La proprietà è uno dei diritti costituzionali che ha conosciuto un’ampia trasformazione rispetto alla sua configurazione originaria. I primi documenti costituzionali (Dichiarazione di indipendenza U.S.A. 1776; artt. 2 e 17 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; V Emendamento Cost. U.S.A. 1787), ispirati dal giusnaturalismo moderno (basti pensare alle dottrine giuridico-filosofiche di Grozio, Hobbes, Locke e dello stesso Kant), ne proclamavano il carattere prestatuale, sacro e inviolabile: lo Stato, cioè, non creava la proprietà privata, ma si doveva solo limitare a riconoscerla ed a garantirla. Con il tramonto del giusnaturalismo, la centralità della proprietà privata non è venuta meno, né sul piano filosofico – basti pensare all’importanza che essa ha avuto in pensatori come Bentham, Constant, Hegel, Guizot e Rosmini – né su quello dell’elaborazione giuridica (basti pensare all’ambito del sistema di diritti teorizzato da Savigny e dalla Pandettistica), né, infine, sul piano delle proclamazioni costituzionali (artt. 9 e 10 Cost. Francia 1814; artt. 8 e 9 Cost. Francia 1830; artt. 11 e 12 Cost. Belgio 1831; parr. III, IV e VIII Preambolo e artt. 11 e 12 Cost. Francia 1848; tit. VI, art. IX, parr. 164 ss., Cost. Francoforte 1849), tanto da essere considerata il diritto soggettivo per eccellenza e da essere identificata con la nozione stessa di libertà.
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, tuttavia, è iniziato un ripensamento critico delle concezioni assolutistiche della proprietà privata (cioè di una sorta di super-diritto del quale si poteva abusare senza limiti, c.d. ius utendi et abutendi), ripensamento portato avanti non solo dagli esponenti del socialismo giuridico (ad esempio, Menger, Renner, Salvioli e Cimbali), ma anche da giuristi più tradizionali come Gierke e Duguit. In virtù di tale riflessione critica, si è preso coscienza, oltre che della dimensione individuale del diritto, anche di quella sociale, con la conseguenza che, a partire dalla Costituzione di Germania del 1919, nei testi costituzionali si è iniziato a parlare, direttamente o indirettamente, di una funzione sociale della proprietà (art. 153 Cost. Germania 1919; art. 44 Cost. Spagna 1931; art. 14 Legge fondamentale Germania 1949; art. 33 Cost. Spagna 1978). La clausola della funzione sociale, tuttavia, non ha niente in comune con la nozione di proprietà accolta dagli Stati socialisti, in cui veniva esplicitamente negata la proprietà privata dei mezzi di produzione e si ammetteva solo la proprietà privata dei beni di consumo (artt. 4 ss. Cost. U.R.S.S. 1936; artt. 22 ss. Cost. D.D.R. 1949; artt. 7 ss. Cost. Polonia 1952; artt. 10 ss. Cost. D.D.R. 1974; artt. 10 ss. Cost. U.R.S.S. 1977).
Per quanto riguarda l’Italia, l’evoluzione dello statuto costituzionale della proprietà emerge nettamente se si comparano i due testi di riferimento, lo Statuto albertino e la Costituzione repubblicana: mentre l’art. 29 dello Statuto, sulla scia delle Carte francesi della Restaurazione, parla di «inviolabilità» della proprietà privata, l’art. 42 Cost. disciplina ad un tempo la proprietà pubblica e la proprietà privata, non si riferisce a quest’ultima nei termini di un diritto e stabilisce che il riconoscimento e la garanzia della proprietà spetti alla legge, che ne determina anche i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale. La giurisprudenza costituzionale ha interpretato l’art. 42 Cost. nel senso che tale ultima funzione può giustificare discipline legislative restrittive delle facoltà del proprietario, ma non giustifica lo svuotamento sostanziale del diritto di proprietà, senza la corresponsione di un equo indennizzo che deve in ogni caso costituire un «serio ristoro» per l’espropriato.