Magistratura
Magistratura e magistrature
Nell'odierno diritto pubblico italiano con il termine magistratura viene indicato un ufficio oppure (più frequentemente) un complesso coordinato di pubblici uffici che esercitano attività giudiziaria in un determinato settore dell'ordinamento. Le proposte di concentrare tutte le funzioni giudiziarie presso un'unica m., sia pure articolata in sezioni specializzate (cosiddetto principio della unicità della giurisdizione) sono state respinte, sia in sede di Assemblea costituente sia nell'ambito della Commissione bicamerale per le riforme istituita con l. cost. 24 gennaio 1997 nr. 1 (commissione D'Alema). E dunque in Italia appare corretto parlare non di un'unica m., ma piuttosto di più magistrature. Alcune m. sono espressamente previste e disciplinate, almeno nei loro tratti essenziali, nella Costituzione italiana, che ha, in primo luogo, istituito la Corte costituzionale quale giudice rispetto alla conformità delle leggi alla Costituzione dei conflitti fra poteri dello Stato, fra i conflitti fra Stato e Regione, e quelli fra Regioni e, in limitati casi, sulle accuse promosse al capo dello Stato (art. 134).
Numerose disposizioni costituzionali riguardano poi la m. ordinaria (Pizzorusso, Zagrebelsky, Carbone 1992) che amministra la giustizia in tutti i settori che non siano devoluti ad altre giurisdizioni oppure che non siano esclusi dal sindacato giurisdizionale: si pensi, per es., al contenzioso interno delle Camere gestito dalle Camere stesse in forza della autodichia (Cassazione, sezione unica, 10 giugno 2004 nr. 11019). Alla giurisdizione ordinaria appartiene, in primo luogo la Corte di cassazione, presso la quale sono sempre ricorribili "per violazione di legge" le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali.
Anche la giurisdizione amministrativa (con al vertice il Consiglio di Stato) e quella della Corte dei Conti sono previste e salvaguardate dalla Costituzione (in particolare art. 103 e ultimo co. dell'art. 111), che le ha sottratte al sindacato generale di legittimità della Corte di cassazione, qui ammesso per i soli motivi che sono inerenti alla giurisdizione. I tribunali militari, a loro volta, sono stati esplicitamente mantenuti, ma ne è stato circoscritto l'ambito di giurisdizione ("ai reati commessi da appartenenti alle Forze armate") ed è stato previsto contro le sentenze (e i provvedimenti sulla libertà personale) da essi emanati il ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 103, 3° co.).
La Carta costituzionale ha vietato la costituzione di nuove giurisdizioni (art. 102), ma ha mantenuto in vita gli "organi speciali di giurisdizione" in funzione al momento della sua entrata in vigore; limitandosi a stabilire che il legislatore può "sottoporli a revisione" (sesta disposizione transitoria della Costituzione); e deve garantire l'indipendenza ai giudici di tali giurisdizioni (art. 108, 2° co.). Sono perciò stati dichiarati incostituzionali quegli "organi speciali di giurisdizione" cui la legge non assicura adeguata indipendenza. La Corte costituzionale ha poi chiarito (per es., con l'ordinanza 144 del 1998) che la "revisione" comporta una scelta discrezionale del potere legislativo che può sopprimere gli organi speciali di giurisdizione esistenti, ma può anche sottoporli a riforma, meglio definendone le competenze; purché resti fermo il nocciolo originario delle competenze stesse. Per es., l'ambito della giurisdizione tributaria è stata ampliata dall'art. 12, 2° co., nella l. 28 dic. 2001 nr. 448, ulteriormente integrato dalle l. 2 dic. 2005 nr. 248, e 4 ag. 2006 nr. 248.
Magistrature e attività giudiziaria
Si è già sottolineato come compito essenziale delle m. sia esercitare attività giudiziaria (non si tratta però di un computo necessariamente esclusivo; uffici giudiziari possono infatti essere incaricati di attività amministrative). Costituisce attività giudiziaria, in primo luogo, il giudizio, vale a dire la risoluzione di un conflitto fra due o più parti in contraddittorio attraverso la applicazione della legge e la ricostruzione dei fatti compiuta da un organo pubblico indipendente non solo dalle parti stesse ma anche da "ogni altro potere" (art. 104 della Costituzione; Goldoni 1990). Questa indipendenza rende il giudice un organo dello Stato comunità non inserito tra le strutture dello Stato governo e, conseguentemente, al di fuori del circuito politico dei partiti, che si misurano e si esprimono mediante lo strumento elettorale. Il giudizio è dunque in piena conformità all'antica definizione di Bulgaro, riportata da S. Satta actus trium personarum, actoris, rei, judicis e in cui lo judex presenta specifici caratteri di autonomia.
Questa definizione di giudizio è oggi recepita nell'art. 111 della Costituzione così come modificato dalla l. cost. 23 nov. 1999 nr. 2, secondo cui "la giurisdizione si attua mediante il giusto processo", "nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale" (art. 111 della Costituzione). L'esercizio della giurisdizione costituisce la porzione più cospicua (e caratterizzante) dell'attività giudiziaria; essa però tradizionalmente comprende (e ancor più comprendeva in passato) anche attività che non rientrano nello schema tracciato dalla l. cost. 2/1999 e non costituiscono in senso proprio 'giurisdizione' perché mirano all'attuazione dell'ordinamento, ma al di fuori della formula 'trilatera': actor, reus, judex.
