Magistratura
«La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (Costituzione, art. 101)
La riforma giudiziaria
di Giorgio Santacroce
30 gennaio
All’apertura dell’anno giudiziario, il primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone lamenta l’insostenibile lentezza dei processi, che colloca l’Italia al 151° posto su 181 paesi nella classifica mondiale dell’efficienza del sistemi giudiziari, e auspica una riforma della giustizia, concepita e realizzata come un momento di incontro e di convergenza tra poteri dello Stato.
Considerazioni introduttive
Il problema della crisi della giustizia e della necessità di una riforma per porvi rimedio è presente nell’agenda politica italiana da almeno 35 anni, nel corso dei quali si è andato progressivamente aggravando per effetto di una serie di iniziative legislative, per lo più episodiche e dettate da situazioni contingenti, non sempre coerenti e che non sono valse a impedire il dilagare delle condanne inflitte all’Italia dagli organi di giustizia del Consiglio d’Europa per quella che viene considerata una vera e propria piaga strutturale del nostro sistema giudiziario: la violazione pressoché costante del principio della ‘ragionevole durata del processo’, enunciato dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e alla quale non è riuscito a porre un freno neppure il rimedio ‘interno’ offerto dalla legge 24 marzo 2001, nr. 89 (cosiddetta legge Pinto), stante il forte arretrato accumulatosi davanti ai giudici nazionali. Tant’è che, essendosi superato nella stragrande maggioranza dei casi il termine breve previsto da questa legge per la decisione («quattro mesi dal deposito del ricorso»: art. 3 comma 6), si cominciano già a promuovere giudizi di responsabilità per durata irragionevole degli stessi giudizi per così dire ‘derivati’, avviati allo scopo di ottenere l’indennità da durata irragionevole del processo principale.
A marzo 2009 il Consiglio d’Europa ha rivolto un ennesimo invito alle autorità politiche italiane a fare ogni sforzo perché vengano adottate al più presto misure idonee e funzionali a ridurre l’enorme arretrato dei processi pendenti, sia civili sia penali, e non è senza significato che sia stato suggerito di modificare per prima cosa proprio la legge Pinto, che ha contribuito a ingarbugliare di più la matassa, dando ulteriore lavoro ai giudici.
Il fatto è che la crisi della giustizia non è solo un sintomo della più generale crisi istituzionale che attraversa il paese in molti settori della vita pubblica, ma appare per più aspetti anche il risultato di una perdita di autorevolezza e di credibilità propria della magistratura nel suo insieme, sia per i ritardi e le numerose disfunzioni del suo apparato (abnorme lentezza dei processi, irrazionale distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio, vistose carenze organizzative, vuoti macroscopici di organico ecc.), sia per la mancanza di una seria politica di amministrazione della giustizia, non essendosi provveduto a dotare gli uffici giudiziari delle risorse materiali e umane necessarie per renderli efficienti ed efficaci. Senza validi e adeguati mezzi di supporto (di personale ausiliario, di strutture edilizie, di nuove procedure informatiche e telematiche ecc.), riesce difficile (e forse utopistico) stabilire il giusto rapporto che deve istituirsi tra il ruolo della magistratura, così come è stato disegnato dalla Costituzione (art. 101 comma 2), e l’applicazione della legge, soprattutto se sui giudici – come è accaduto con molte recenti leggi di riforma (in materia penitenziaria, di diritto di famiglia, di procedure concorsuali, di flussi di immigrazione ecc.) – si continua a scaricare mediante impropri meccanismi di supplenza un serbatoio di tensioni e di problemi che dovrebbero essere affrontati e risolti da altre amministrazioni dello Stato. La crisi della giustizia ha indubbiamente molte componenti perché fa capo alla congiuntura economica, all’irrefrenabile congestionamento degli uffici per l’accresciuto volume del contenzioso, all’abuso del processo da parte di avvocati poco ispirati sul piano etico-deontologico, a una produzione normativa alluvionale a opera di vari legislatori (europeo, statale, regionale) e a un reticolo di uffici calibrato più sulla loro identità burocratica che sul servizio pubblico che sono chiamati a rendere. Molti giudici, rimasti tuttora legati a stereotipi del passato, si sottraggono a modelli e programmi di lavoro idonei a ridurre i tempi dei processi loro affidati e non si sforzano di trovare soluzioni per dare efficienza a strutture obsolete, per capire quali e dove sono i nodi da sciogliere, per avviare sperimentazioni e best practices, per formare meglio i ruoli, le udienze e le tipologie di cause, essendo più forte la tentazione di dedicarsi alle emergenze, in nome di snobistiche autoreferenzialità e di un angusto sentimento di