Con riferimento soprattutto al mondo antico e medievale, ufficio di magistrato, ossia carica pubblica, individuale o collegiale, solitamente a carattere elettivo e di durata limitata nel tempo. Nell’uso moderno, il complesso degli organi dello Stato istituiti per l’esercizio della giurisdizione in materia civile, penale e amministrativa; negli ordinamenti liberal-democratici, e in particolare in quello italiano, costituisce un potere dello Stato, dotato di essenziali garanzie costituzionali, quali l’indipendenza dagli altri poteri e l’autogoverno.
Nelle antiche città greche il magistrato era un cittadino libero chiamato a ricoprire, per un periodo determinato e con l’obbligo di sottostare a un rendiconto finale, un incarico amministrativo o rispondente a pubblica necessità della pòlis. Nelle oligarchie il magistrato era tratto dalla classe dominante, nelle democrazie scelto tra tutti i liberi per elezione, per sorteggio o per una combinazione dei due sistemi. Non potevano essere magistrati gli ἄτιμοι (cittadini messi al bando dalla legge), coloro che erano sospettati di inique disposizioni verso la costituzione, o che vivevano di pubblica beneficenza, e i cittadini ascitizi. Nelle oligarchie il magistrato svolgeva le sue funzioni gratuitamente; nelle democrazie quasi tutte le m. comportavano un piccolo onorario. Nelle amministrazioni comunali greche del periodo ellenistico-romano i magistrati, in genere benestanti, prestavano la loro opera rinunciando alle competenze cui avrebbero avuto diritto.
A Roma si ebbero in origine solo magistrati patrizi, poi si dissero magistrati anche i capi della plebe, da questa eletti: i tribuni e gli edili plebei; l’estensione del termine corrispose alla loro trasformazione in organi dell’intera comunità. Si distinguevano magistrati ordinari (eletti ogni anno) e straordinari (previsti per particolari circostanze, come i dittatori, o creati in via eccezionale, come i decemviri legibus scribundis). I magistrati si distinguevano in maggiori e minori (con auspicia maxima o minora): tra i primi il console, il dittatore, il pretore, il magister equitum, il censore; tra i secondi l’edile curule, il questore. I primi e l’edile curule, avendo diritto alla sella curulis, segno della giurisdizione, erano detti curuli. I primi erano eletti dai comizi centuriati, gli altri dai comizi tributi. Erano magistratus cum imperio il dittatore, il console, il pretore, il magister equitum e i promagistrati forniti di poteri superiori; gli altri erano cum potestate. Il possesso dell’imperium dava diritto ai fasci e a una maior potestas rispetto ai magistrati sine imperio. Dalla parità di potestas fra magistrati ricoprenti una stessa carica derivava il diritto d’opposizione (intercessio) agli atti del collega; dal rapporto fra maior e minor potestas, il diritto di veto. Nel 2° sec. a.C. si stabilì la gradualità fissa dell’accesso alle cariche, dalla questura (primo gradino) al consolato, oltre cui si poteva aspirare alla censura. Le cariche erano annuali (ma la dittatura durava anche 6 mesi, la censura 18) e collegiali. Potevano aspirare alle m. i cittadini di sesso maschile, ingenui, onorabili, sani di mente e di corpo, e, fino a una certa epoca, appartenenti al patriziato. Cumulo, continuazione e iterazione furono gradatamente vietati. La legge Villia del 180 a.C. stabilì il cursus honorum e l’intervallo minimo fra le varie cariche. I magistrati si dicevano designati per il tempo che intercorreva fra l’elezione e l’entrata in carica (qualche mese), che, dal 153 a.C., ebbe luogo il 1° gennaio (in dicembre per i questori e i tribuni della plebe). Le m. erano gratuite, ma via via divennero fonti di arricchimento personale mediante il bottino di guerra e le estorsioni ai provinciali. I magistrati forniti di imperium avevano il potere militare, il diritto alla coercitio (fino alla pena di morte) per far rispettare gli ordini; avevano diritto di far note le loro volontà per mezzo di edicta, di convocare il popolo per elezioni o votazioni e il senato per averne il parere consultivo. Dal 4° sec. a.C., in seguito all’estensione territoriale e alla durata delle guerre, si venne all’uso delle promagistrature (proconsul, propraetor ecc.), mediante la proroga dell’imperium a tempo determinato; un magistrato poteva anche ottenere in delega il potere spettante ad altra carica (per es., quaestor pro praetore). La promagistratura fu, dai tempi di Silla, la base del potere dei capiparte, indebolendo il principio della collegialità e preparando il ritorno della monarchia. In età imperiale l’assegnazione delle m. repubblicane passò dal popolo al senato, ma di fatto al principe attraverso la commendatio e altre forme d’ingerenza e le m. divennero strumenti e, infine, apparato decorativo.