Si prenda in considerazione l'attività del pubblico ministero: egli persegue l'attuazione della legge nell'interesse dell'ordinamento, in posizione di indipendenza, con il vincolo dell'imparzialità, e nel contraddittorio con i possibili controinteressati, ma non è 'terzo', anzi nel momento dell'instaurazione del giudizio è parte, quasi sempre parte attrice. Il pubblico ministero si inserisce, almeno in Italia, nel medesimo corpus di funzionari cui appartiene il giudice; pur essendo dopo il 1999 l'attività dei pubblici ministeri distinta da quella dei giudici in base a caratteristiche ontologiche, poiché è venuta meno la possibilità di conferire al giudice poteri di iniziativa d'ufficio analoghi a quelli propri del pubblico ministero.
Il principio secondo cui la giurisdizione si attua attraverso lo schema 'trilatero' renderebbe infatti incostituzionali forme processuali in cui il giudice, a somiglianza del pubblico ministero, perseguisse d'ufficio l'applicazione della legge in ordine a fatti e argomenti non sottoposti alla sua valutazione da una parte in contraddittorio con un effettivo o potenziale 'avversario'. La riforma costituzionale del 1999 ha reso necessaria anche una rimeditazione di tutte le ipotesi in cui il giudice assume un ruolo 'promozionale', pronunciandosi su questioni non sottoposte al suo esame dalle parti, o assumendo prove che le parti non gli hanno proposto. Il giudice che svolga un ruolo 'promozionale' diviene, invero, in qualche misura 'parte', e non è compiutamente 'terzo', anche se è prevista la presenza nel giudizio di altri due soggetti. Sembra cioè che la rilevabilità d'ufficio di questioni non sollevate delle parti debba essere limitata alle ipotesi in cui tale rilevabilità tutela principi costituzionali di rango pari alla terzietà del giudice o è strumentale alla terzietà stessa (si pensi alla verifica della regolarità delle notifiche, che è essenziale per un effettivo contraddittorio). Il contraddittorio deve poi essere garantito anche in ordine alle questioni rilevabili d'ufficio, così come previsto dall' art. 384 c.p.c. (come modificato dal d. legisl. 2 febbr. 2006 nr. 40) secondo cui la Corte di cassazione "se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine […] per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione". Si veda anche la sentenza della Cassazione civile 31 dic. 2005 nr. 21108, secondo cui sussiste un obbligo per il giudice di merito di sottoporre le questioni processuali e sostanziali rilevabili d'ufficio alle parti, per consentire loro di intervenire in proposito in contraddittorio.
Un ulteriore oggetto di meditazione e perplessità è costituito dagli atti di volontaria giurisdizione, in cui il giudice si pronuncia in diretto rapporto con un soggetto interessato, al di fuori di un contraddittorio fra più parti (si pensi alla procedura di autorizzazione all'aborto delle minorenni).
L'interpretazione della legge
Si è già sottolineato come ogni m. sia composta da uno o più uffici cui sono preposti funzionari di carriera o onorari che godono di garanzie di indipendenza. Per ben comprendere le ragioni di questa indipendenza, e per collocare il potere giudiziario all'interno del sistema dei poteri dello Stato, valutandone il ruolo nella evoluzione del nostro sistema giuridico, è necessario premettere qualche breve considerazione circa i compiti che ogni m. svolge: interpretare la legge e ricostruire i fatti. Non è possibile affrontare funditus il complesso e delicato tema della interpretazione della legge, che in Italia è legge scritta prodotta da appositi organi costituzionali; appare sufficiente ricordare brevemente che alla metà del primo decennio del 21° sec. si contendono - a quel che pare - il campo due linee estreme, mentre abbondano i sostenitori delle inevitabili teorie intermedie.
Secondo una prima teoria 'estrema', che si potrebbe definire giuspositivistica o meccanicistica, l'attività interpretativa ha natura meramente conoscitiva. In buona sostanza, l'interprete svolgerebbe un'operazione complessa quanto si vuole, ma pur sempre tecnica; utilizzando gli strumenti logici indicati dall'art. 12 delle preleggi così come definiti dalla Corte costituzionale. Secondo questa prima teoria, l'interprete giungerebbe a risultati cui sono applicabili i termini esatto e sbagliato. Una teoria contrapposta vede nella interpretazione, specie nella interpretazione a fini giudiziari, una manifestazione di volontà in cui le motivazioni, le argomentazioni hanno solo una funzione 'affabulatoria'. In sostanza, il giudice prima deciderebbe il dispositivo, secondo i suoi sentimenti, secondo il 'sentire collettivo' così come da lui percepito, e poi stenderebbe una qualche motivazione di quanto già ha deciso, utilizzando argomenti solo apparentemente tecnici. In quest'ottica un'interpretazione può essere inopportuna, non coerente con altre interpretazioni, ma non mai in sé sbagliata (Gallo 2005). Non manca poi - come ovvio - un ampio ventaglio di teorie intermedie, secondo cui la legge traccia una cornice più o meno ricca, articolata e vincolante, entro cui l'interprete dipinge il diritto, secondo una sua opinione che poggia, almeno per gran parte, su convinzioni non ricavate dalle formule legislative.