casta anziché in nome di una seria cultura dell’organizzazione. Da parte del legislatore poi è sempre mancata una visione complessiva delle cause e dei possibili rimedi in grado di risolvere la cronica crisi della giustizia con una riforma al passo coi tempi, e cioè elaborando un progetto organico capace di realizzare mediante una visione di insieme le sue esigenze effettive per quanto concerne il settore civile e quello penale, essendosi preferito far ricorso a interventi illusionistici e a macchia di leopardo (come l’indulto del luglio 2006) e a operazioni di pseudo-maquillage per mascherarne lo stato agonico. Di ricette ne sono state proposte fin troppe e tutte vengono indicate come taumaturgiche, ma senza un valido disegno unitario che si ispiri all’etica del risultato è difficile che si affrontino con spirito concreto e costruttivo i problemi veri della giustizia. A onta di manovre di delegittimazione e di screditamento della funzione giudiziaria per certi errori ed eccessi che pure ci sono stati e seguitano a esserci (come il protagonismo di alcuni magistrati, l’eccessiva enfatizzazione del loro ruolo, le degenerazioni del rapporto tra processo e informazione, l’amplificazione di iniziative giudiziarie clamorose e di forte impatto emotivo sull’opinione pubblica, talune anomalie procedurali, come quelle verificatesi alla fine del 2008 sull’asse Salerno-Catanzaro), è pacifico che la magistratura svolge un servizio essenziale e irrinunciabile per i cittadini e, per funzionare, deve dotarsi dei parametri di modernità e di efficienza che si utilizzano o si dovrebbero utilizzare in tutti gli altri settori della pubblica amministrazione. Dal corretto funzionamento del servizio-giustizia si misurano l’affidabilità e la serietà di ogni paese democratico, perché gli indici di competitività non sono soltanto il sistema industriale, la sanità e i trasporti, ma anche l’apparato giudiziario, la cui inefficienza cronica e i cui ritardi pesano sulla crescita economica della nazione, lasciano insoddisfatte le parti del processo, esasperano gli imprenditori e allontanano gli investitori stranieri, compromettendo la crescita dimensionale delle imprese e lo sviluppo dei mercati finanziari. Rendere efficiente la giustizia, che è un tassello importante dell’equilibrio istituzionale, rientra nel processo di modernizzazione del paese.
In quest’ottica, nella lunga sequenza temporale che sta ritmando i progetti di riforma della giustizia in Italia, bisogna dare assoluta priorità a tutte quelle misure che assicurino una maggiore snellezza e celerità ai processi, la cui irragionevole durata è qualcosa di più della spia di un malessere che cova da anni, perché denuncia una malattia gravissima che non è stata affrontata finora con cure e terapie appropriate e impone, perciò, scelte immediate e non più rinviabili.
I temi del confronto sulla riforma della giustizia (e, in prospettiva, della magistratura, riguardata non nel suo assetto istituzionale, ma nel suo agire concreto) toccano, da un lato, alcuni aspetti ordinamentali (o, se si vuole, di struttura) dell’ordinamento giudiziario e, dall’altro, alcune soluzioni squisitamente tecniche, di carattere normativo e organizzativo, volte a incidere sulle disfunzioni patologiche che si registrano nello svolgimento dei processi. Mentre una parte della politica e dell’avvocatura (in particolare, le Camere penali) continua ad attestarsi su una serie di rivendicazioni di tipo ideologico della rispettiva categoria che si concentrano essenzialmente sul versante costituzionale, con l’intento sottinteso di ridimensionare i poteri (o gli strapoteri, come qualcuno dice) della magistratura, esiste invece una sostanziale concordia di vedute sulla necessità di migliorare il tasso di efficienza del processo e il suo buon funzionamento, focalizzando quelli che vengono concordemente indicati come i suoi problemi tecnici prioritari, tuttora irrisolti: l’effettività del diritto di difesa, la terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero, i costi della giustizia, le scoperture di organico, le competenze dei giudici di pace e dei giudici onorari, la specializzazione dei giudici ordinari, un più vasto utilizzo delle tecnologie informatiche, un’attenta revisione della geografia giudiziaria, una rivisitazione dell’ambito e dei limiti del giudizio di appello, il sovraffollamento delle carceri, la riforma del codice penale, la certezza della pena, l’accelerazione dei tempi del processo sia civile sia penale. Naturalmente si tratta di temi che non esauriscono la riforma della giustizia e l’indicazione dei possibili rimedi ai mali che l’affliggono, ma valgono a offrire un quadro significativo della vastità delle problematiche in discussione. Qui si accennerà solo alle riforme principali in corso di approvazione e a quelle che hanno già trovato una consacrazione normativa da parte del Parlamento.