Per m. si intende generalmente un corpo di giuristi a cui spetta l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, cioè la risoluzione delle controversie nell’applicazione concreta delle norme giuridiche. In virtù del legame tra m. e giurisdizione, si parla di diversi tipi di m., a seconda dei diversi tipi di giurisdizione: si distingue, dunque, la m. ordinaria dalla m. amministrativa, contabile, militare, tributaria ecc. Negli Stati costituzionali, la m. è incardinata nell’ambito dell’apparato statale e costituisce quello che viene chiamato il potere giudiziario (Separazione dei poteri). Questo incardinamento, finalizzato a garantire il maggior distacco possibile dalle parti in causa, è la risultante di un lungo processo storico e si è accompagnato a una sempre più estesa burocratizzazione dell’intero corpo dei magistrati (basti pensare, in tal senso, a quel che hanno significato le riforme napoleoniche). D’altra parte, l’inserimento della m. nell’apparato statale ha comportato una serie di problemi, in primo luogo quello del condizionamento da parte degli organi politici e, in particolare, da parte del Ministro della giustizia, facente parte del Governo.
Per quanto riguarda l’esperienza italiana, fin dai primi anni di vigenza dello Statuto albertino, sulla scia di una legge francese del 1810, è stato configurato un sistema burocratico e piramidale della m., con il Ministro della giustizia che finiva per avere tutta una serie di poteri di controllo e di condizionamento, in particolare nei riguardi del pubblico ministero, qualificato come «rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria» (R.d. n. 3781/1859; R.d. n. 2626/1865). Questa concezione del pubblico ministero, gerarchicamente subordinato al Ministro della giustizia, ha iniziato ad essere messa in dubbio soltanto verso la fine del XIX secolo, grazie all’opera, tra gi altri, di Mortara. Con i primi anni del nuovo secolo, il condizionamento da parte del Ministro della giustizia è risultato attenuato, anche grazie alle riforme introdotte da Orlando e, in particolare, all’istituzione di un Consiglio superiore della m., ma l’avvento del fascismo ha ripristinato la situazione precedente, accentuando ancora di più l’ingerenza governativa (cfr., R.d. n. 2786/1923; R.d. n. 12/1941).
La m. nell’esperienza repubblicana. - La Costituzione repubblicana ha inteso rafforzare le garanzie di autonomia e di indipendenza della m., affermando anche che essa è un ordine autonomo da ogni altro potere (art. 104, co. 1, Cost.), che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101, co. 2, Cost.), ma soprattutto prevedendo un Consiglio superiore della magistratura autonomo dal potere politico, a cui riservare tutte le decisioni più significative sulla carriera e lo status professionale dei magistrati (art. 105 Cost.).
Ulteriori aspetti dell’indipendenza sono poi l’inamovibilità (art. 107 Cost.) e la nomina per concorso (art. 106, co. 1, Cost.). Per quanto riguarda quest’ultima, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che, sebbene non sia di per sé una garanzia di indipendenza del titolare di un ufficio, essa concorre a rafforzare e integrare l’indipendenza dei magistrati. È stata poi definitivamente abbandonata la visione (retaggio dell’età napoleonica) della gerarchia nell’ambito della m., attraverso la disposizione che sancisce la distinzione tra magistrati solo per diversità di funzioni (art. 107, co. 3, Cost.). In questo modo, quindi, si può dire che la Costituzione vigente abbia configurato la m. come un potere diffuso, cioè come un potere in cui non vi è alcuna soggezione di tipo gerarchico tra gli stessi magistrati, ma soltanto differenziazioni derivanti dalla diversità dei compiti loro assegnati. Diretta conseguenza di questa configurazione è la circostanza che qualunque magistrato possa sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (Conflitti di attribuzione. Diritto costituzionale) innanzi alla Corte costituzionale.
Nell’ambito della m. rientra a pieno titolo non soltanto il giudice, ma anche il pubblico ministero, non solo perché le disposizioni costituzionali di riferimento (artt. 107, co. 4, 108, co. 2, e 112 Cost.) sono collocate nel tit. IV della parte II della Costituzione, ma soprattutto perché anche quest’organo, come rimarcato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge.
Magistrato del collegamento nella nuova disciplina del Mandato d'arresto Europeo di Valeria Di Masi