Tutte queste teorie convergono in un punto, fondamentale per una riflessione sull'intrinseca natura del potere giudiziario e sulla funzione della sua indipendenza: l'interpretazione della legge contiene in sé un largo, larghissimo, margine di opinabilità; specie in Italia. Infatti, è venuta meno la 'codificazione del diritto' ossia la sua raccolta in testi compatti e coerenti, privi di antinomie, con una terminologia uniforme, senza parole superflue; ove anche la punteggiatura, l'uso del singolare e del plurale, una virgola in luogo di un punto e virgola, assumevano un preciso significato. Si è sommersi da un flusso di dati normativi spezzettati e contraddittori spesso redatti in un linguaggio non tecnico, farciti di antinomie, frutto di una tormentosa elaborazione parlamentare. Il criterio di interpretazione fondato sulla lettera della legge diviene quindi sempre più incerto, in un complesso gioco di gerarchia di fonti e di interpretazioni proposte da almeno quattro corti supreme: Cassazione, Corte costituzionale, Corte europea di giustizia, Corte europea dei diritti dell'uomo.
L'autoreferenzialità dell'interpretazione
Le discussioni e polemiche circa la natura dell'atto interpretativo non possono sfociare in un risultato definitivo a causa di ragioni che sono ben radicate nell'oggetto stesso dell'interpretazione (almeno quando essa assuma, come è nel nostro ordinamento, a punto di riferimento un testo legislativo scritto).
Scrive N. Irti: "il dato che il giurista trova davanti a sé, non appartiene alla natura, ma alla storia degli uomini. La norma è frutto del pensiero e volere umano […] sicchè la scienza giuridica è scienza di secondo grado, scienza di un oggetto che è già, di per sé, un sapere, un guardare la realtà attraverso tipizzazioni concettuali" (Irti 2004, p. 54). Perciò la scienza giuridica sfugge alla verifica fattuale, al confronto con una realtà rilevabile; l'interpretazione può essere messa a confronto solo con un'altra interpretazione e mai con dei fatti. Di un'attività interpretativa si può valutare e apprezzare l'intima coerenza, lo sviluppo logico delle argomentazioni, la conoscenza e gestione delle fonti legislative, dei precedenti giurisprudenziali, delle tesi esposte dagli studiosi. È possibile verificare se l'interprete abbia fatto ricorso ad argomentazioni di carattere apodittico o suggestivo, ma nulla di più. L'ordinamento può stabilire che l'interpretazione formulata da un organo prevalga su quella formulata da un altro. Tuttavia la garanzia della correttezza dell'interpretazione deriva soltanto dal rispetto di una procedura legale e, a sua volta, la legge processuale è anch'essa soggetta all'interpretazione autoreferenziata dei giudici.
Saggiamente la legge di ordinamento giudiziario affida alla Corte di cassazione il compito di garantire un'interpretazione della legge che sia 'uniforme', senza sbilanciarsi a pretendere che sia 'giusta' (art. 65 r.d. 30 genn. 1941 nr. 12).
Interpretazione del diritto e autoreferenzialità dell'interprete
L'autoreferenzialità dell'interpretazione contiene in sé stessa il pericolo che gli interpreti (specie i giudici) 'corrano in proprio' ossia creino un diritto diverso da quello contenuto nelle tavole giuridiche. Questa ipotesi suscita polemiche che hanno percorso i millenni. Da sempre gli interpreti sono accusati dai legislatori (e non solo dai legislatori) di tradire la volontà della legge, piegandola ai loro interessi, alle loro concezioni; il legislatore ha spesso tentato di vietare l'interpretazione dottrinale e giudiziale della legge ove essa non risulti chiara a una piana lettura, e anche ha invitato coloro che avessero dei dubbi a interpellare il legislatore stesso per averne la 'interpretazione autentica' delle norme. Nell'ordinamento italiano l'interpretazione giudiziale della legge è invece libera, in applicazione del principio costituzionale secondo cui il giudice è soggetto "soltanto alla legge". Simile norma forse è di ostacolo persino alla introduzione nel nostro ordinamento della regola dello stare decisis; questa regola può trovare sicura applicazione soltanto quando sorregga pronunce di organi giudiziari soprannazionali e quindi costituisca una limitazione della sovranità che è resa necessaria "per un ordinamento che assicuri sia la pace sia la giustizia" (art. 11 della Costituzione).
La ricostruzione del fatto: presunzioni, indizi e verità processuale
A differenza dell'interpretazione del diritto, la ricostruzione dei fatti è soggetta a un certo confronto con la realtà fenomenica.