Le riforme di ordine costituzionale
Anche con toni aspri, malgrado l’uso di termini quasi sempre generici e sommari, politici e avvocati mostrano di privilegiare il profilo costituzionale del rapporto tra i poteri dello Stato e, in questa prospettiva, propongono come obiettivi da realizzare in via prioritaria e immediata, per una coerente ed efficace riforma della giustizia, la netta separazione delle funzioni e/o delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, il superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e la revisione dell’assetto del Consiglio superiore della magistratura, per quanto concerne i criteri di composizione e le modalità di scelta dei suoi componenti. Altri temi, ugualmente pressanti ma in posizione più defilata, riguardano la giustizia disciplinare, il reclutamento e la progressione in carriera dei magistrati secondo criteri di produttività, di merito e di aggiornamento professionale, il collocamento fuori ruolo e la previsione di adeguati controlli di professionalità degli stessi magistrati.
Volendo limitare l’indagine ai temi per così dire ‘caldi’ della riforma, appare opportuno soffermarsi innanzitutto sulla separazione delle carriere del giudice e del pubblico ministero, considerata da molti una conseguenza ineluttabile dell’introduzione del rito accusatorio nel processo penale, riformato nel 1988. Separare le carriere significa che tra giudici e pubblici ministeri non può esistere una carriera unitaria, come accade oggi in Italia, ma deve delinearsi una distinzione netta delle due categorie nell’accesso alla magistratura attraverso il sistema di un doppio concorso, nella progressione in carriera, nel riconoscimento delle garanzie e della rispettiva autonomia, nell’escludere l’intercambiabilità dei ruoli. Alla separazione delle carriere dovrebbe accompagnarsi una riforma radicale della composizione e delle funzioni del CSM, con il suo sdoppiamento in due sezioni, perché il giudice non può essere amministrato dallo stesso CSM che governa il pubblico ministero, dal quale va tenuto concettualmente distinto se si vuole dare concreta attuazione ai principi del cosiddetto giusto processo, proclamato solennemente dall’art. 111 comma 2 della Costituzione.
In un clima avvelenato dai pregiudizi e dal reciproco sospetto, molti magistrati criticano queste innovazioni perché ritengono che, con la separazione delle carriere e le ventilate modifiche della composizione del CSM, la vera posta in gioco diventi l’assoggettamento del pubblico ministero al governo e quindi la perdita dell’indipendenza della magistratura, con ripercussioni pesanti sulla tenuta del sistema democratico. La separazione delle carriere, così come viene auspicata, sarebbe tesa a determinare una riforma dei magistrati e non della giustizia, con il fine ultimo di arrivare ad abolire il controllo di legalità sul potere politico ed economico. Senza considerare che, introducendo la separazione delle carriere, si rischia di fare dei magistrati inquirenti una casta autoreferenziale, sganciata dal corpo giudiziario, che potrebbe rivelarsi un boomerang, anche se non si può fare a meno di riconoscere che il pubblico ministero, quale dominus dell’attività investigativa e della ricerca della notizia di reato, è senz’altro una parte del processo e non un giudice, che per definizione deve essere terzo e imparziale e, come tale, del tutto equidistante dall’accusa e dalla difesa.
C’è da dire che la separazione delle carriere è prevista pressoché nella tradizione di tutti gli ordinamenti giuridici di matrice anglosassone, che distinguono lo status professionale del pubblico ministero da quello del giudice, partendo dal presupposto che si è in presenza di ruoli diversi e non omologabili, per i quali occorre un’opportuna specializzazione. La separazione in ogni caso si può fare, purché il pubblico ministero rimanga all’interno dell’ordine giudiziario (che deve restare perciò unitario) e gli vengano assicurate le stesse garanzie di indipendenza che spettano al giudice.
E veniamo al secondo tema che, pur toccando l’assetto della magistratura, è legato a doppio filo al principio della separazione delle carriere. Nel corso degli anni, per ridurre il numero dei processi penali che si riversano negli uffici giudiziari, sono state sperimentate soluzioni diverse, dalla depenalizzazione alla previsione di riti alternativi, dall’istituzione del giudice unico alla concessione di amnistie periodiche di sfoltimento, fino alla discutibile riforma della disciplina della prescrizione dei reati (cosiddetta legge ex Cirielli). Queste soluzioni, almeno in astratto, sembrano contrastare con la norma dell’art. 112 della Costituzione, secondo cui «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale», a garanzia dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e dell’autonomia del rappresentante della pubblica accusa da possibili interferenze del potere esecutivo. Abolendo questo principio – è questo il timore di una parte della magistratura – si finirebbe per costruire un pubblico ministero fuori dal circuito della giurisdizione, consentendo un controllo del governo sul suo operato e indirizzando l’azione penale attraverso l’indicazione di priorità proprie dell’agire politico.
