorre infine ricordare che, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, al giusnaturalismo e al giuspositivismo si sono contrapposti diversi orientamenti, che la teoria generale del d. ha raggruppato sotto l’espressione giusrealismo (➔).