Peraltro, nella pratica si verifica molto raramente che il giudicato sia smentito da sopravvenute circostanze obiettive. Inoltre, la disciplina processuale del giudicato ne ammette solo in ipotesi limitate la revisione; poiché l'esigenza pratica di impedire un proliferare infinito di cause impone di porre un punto fermo sulla valutazione delle prove e degli indizi compiuta dal giudice di merito. Satta commenta che il giudicato copre gli errori dei giudici più di quanto la terra copra quelli dei medici. La ricostruzione del fatto ricade dunque, in un ordinamento ove esista l'indipendenza del potere giudiziario, anch'essa nella discrezionale libertà del giudice. E contiene in sé stessa un tasso di opinabilità di poco inferiore alla interpretazione della legge.
La discrezionalità 'creativa' del giudice appare evidente nella individuazione e valutazione delle cosiddette presunzioni o indizi che la legge stessa gli consente di elaborare definendole 'ritenute dal giudice' (art. 2727 c.c., art. 192, 2° co., c.p.p.). La presunzione si basa su una valutazione dell'id quod plerumque accidit, quasi sempre fondata sull'intuizione e assai raramente tratta da una rilevazione statistica attendibile condotta con metodo scientifico. E infatti le presunzioni non sono soltanto lo strumento attraverso cui una società esprime le sue razionali convinzioni. Le presunzioni, infatti, sono anche veicolo di concezioni ideali, di pregiudizi, di fobie, di paure, di speranze.
Quando utilizza le presunzioni il giudice ricostruisce i fatti in coerenza a intuizioni tratte dal corpo sociale, e filtrate attraverso le sue personali sensibilità e cultura. Costituisce un modesto freno a questo potere l'affermazione legislativa secondo cui le presunzioni e gli indizi debbono essere "gravi precisi e concordanti" (art. 2729 c.c.; art. 192, 2° co., c.p.p.).
Autonomia del potere giudiziario e attività promozionali: il nodo investigativo
Si è già sottolineato come non tutte le attività giudiziarie siano riconducibili esclusivamente ai paradigmi della interpretazione della legge e della ricostruzione dei fatti. Accade sovente che il magistrato nell'applicare la legge al caso concreto sia legittimato a tener conto di fattori che possiamo in senso lato definire di opportunità (si pensi alle funzioni di tutela sociale insiti nelle attività della giustizia minorile).
La funzione 'promozionale' del giudice incontra oggi un limite nei principi enunciati dalla l. cost. 2/1999; tali limiti non gravano però sul pubblico ministero istituito solo nell'ambito delle giurisdizioni ordinaria, militare e contabile (ma è stata proposta la creazione di un pubblico ministero anche a fianco della giurisdizione amministrativa). Senza dubbio, l'attività promozionale che maggiormente suscita polemiche è oggi l'attività di indagine delle Procure della Repubblica; un'attività che si suole assimilare al giudizio, ma che ne diverge per molteplici fondamentali profili, e, in primo luogo, per il maggior tasso di discrezionalità, una discrezionalità tale da rendere inapplicabile alla gran parte delle indagini il principio di obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 della Costituzione. Tale principio può assumere effettività solamente quando il pubblico ministero proceda quasi esclusivamente sulla base di specifiche notitiae criminis, per la massima parte 'qualificate', vale a dire provenienti dalla polizia.
In un simile quadro, obbligatorietà dell'azione penale significa obbligo di 'sbrigare' le carte ricevute (anche chiedendo la archiviazione); di per sé quest'obbligo non lascia spazio alla discrezionalità. Una discrezionalità nasce solo a causa delle disfunzioni del sistema: se i fascicoli sono troppi, diviene discrezionale dare la precedenza all'uno piuttosto che all'altro, ma se vi fosse una proporzione adeguata fra la messe e gli operai che alla messe si dedicano, ogni spiga verrebbe raccolta e vagliata. Una discrezionalità di questo tipo, derivante dalla insufficienza di personale e mezzi, è del resto oggi anche propria degli organi giudicanti quando 'organizzano i ruoli' e dunque decidono di trattare una pratica con precedenza su altre (magari determinando così la prescrizione o meno di un reato).
Il pubblico ministero anche di primo grado rappresenta, nell'ottica per sommi capi descritta, soprattutto un 'requirente' vale a dire un funzionario che, ponendosi dal medesimo angolo di visuale del giudice, sottopone una proposta al giudice e perciò al giudice è assimilabile (nel giudizio civile di cassazione il procuratore generale è anche un sesto componente del collegio, dotato di parola, ma privo del voto).
La funzione inquirente è invece funzione di diretta gestione amministrativa. Deve certo svolgersi nel rispetto della legge e del principio di verità (e ciò la distingue dalla difesa affidata a liberi professionisti e la assimila alla funzione giudicante), ma muove dove la spingono le intuizioni, le supposizioni dell'inquirente. Fino a quando non si forma la notitia criminis, all'attività inquirente non è neppure applicabile il principio di obbligatorietà; il campo dei sospetti è infinito e nessun numero di operai è in grado di mieterlo integralmente. L'attività inquirente è quindi intessuta di scelte spesso 'a intuito', ossia politiche in senso ampio, che inducono ad attribuire maggiore o minor credito a un teste, un indizio, a svolgere le ricerche in un certo ambiente o in un altro. A puntare, come è stato detto, il 'faro dell'attenzione' verso un'operazione economica piuttosto che verso un'altra; su un genere di reati piuttosto che su altri, mentre l'esito delle pratiche e la sorte degli indagati appaiono strettamente collegati a ulteriori scelte discrezionali (che sono in genere condivise con il giudice delle indagini preliminari), per es. al ricorso o meno alla custodia cautelare. Inoltre l'attività di indagine coinvolge l'inquirente, lo lega psicologicamente alla costruzione razionale che elabora e di cui cerca conforto e sostegno, in altre parole gli attribuisce l'animus e la posizione psicologica della 'parte'; ancorché della parte pubblica che non persegue interessi privati, e che quindi dovrebbe essere maggiormente disposta ad abbandonare ipotesi che si rivelino infondate.