Tutti sono però d’accordo che non è mai esistita un’uniformità di atteggiamento delle procure della Repubblica nel promovimento dell’azione penale, che risulta anzi connotata nei suoi snodi fondamentali da una forte dose di discrezionalità (quanto meno sull’an e il quomodo): la quale, di per sé, vanifica il principio costituzionale della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il fatto è che sussiste obiettivamente l’impossibilità materiale di perseguire tutti i reati con pari effettività e solerzia, non essendo concepibile che si possano esaminare contestualmente e nella totalità tutte le notizie di reato che arrivano sul tavolo del pubblico ministero. Non a caso la commissione istituita nel 1997 dal presidente francese Jacques Chirac per verificare se fosse possibile introdurre il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale in quell’ordinamento liquidò la questione con poche battute, affermando che il principio dell’obbligatorietà era di fatto inapplicabile e che il pubblico ministero sarebbe stato costretto in ogni caso a fissare i suoi criteri di priorità. Giuristi del calibro di Tullio Padovani e di Giuseppe Di Federico non hanno mancato di far rilevare che l’obbligatorietà dell’azione penale rende il pubblico ministero irresponsabile delle decisioni discrezionali che assume, trasformando in buona sostanza la sua autonomia di valutazione in un atto sovrano e per ciò stesso arbitrario. Il potere di fissare determinate scale di priorità circa i reati da perseguire spetta insomma al legislatore e non all’arbitrio del singolo pubblico ministero. Il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale enunciato dall’art. 112 della Costituzione sarebbe perciò un tabù ipocrita, quasi un fantasma o un totem, come vanno ripetendo da anni molti esponenti del Partito radicale, un principio quindi che va soppresso a favore del modello alternativo della facoltatività dell’azione penale e della connessa responsabilità politica che sono presenti in tutti gli ordinamenti dei paesi occidentali di democrazia avanzata. Per la verità si può anche pensare di non sopprimere l’art. 112, l’importante è che gli si dia un contenuto, come suggerisce Padovani, ponendo un argine alla discrezionalità delle toghe e optando per un diritto penale minimo, istituendo meccanismi di ‘discrezionalità vincolata’ e ampliando il campo dell’irrilevanza penale del fatto, come già avviene nel diritto penale minorile e nel giudizio penale davanti al giudice di pace. Controverso è anche il terzo profilo costituzionale che tocca la modifica della composizione del CSM che, nella sua veste di organo di autogoverno della magistratura, viene accusato sempre più spesso di debordare dalle funzioni e dalle prerogative che gli assegna l’art. 105 della Costituzione (c’è chi è arrivato a parlare di ‘terza camera’). L’idea di fondo è di riequilibrare il numero dei componenti aumentando il numero dei membri laici (leggi: politici) e affidando la nomina di questi ultimi al capo dello Stato, nonché di istituire due sezioni, una per la magistratura inquirente e l’altra per la magistratura giudicante. Per completare il quadro si vorrebbe creare anche una sezione disciplinare indipendente dal CSM e composta non da una prevalenza di magistrati, come è adesso, ma da un gruppo di giuristi di chiara fama (per esempio, ex presidenti della Consulta), per rimediare a giudizi troppo ‘domestici’ (rectius, addomesticati) e indulgenti. Non manca neppure chi suggerisce di affidare la competenza in materia disciplinare su tutti i magistrati (non solo ordinari, ma anche amministrativi, contabili e militari) a un’alta corte esterna, formata da giudici nominati dal Parlamento e dal capo dello Stato, per combattere la lottizzazione politica dei magistrati all’interno del CSM, sia con riferimento al sistema di elezione dei suoi organi rappresentativi, sia riguardo al suo stesso funzionamento che si svolgerebbe attualmente sotto il dominio delle correnti associative della magistratura.
La riforma della giustizia civile
Il richiamo emotivo alle modifiche costituzionali, anche se viene rappresentato dai politici e da una parte degli avvocati come prioritario e ineludibile, sia che si condivida sia che non si condivida, non è destinato però a spostare di un millimetro la situazione di tendenziale paralisi che impedisce attualmente di far fronte alla domanda di giustizia, sempre più pressante anche in aree marginali della collettività. Separando le carriere dei magistrati non si accorcia la durata dei processi civili e penali. Allo stesso modo, sopprimendo il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, non avremo un processo più giusto, né riformando la composizione del CSM avremo una giustizia più celere.
Un fermo richiamo alla concretezza – che lanci un messaggio chiaro e inequivoco in ordine alla necessità di porre mano a una tempestiva, incisiva e non più rinviabile riforma del sistema giudiziario – non può che prendere le mosse dal catalogo delle patologie che affliggono il funzionamento del processo civile e penale, il cui difetto più grave è la sua eccessiva lunghezza, che segna la profonda differenza del nostro paese con gli altri paesi comunitari e raggiunge spesso tempi inaccettabili a causa del sovraffollamento dei ruoli, del ripetersi di udienze distanziate di mesi, della dilatazione dei tempi di fissazione dell’udienza di discussione, della cronica carenza di risorse materiali e umane. Alcune delle cause della crisi sono immediatamente identificabili e non si risolvono certo con leggi di rango costituzionale-ordinamentale. Nell’ampio ventaglio delle possibili riforme in materia di giustizia si devono privilegiare i problemi realizzabili attraverso leggi ordinarie, allo scopo di avere un processo che in tempi ragionevoli arrivi alla sentenza definitiva. Il che impone, per un verso, di fronte all’esasperante litigiosità che caratterizza il nostro paese, di studiare forme alternative alla giurisdizione statale in grado di alleggerire il carico dei giudici, per altro verso, di valorizzare e dare la massima centralità al giudizio di primo grado, che è l’unica fase processuale che garantisce oralità, immediatezza e uno sviluppo pieno del contraddittorio e, per altro verso ancora, di ristrutturare sapientemente l’ambito dei giudizi di impugnazione, di merito e di legittimità, secondo nuove cadenze e nuove modalità.
La più malconcia delle forme di giustizia, anche se la meno controversa, è indubbiamente la giustizia civile, perché, nonostante numerosi tentativi di riforma anche recenti, non è mai stata riservata a questa branca della giurisdizione, almeno a livello politico, l’attenzione che merita e che è stata invece rivolta per troppo, lungo tempo alle sole emergenze poste dalla giustizia penale. Una crisi così profonda, quella della giustizia civile, che qualcuno, ritenendola ormai irreversibile, ha parlato di ingiustizia civile o, addirittura, di morte del processo civile. Una morte dovuta all’eccesso di domande giudiziali rispetto alle reali capacità di risposta, ai tempi infiniti per ottenere una decisione, al sovraccarico dei giudici che sono chiamati a gestire un’enorme varietà tipologica di processi (a cognizione piena, esecutivi, sommari, cautelari, camerali, molti dei quali di modestissima entità), alla scarsa propensione delle parti private a cercare ragionevoli e più rapide soluzioni transattive, all’irrazionale distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio. E pure i problemi della giustizia civile sono quelli che più di ogni altro investono la vita quotidiana dei cittadini e degli imprenditori, anche se non suscitano le stesse emozioni mediatiche che fanno da strascico agli arresti e all’intercettazione di conversazioni di personaggi eccellenti.
Il profilo più rilevante dell’amministrazione della giustizia civile riguarda il forte squilibrio tra domanda e offerta di giustizia, tra il numero degli affari e la capacità di definirli da parte dei giudici. Il numero delle nuove cause introitate ogni anno dai giudici ha un volume superiore a quello delle cause che si riescono a smaltire. L’incremento della domanda di giustizia non consente di filtrarne in tempi brevi la serietà e la fondatezza e, quindi, di individuare gli interessi reali che meritano davvero soddisfazione.
Da questo angolo visuale destano non poche perplessità i contenuti della recentissima legge di riforma del processo civile (nr. 69/2009), che contiene un pacchetto di proposte di modifica di quasi 50 disposizioni del vigente codice di rito civile. Va senza dubbio apprezzata la scelta del governo di affrontare l’emergenza del processo civile prima della riforma del processo penale, ma la legge avrebbe bisogno di qualche ritocco sul piano della sistematicità e dell’organicità, almeno per quanto riguarda il bilanciamento tra la regola del giusto processo e quella della sua durata ragionevole, enunciate nei primi due commi dell’art. 111 della Costituzione. È senz’altro apprezzabile invece l’iniziativa compiuta dal ministro della Giustizia e dal ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione (si tratta del protocollo di intesa siglato il 26 novembre 2008), secondo cui le comunicazioni e le notificazioni di cancelleria dovrebbero avvenire presto per via telematica all’indirizzo elettronico comunicato da ogni legale al proprio ordine di appartenenza. Altrettanto condivisibile è l’introduzione (d.m. 27 aprile 2009) di regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati curati dalle cancellerie e dalle segreterie degli uffici giudiziari.
L’obiettivo delle iniziative del governo è senza dubbio quello di accelerare i tempi del processo civile dimezzando i termini tra le varie fasi della procedura (per la riassunzione del processo, per l’impugnazione delle sentenze), attraverso la previsione di alcune novità significative, come l’aumento della competenza per valore del giudice di pace, con il conseguente spostamento di un numero sensibile di controversie attualmente gestite dai tribunali; la semplificazione del regime delle nullità per difetto di competenza del giudice adito; l’invito rivolto ai giudici di redigere sentenze più sintetiche; la possibilità di condannare equitativamente anche d’ufficio la parte soccombente per lite temeraria; l’inammissibilità del ricorso per cassazione per vizio di motivazione se le due sentenze di merito sono conformi. Completamente nuovi sono poi gli istituti della testimonianza scritta, mutuata dallo strumento dell’affidavit d’oltreoceano, e del procedimento sommario di cognizione, che di sommario però avrebbe solo il rito trattandosi per il resto di un normale processo a cognizione piena. Non mancano neppure disposizioni che mirano a evitare l’uso a fini dilatori e ostruzionistici dei termini processuali, inserendo un meccanismo punitivo di ripartizione delle spese processuali per chi, pur vincendo la causa, abbia ottenuto più o meno quanto prospettato dal giudice in apertura del processo nella proposta di conciliazione, rifiutata dalla parte senza giustificato motivo.