Attività di indagine e controllo fattuale
L'attività inquirente è suscettibile di una valutazione nel confronto con i fatti. Si può sostenere che buon inquirente è colui che scopre molti colpevoli, o - a essere più precisi - colui che fornisce materiale probatorio per molte condanne. Così come nella pratica forense buon avvocato è colui che vince molte cause. Quando però il potere politico ha ritenuto di demandare alla m. le indagini penali, o per lo meno la loro sistematica direzione, ha necessariamente dovuto accettare che esse si inseriscano nel sistema di 'governo autonomo' che è tipico della magistratura. Quindi che anche le indagini entrassero nel meccanismo di autoreferenzialità che è proprio del giudiziario.
A questo sistema è coessenziale il principio secondo cui gli strumenti di verifica e di riesame non rilevano 'errori' commessi dal pubblico ministero (o dai giudici di primo grado), ma soltanto sovrappongono un momento di ulteriore ponderazione. Si realizza un ripensamento degli atti e non un controllo - anche solo indiretto - sulle persone che hanno posto in essere gli atti. Si tratta di un principio che in corpi di uguali che si autogovernano, come sono le m., garantisce in primo luogo il cittadino coinvolto negli affari della giustizia. Il giudice è cioè chiamato ad accertare se l'imputato sia colpevole o innocente, non a stabilire se il pubblico ministero accusandolo abbia commesso un 'errore' rilevante in sede disciplinare, o anche solo professionale. È una distinzione sostanziale di grande importanza: se l'assoluzione dell'imputato comportasse una forma di condanna del pubblico ministero scatterebbero legittimi meccanismi di stima nei confronti dell'inquirente, a scapito dell'imputato.
Discrezionalità e autoreferenzialità
Le considerazioni fin qui svolte, sicuramente troppo scarne per un adeguato approfondimento, sono però indispensabili per una riflessione sul ruolo delle m. nell'attuale momento storico. Ci si trova di fronte a professioni con larghi margini di opinabilità (chi potrà mai distinguere fra un'interpretazione evolutiva e una interpretazione creativa?), affidata al senso di responsabilità di soggetti autoreferenziati. L'autoreferenzialità delle m. si articola poi - come già accennato - in due profili: l'autoreferenzialità del corpo giudiziario nel suo insieme e l'autoreferenzialità dei singoli magistrati. Sotto il primo profilo, è banale sottolineare che l'attività giudiziaria è soggetta a verifiche esclusivamente a opera di altri organi giudiziari; ancorché possa accadere che l'organo chiamato a pronunciarsi sulla conformità alla legge di un provvedimento non faccia parte della 'magistratura' cui appartiene l'organo giudiziario che ha emesso l'atto impugnato, e addirittura sia (come la Corte europea dei diritti dell'uomo) espressione di strutture sovranazionali. Per quanto attiene al secondo profilo, nel nostro ordinamento si ritiene necessario che i singoli giudici siano totalmente liberi nell'applicazione della legge e nella ricostruzione dei fatti, ossia in sostanza che ciascun interprete giudiziario abbia come referente soltanto sé stesso. I limitati vincoli che incidono sul singolo fanno capo a organi della corporazione, composti in prevalenza di membri eletti dalla corporazione stessa.
Sotto il profilo disciplinare e amministrativo le m. godono dunque di un regime di 'autogoverno' o, per dirla più propriamente, di 'governo autonomo', che talvolta consente l'emanazione di atti di carattere generale (circolari, delibere; Romboli, Panizza 1995) che di fatto svolgono un ruolo normativo secondario incidendo sulla organizzazione degli uffici e addirittura nella materia giurisdizionale disciplinare. Ciò concorre a collocare le m. in posizione di totale autoreferenzialità, indispensabile per garantire la terzietà del giudizio. Chi ritiene di dolersi di atti o comportamenti di un magistrato non può che rivolgersi alla m. stessa, giudice esclusivo degli atti e dei comportamenti dei suoi membri, in sede disciplinare, civile, penale, amministrativa; non soltanto, giudica anche delle offese arrecate a membri della corporazione, applicando le pene all'offensore e liquidando i relativi risarcimenti.