Ma tutto questo non basta a risolvere la crisi della giustizia civile. Sorprende che la nuova legge non contenga un solo accenno alla necessità di erogare un servizio-giustizia che tenga conto dell’eccesso di domande, causa prima della durata irragionevole dei processi civili. Colpisce che rinvii a un’apposita delega al governo l’indifferibile necessità di ridurre e semplificare la parossistica proliferazione di riti speciali che caratterizza il processo civile italiano (c’è chi ne è arrivato a contare addirittura 27); che non provveda a snellire le procedure eliminando tutti quegli inutili formalismi che non hanno alcuna ricaduta sulle garanzie delle parti, a dare il massimo impulso al processo civile telematico e al cosiddetto ufficio del giudice. E ancora: a prevedere che gli avvisi agli avvocati si facciano da subito con posta elettronica certificata, a riformare funditus la magistratura onoraria (giudici onorari di tribunale, viceprocuratori onorari e giudici di pace), a rivedere l’ambito e i limiti del giudizio di appello introducendo, nei casi in cui è possibile, l’appello cosiddetto orizzontale (cioè il riesame della causa da parte di giudici collegiali dello stesso tribunale, perfettamente concepibile in relazione all’attuale sistema amministrato in primo grado essenzialmente da giudici monocratici). Da ultimo, a procedere alla revisione radicale delle circoscrizioni giudiziarie accorpando i tribunali più piccoli e sopprimendo le sezioni distaccate che disperdono energie, dando vita a tribunali con un bacino di utenza minimo di un milione di abitanti ciascuno, riequilibrando in questo modo il criterio istitutivo delle stesse corti d’appello.
La giurisdizione esige parametri di valutazione tendenzialmente stabili e non riforme dal fiato corto. Per modificare in modo efficace la situazione esistente, occorre studiare un ‘piano per la giustizia’, capace di affrontare i problemi in un quadro ben definito di obiettivi e di interventi, da programmare negli anni come tessere di un mosaico. Ciò suggerisce di mettere subito in agenda la trattazione prioritaria delle materie di maggior impatto sociale (famiglia e minori, lavoro, locazioni) e di primaria rilevanza economica (appalti pubblici, fallimenti, società ecc.), per le quali si può ipotizzare una competenza in un unico grado, peraltro già esistente in altre materie. Per tacere del fatto che, soprattutto in ambito assistenziale e previdenziale, sono devolute al giudice del lavoro questioni che potrebbero facilmente esaurirsi in sede amministrativa.
Ma non basta. Una delle parole chiave della riforma del processo (civile, ma anche penale) deve essere ‘alternativa’ e, se si guarda alla sostanza delle cose, l’esempio tipico di alternativa al o nel processo è costituito dalla mediazione o, comunque, da procedure di conciliazione e di arbitrato affidate a organismi professionali e/o imprenditoriali. C’è la necessità di potenziare e accelerare – sulla scia di quanto già previsto dalla delega contenuta nella nuova legge – il ricorso a forme alternative di definizione delle liti che in altri paesi consentono di risolvere in tempi brevi e a costi contenuti un numero elevato di casi senza andare davanti al giudice.
In una società che si evolve in modo sempre più veloce e che sembra perdere progressivamente i suoi tradizionali punti di riferimento senza averne consolidati di nuovi, la giustizia d’autorità (di tipo paternalistico, calata dall’alto) non può più costituire la sola fonte di risoluzione dei conflitti interindividuali; specie quando i conflitti riguardano rapporti di famiglia o controversie che affondano le loro radici in rapporti più ampi e complessi (vicinato, comproprietà, rapporti commerciali), o liti che coinvolgono interi gruppi di persone in conflitto tra loro. Senza considerare che la professione emergente del conciliatore potrebbe offrire nuovi sbocchi professionali a tante persone.
La riforma della giustizia penale
L’inefficienza dell’attuale sistema penale è sotto gli occhi di tutti. Tarda la definizione dei giudizi e, quindi, tarda l’esecuzione della pena che, quando arriva, è diventata quasi sempre inattuale e inadatta ad assolvere le funzioni che le assegna la Costituzione: la rieducazione del reo, l’assicurazione ai cittadini di più ampie garanzie di sicurezza, la soddisfazione delle ragioni della vittima del reato. Per non parlare della sensazione di inutilità della conclusione di molti processi, vanificati dal graduale svuotamento di contenuto sanzionatorio reale delle pene edittali irrogate, per effetto della concessione ai condannati dell’indulto o di misure alternative alla detenzione (ma c’è chi le chiama ironicamente ‘misure alternative alla pena’), con effetti dirompenti sulla tenuta complessiva del sistema.