'Autogoverno' o 'governo autonomo'
Si è già accennato come l'indipendenza degli organi giudicanti poggi sull'indipendenza dei singoli magistrati; garantita attraverso il 'governo autonomo' delle magistrature. Tale governo autonomo viene, per quanto attiene alla Corte costituzionale, gestito direttamente dalla Corte stessa, mentre le giurisdizioni più articolate e complesse possiedono appositi organi cui è demandata la gestione amministrativa e disciplinare degli appartenenti al corpo giudiziario; per i magistrati ordinari e militari la funzione disciplinare dà luogo a una ulteriore 'giurisdizione' speciale. Gli organi di 'governo autonomo' sono plasmati sul modello del Consiglio superiore della magistratura (CSM), che è stato istituito direttamente dalla Costituzione a tutela della autonomia della m. ordinaria, e sono tutti formati in prevalenza da magistrati, eletti dai loro colleghi. Nella configurazione dell'assetto delle diverse m. svolgono dunque un ruolo di primaria importanza i criteri di scelta dei componenti elettivi degli organi di governo autonomo. Così, per quanto attiene al Consiglio della magistratura ordinaria, la legge del 1958 rispondeva alla concezione di una m. piramidale, con al suo vertice la Corte di cassazione. Il sistema elettorale in vigore basato sul principio del 'pari peso' di ogni singolo voto rispecchia coerentemente l'assetto di una m. in cui è stata eliminata (almeno fino alla l. 25 luglio 2005 nr. 150) ogni forma di promozione attraverso concorsi selettivi interni; e dunque non vi sono magistrati 'superiori' ad altri.
Vicende analoghe hanno del resto coinvolto gli altri organi di 'governo autonomo' quali il Consiglio di presidenza della magistratura amministrativa e il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria: da ultimo la l. 21 luglio 2000 nr. 205 ha accresciuto il peso dei magistrati del Tribunale amministrativo regionale (TAR) nel Consiglio di presidenza della magistratura amministrativa, mentre la l. 28 dic. 2001 nr. 448 ha abolito le 'riserve di posti' in favore dei presidenti di commissione e di sezione nel Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Di fatto, gli organi di governo autonomo riflettono dunque, pressoché proporzionalmente, le divisioni e articolazioni proprie dei singoli corpi giudiziari. In particolare, nel Consiglio superiore della magistratura ordinaria tutti i magistrati eletti fanno riferimento a una delle 'correnti' della Associazione nazionale magistrati. Vani si sono finora rivelati i tentativi del legislatore di spezzare questo vincolo prevedendo un rapporto diretto fra candidato ed elettore, senza la mediazione giuridica di 'liste' presentate dalle correnti. Questo non significa che gli organi di governo autonomo siano una mera espressione delle singole corporazioni. Una notevole influenza è infatti esercitata dai componenti 'laici' eletti dal Parlamento, anche, ma non soltanto, perché i loro voti sono spesso indispensabili per formare la maggioranza sulle singole proposte (per fare un esempio, per le nomine agli incarichi più importanti e prestigiosi).
Nel Consiglio superiore della magistratura ordinaria un ruolo di primo piano è poi devoluto al presidente della Repubblica, presidente di diritto. Durante la presidenza Cossiga il rapporto presidente della Repubblica-CSM ha assunto profili decisamente conflittuali, poiché il presidente riteneva di dover esercitare una sorta di controllo esterno sull'azione del Consiglio (eteropresidenza), per es. depennando dall'ordine del giorno gli argomenti che gli apparissero esorbitare dal ruolo del Consiglio stesso (Cicala 1990; Devoto 1994). Invece gli altri presidenti della Repubblica hanno preferito esercitare un'influenza meno evidente, ma pur sempre assai incisiva. Quando vengono in discussione problematiche di carattere politico, è per i membri togati del Consiglio quasi indispensabile raccogliere sulle loro posizioni il consenso del capo dello Stato e di almeno una parte dei membri laici, in modo da evitate la facile accusa di corporativismo (Per una riforma della giustizia, 2002). Né si possono dimenticare altre forme di coordinamento fra le m. e le altre istituzioni dello Stato: quali per es. il potere di promuovere l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari attribuito dall'art. 107 della Costituzione al ministro della Giustizia, la previsione del 'concerto' del ministro della Giustizia per la nomina agli uffici direttivi della m. (art. 11, 3° co. nella l. 24 marzo 1958 nr. 195; Corte costituzionale, sentenza 30 dicembre 2003, nr. 380, 2004). Proprio in considerazione di questa articolata realtà è preferibile parlare di 'governo autonomo' anziché di 'autogoverno' delle magistrature (Verde 2003).