Il protrarsi dei tempi di definizione del processo penale contribuisce a far perdere alla pena l’effetto dissuasivo che le è proprio, impedendo, per un verso, di salvaguardare i beni giuridici per così dire classici contro forme primordiali di criminalità (come l’omicidio, la rapina, il furto, lo stupro) e, per altro verso, di mettersi al passo con i tempi, fornendo risposte tempestive e adeguate a forme di criminalità tipiche della nostra epoca o, comunque, particolarmente acute nell’attuale momento storico (penso alla corruzione, all’usura, alla criminalità economica e finanziaria, al reato transnazionale). Il male profondo della nostra giustizia penale è lo sfaldamento dell’apparato sanzionatorio. Un epilogo, questo, esiziale per il sistema delle sanzioni, che ha bisogno per definizione di chiarezza di fini e di adeguatezza di mezzi. La perdita di certezza della sanzione si è estesa a macchia d’olio a tutti i meccanismi di controllo sociale, anche a quelli non penali, applicandosi a qualsiasi misura che abbia un contenuto afflittivo anche minimo: lo dimostra, a tacer d’altro, il numero impressionante di opposizioni a sanzioni amministrative correlate a violazioni delle norme sulla disciplina della circolazione stradale. Vengono contestate inosservanze del divieto di sosta, superamenti dei limiti di velocità accertati con l’autovelox. Viene notificato il verbale di contravvenzione e la prima cosa cui si pensa è di impugnarlo davanti al giudice di pace.
Peraltro, nella pratica legislativa di questi ultimi anni, si è sviluppata una curiosa linea di tendenza: da un lato, si è proceduto a inasprire i limiti edittali delle pene, nella convinzione che più le pene sono elevate e più possiedono un effetto intimidatorio (ignorando che le pene elevate servono solo a selezionare una delinquenza più sofisticata), da un altro lato, si sono studiati tutti gli accorgimenti possibili e immaginabili per evitare in concreto di applicarle. Alla stagione che sembrava ormai conclusa delle amnistie cicliche (con periodicità abbastanza frequente) è seguita in tempi più recenti la stagione dell’indulto svuota-carceri, a riprova dell’ottica puramente emergenziale in cui si continuano ad affrontare i problemi della giustizia penale e dell’esecuzione della pena (lo sfoltimento delle carceri troppo affollate), senza tener conto dei costi e dei rischi di questa pericolosa tendenza alla clemenza. Per non parlare dei guasti provocati dalla disciplina, rimaneggiata a più riprese, della sospensione condizionale della pena e dalle modifiche apportate alla disciplina della prescrizione dalla cosiddetta legge ex Cirielli, che hanno introdotto una fascia di sostanziale franchigia sanzionatoria per un elevato numero di imputati e condannati. Sul versante strettamente penalistico, le riforme sinora realizzate sono, come sempre, settoriali e dettate dalla necessità di dare tempestiva risposta a una pressante domanda di sicurezza della collettività sollecitata da fatti di cronaca. Tali sono le nuove norme contenute nel d.l. 23 febbraio 2009, nr. 11, convertito con modifiche nella l. 23 aprile 2009, nr. 38, volte a rendere più severo il trattamento penale, processuale e penitenziario dei reati di violenza sessuale e a introdurre una nuova figura di reato nel codice penale, quella degli «atti persecutori» (art. 612 bis c.p.), meglio noto come stalking, intesa a colpire le condotte di ossessiva e assillante interferenza nella sfera privata altrui. Motivata da un crescente allarme sociale è anche la legge sulla sicurezza, che contiene una serie di norme intese ad attuare un miglior controllo del territorio nazionale, sia con riferimento ai fenomeni di immigrazione clandestina sia mediante l’istituzione di ‘ronde’ di cittadini in funzione di sicurezza pubblica.