Autoreferenzialità dei magistrati e governo autonomo
Il 'governo autonomo' delle m. essendo strumentale all'indipendenza dei singoli magistrati non dovrebbe interferire nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, ancorché le varie forme di amministrazione della 'carriera' del magistrato portino necessariamente a lambire il sindacato degli atti. In effetti, quando, per es., il Consiglio superiore dei magistrati ordinari sceglie un magistrato meno anziano di altri per un importante incarico direttivo, finisce fatalmente per esprimere un giudizio non solo sulla laboriosità e diligenza degli aspiranti, ma anche sulla loro professionalità e dunque sulla loro capacità di elaborare atti e provvedimenti 'apprezzabili'; se è un pubblico ministero, di svolgere indagini incisive evitando di commettere errori. Il pericolo di un indiretto sindacato sulle idee è del resto inevitabile in ogni valutazione comparativa; e questo pericolo ha costituito il principale argomento contro la reintroduzione di forme di 'carriera' con promozioni a numero chiuso operata per i magistrati ordinari dalla legge di riforma dell'ordinamento giudiziario 25 luglio 2005 nr. 150. Un (assai limitato) sindacato sugli atti giudiziari può anche essere compiuto in sede disciplinare. Se assumiamo come punto di riferimento il sistema disciplinare dei magistrati ordinari, costatiamo che non mancano nella l. 150/2005 e nel d. legisl. 109/2006 (pur dopo le modifiche apportate dalla l. 249/2006) disposizioni che consentono di configurare come illeciti disciplinari taluni plateali errori "in fatto" commessi dal magistrato. Si allude a quelle espressioni le quali sanzionano "il travisamento dei fatti che è determinato da negligenza inescusabile; l'emissione di provvedimenti [...] la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti". Si tratta di norme molto attente alla autonomia del giudizio e che ricalcano principi da tempo consolidati nella giurisprudenza disciplinare e nella legge.
Per quanto riguarda l'interpretazione delle norme il d. legisl. 109/2006, stabilisce (art. 2, co. 2°): "Fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m), n), o), p), cc), e ff), l'attività di interpretazione di norme di diritto non dà luogo a responsabilità disciplinare". A loro volta i suindicati rinvii prevedono che, per i magistrati ordinari, costituiscano fonte di responsabilità disciplinare: g) la grave violazione di legge determinat da ignoranza o negligenza inescusabile (previsione che trova quasi esatta corrispondenza nell'art. 2°, 3° co. lettera a della l. 117/1988, che però non parla di ignoranza); [...]; l) l'emissione di provvedimenti privi di motivazione, la cui motivazione cioè consiste nella sola affermazione della sussitenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge; m) l'adozione di provvedimenti non consentiti dalla legge che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali; cc) l'adozione intenzionale di provvedimenti affetti da palese incompatibilità tra la parte dispositiva e la motivazione, tali da manifestare una precostituita e inequivocabile contraddizione sul piano logico, contenutistico o argomentativo; ff) l'adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico oppure di grave e inescusabile negligenza.Si tratta di un complesso di illeciti che lambiscono l'interpretazione della legge: per es., ben possono essere sorretti e cagionati da errori interpretativi "provvedimenti abnormi ovvero atti e provvedimenti che costituiscano esercizio di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali". È questa, peraltro, una tematica già conosciuta dalla giurisprudenza disciplinare del CSM e delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che ha da tempo respinto la tesi della totale insindacabilità delle scelte dei giudici, e ha affermato che ben è possibile colpire in sede disciplinare tutte le condotte 'abnormi', le quali rivelino una scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, e siano idonee a riverberarsi negativamente sul prestigio del magistrato stesso e dell'Ordine giudiziario. Simile sindacato - affidato a organi interni della corporazione - non ha peraltro almeno finora suscitato pericoli per l'autonomia di giudizio dei magistrati.
Autonomia e autoreferenzialità delle magistrature
La concezione della attività giudiziaria precedentemente qualificata come 'mec-canicistica' consente di delineare una perfetta democratica 'catena di comando': il popolo elegge il Parlamento, che crea le leggi, il giudice applica la legge al caso concreto. Dunque la sentenza, pronunciata 'in nome del popolo' è (soltanto) un automatico atto esecutivo della sovranità popolare. Peraltro, come già si è sottolineato, interpretare il diritto, accertare fatti, condurre indagini non sono attività scientifico-matematiche, i cui esiti discendano automaticamente dalla applicazione di regole (Cicala 2003). Non sono neppure assimilabili ad altre attività discrezionali, ma la cui discrezionalità è del tutto estranea al mondo della politica. L'attività del medico, per es., comporta sovente scelte affidate al suo intuito personale e dunque discrezionali e opinabili, ma - almeno nella quasi totalità dei casi - tali scelte si collocano incontestabilmente al di fuori della dialettica politica. Invece la discrezionalità del magistrato trova una guida in scelte e valori, che si possono in senso ampio definire ', e che sono pericolosamente vicini alle scelte e ai valori che determinano la politica dei partiti. L'intreccio fra giurisdizione e politica dei partiti è continuo; la formazione delle leggi a opera del Parlamento e la loro concreta attuazione da parte dei giudici concorrono alla formazione del diritto vigente in un Paese. La ricaduta delle concezioni ideali del giudice e delle sue scelte operative sul diritto vigente e sulla politica dei partiti è quindi inevitabile. La modifica di un indirizzo giurisprudenziale, l'abbandono di una presunzione prima utilizzata come pacifica, l'accettazione di una diversa presunzione, l'apertura di nuovi 'filoni di indagine', scandiscono le tappe di trasformazione di una società non meno di una riforma legislativa, o dell'esito delle elezioni politiche, incidono, in forma immediata, sulla vita, sulla libertà, sull'onore dei cittadini. Condizionano anche le vicende politiche del Paese, special-mente dopo l'abolizione della autorizzazione a procedere contro i parlamentari disposta dalla l. cost. 29 ott. 1993 nr. 3.
Tali osservazioni non intaccano la validità dei principi di autonomia e indipendenza delle m., anzi ne esaltano ulteriormente l'importanza. Autonomia e indipendenza della m. sono pienamente giustificate anche quando si aderisce a una visione meno passiva dell'attività giudiziaria. Non fosse altro perché la sostituzione del 'governo autonomo' con forme di 'eterogoverno' (anche limitate al settore del pubblico ministero) comporterebbe la attribuzione a questo 'altro' che viene chiamato a governare il corpo giudiziario (e che fatalmente coinciderebbe con il mondo della politica dei partiti) di un potere sconfinato che - cumulato con il potere di cui questo 'altro' (Parlamento, Governo, capo dello Stato) è già portatore - determinerebbe il venir meno della separazione dei poteri e dunque l'insorgere di un totalitarismo (sia pur formalmente democratico). I principi della separazione dei poteri e della sovranità popolare si traducono dunque soltanto in un vincolo deontologico ma pur sempre imperativo per i magistrati, che debbono sforzarsi di applicare la legge, e non modificarla, almeno intenzionalmente. Il principio di terzietà impone poi al giudice di porsi in posizione di equidistanza fra le parti, anche quando una di esse gli sia ideologicamente e politicamente vicina. Dunque l'esigenza che il magistrato sia e appaia estraneo alla lotta politica contingente ha precisi punti d'appoggio di carattere costituzionale nel diritto del singolo a una difesa effettiva (art. 24 della Costituzione) davanti a un giudice terzo (art. 111 della Costituzione). Appare necessario che il potere giudiziario si collochi al di fuori dell'area non della politica in senso ampio e comprensivo (il che è impossibile), ma della politica dei partiti e dei suoi metodi, e quindi fuori dal bipolarismo che ancora la caratterizza. Con espressione grossolana, ma efficace si può ripetere che le m. debbono essere indipendenti al minuto, non possono esserlo all'ingrosso (Guarnieri 2003). La politica giudiziaria deve distinguersi e differenziarsi dalla politica dei partiti per il contenuto e per i metodi; sul piano dei contenuti la politica dei partiti è per necessità più attenta al contingente, a ciò che può influenzare nel breve periodo l'esito delle elezioni, la sorte di un uomo politico o di un partito. La politica giudiziaria è, o dovrebbe essere, sensibile soltanto ai movimenti ideali di fondo i quali trasformano la società. Dovrebbe inoltre essere particolarmente impegnata a garantire la 'parità dei criteri', ossia ad applicare i medesimi criteri e i medesimi parametri a qualunque fazione partitica o sociale appartengano gli uomini i quali formano oggetto di valutazione. Sul piano metodologico, nella politica dei partiti la dialettica può legittimamente dar luogo a un aspro e pubblico confronto, nutrito di più o meno sana faziosità (basta che il 'metodo' sia democratico, cioè senza ricorso alla violenza e alla palese menzogna); la polemica partitica ha infatti il suo luogo istituzionale di incontro e di composizione nel pubblico dibattito di collegi elettivi, primo fra tutti il Parlamento.
Nella politica giudiziaria la dialettica invece si interiorizza, si traduce nella capacità del singolo giudice di scorgere le ragioni di valori apparentemente contrapposti, nella consapevolezza della relatività delle proprie scelte. In altre parole, nella politica giudiziaria la dialettica diviene dubbio, intendendo per dubbio non la scettica indifferenza, ma la coscienza che il vero e il giusto non sono privilegio e appannaggio di nessuno, la consapevolezza che raramente il giudizio è frutto di una solare affermazione di verità, più spesso è laica composizione di legittimi valori contrapposti. Il magistrato anche del pubblico ministero deve riassumere in sé maggioranza e opposizione, o per usare il paragone di P. Calamandrei, avere in sé due avvocati in contraddittorio. Trova così giustificazione il divieto sancito dalla l. 150/2005 di iscrizione dei magistrati ai partiti politici, che attua l'art. 98, 3° co. nella Costituzione (e rispecchia una norma dello Statuto della Associazione nazionale magistrati).
Polemiche sono insorte in relazione al divieto imposto ai magistrati ordinari di "partecipazione a partiti politici ovvero di coinvolgimento nelle attività di centri politici che possano condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque appannare l'immagine del magistrato" (art. 3 lett. h del d. legisl. 109/2006); molti hanno infatti espresso il timore che tale divieto potesse costituire un limite alla libertà di manifestazione del pensiero che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini. Perciò la l. 24 ottobre 2006 nr. 269 ha riformulato la disposizione in termini assai più permissivi vietando ai magistrati soltanto "l'iscrizione o la partecipazione siastematica e continuativa a partiti politici".
In effetti il nodo dei rapporti fra la libertà di pensiero ed esigenza di terzietà del giudice non può essere gestito con lo strumento repressivo. Appaiono tuttavia evidenti le ragioni di opportunità che dovrebbero indurre i magistrati, specie quelli che esercitano funzioni di forte ed immediato impatto politico, ad astenersi dal manifestare il loro pensiero in forme tali da appannarne l'immagine di terzietà.
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