Urgente rimane in ogni caso la necessità di realizzare una pregnante e organica opera di depenalizzazione che concentri l’azione del giudice penale solo su quei beni che offendono valori costituzionalmente rilevanti e l’esigenza, oggi particolarmente avvertita, di superare un catalogo di sanzioni per così dire bloccato alle due tipologie tradizionali della pena detentiva e della pena pecuniaria. L’arretramento della pena detentiva non lascerebbe rimpianti se a sostituirla fossero chiamate altre sanzioni ritenute più utili al reinserimento sociale del condannato, meno desocializzanti forse, ma dotate di contenuti sufficientemente afflittivi. Bisogna poi ridurre il rischio della prescrizione, così come l’ha configurata la riforma ex Cirielli, perché l’estinzione dei reati per prescrizione si sta rivelando un meccanismo ingiusto che si annida anche in processi per reati gravissimi e si sta diffondendo anno dopo anno nel corpo del nostro sistema penale. Per rimediare a una riforma che tanto incide sull’effettività della pena, bisogna agire al più presto sulla disciplina dell’interruzione del corso della prescrizione, adottando una soluzione simile a quella accolta in ordinamenti di paesi a noi vicini, come la Spagna (art. 132 nr. 2 c.p.) e la Francia (artt. 7 e 8 c.p.p.), nei quali l’effetto interruttivo degli atti processuali prolunga la prescrizione senza limiti di tempo o con limiti amplissimi: ben più lunghi dei ristretti limiti del «tempo necessario a prescrivere» indicati nel secondo comma dell’art. 161 del nostro codice penale. Più praticabili, almeno nell’immediato, sono le modifiche che si possono apportare sul versante processuale, considerando che l’attuale processo penale è aggravato da un’ipertrofia di adempimenti inutili e da procedure lente e cavillose, sedimentate attraverso anni e anni di confusa proliferazione legislativa, trascurando progetti più mirati, come la semplificazione delle modalità di effettuazione delle notifiche e delle tipologie delle nullità processuali, avendo di mira la sola garanzia sostanziale della concreta conoscenza dell’atto da parte della difesa, o l’estensione del rito direttissimo nei suoi presupposti applicativi, oppure la revisione delle circoscrizioni giudiziarie (dando vita, per esempio, a corti d’assise distrettuali).
E ancora. Il processo accusatorio – con la coreografia che gli fa da sfondo e la formazione orale della prova in contraddittorio tra le parti – non può essere utilizzato per tre gradi di giudizio per tutti i tipi di reati, delitti e contravvenzioni. Sarebbe opportuno alleggerire gli uffici giudiziari penali semplificando la definizione dell’iter procedurale dell’accertamento di molti reati minori, evitando l’appello o cercando soluzioni di mediazione al processo per tentare di saldare la frattura tra l’autore del reato e la vittima.
Conclusioni
Negli ultimi anni la situazione del pianeta giustizia si è andata progressivamente deteriorando, dando corpo al vecchio adagio secondo cui «al peggio non c’è mai limite». Tullio Padovani, uno dei nostri migliori e arguti penalisti, a chi gli domandava vent’anni fa quale potesse essere la riforma più efficace per affrontare i guasti del sistema giudiziario italiano, rispose ironicamente: «un pellegrinaggio a Lourdes». Oggi, di fronte alla stessa domanda, non è più possibile cavarsela con la stessa battuta. Bisogna agire, continuando a coltivare la virtù – sempre più ardua e sempre più difficile – della speranza nutrita di ragione. È ora di finirla in ogni caso di ventilare falsi problemi, ripetendo slogan e luoghi comuni fastidiosamente retorici, formulando accuse generiche e senza riscontro nei confronti della magistratura nel suo complesso. Non è possibile continuare a invocare una maggiore efficienza manageriale da parte dei capi degli uffici richiedendo loro un’ottimizzazione delle risorse (che cosa si ottimizza se le risorse non ci sono? Cosa si può fare di fronte a vuoti spaventosi di organico che non possono essere vicariati?). È facile suggerire che bisogna far ricorso a best practices, cioè a prassi virtuose intese a migliorare i tempi della resa di giustizia. Certe prassi virtuose (stipula di convenzioni con avvocati e neolaureati, predisposizione di protocolli di udienza) possono sicuramente migliorare la situazione, ma non raddrizzarla. Quello che manca purtroppo nel nostro ordinamento è una legge sul processo, una legge impostata sul processo, capace di ridurne i tempi di durata. Per il buon funzionamento della giustizia continua purtroppo il conto alla rovescia e passerà ancora del tempo prima che il Parlamento possa mettere mano a una sua riforma seria e organica. La classe politica preferisce dedicarsi ai dettagli che la interessano più direttamente (ridurre la possibilità di impiego investigativo delle intercettazioni telefoniche e ambientali, sottraendo agli organi inquirenti uno strumento di indagine prezioso per l’accertamento di gravissimi reati pur di evitare uno squalificante gossip mediatico, anziché sollecitare una più corretta applicazione delle norme esistenti). Non verremo mai fuori dalla crisi della giustizia se il giudice continuerà a restare il referente di ogni minima vicenda contenziosa e non ci si deciderà a considerarlo finalmente come l’ultima chance da giocare quando tutte le altre abbiano fallito (come avviene in altre nazioni, dove sono previsti sistemi di mediazione e di conciliazione prima e in alternativa al processo innanzi all’autorità giudiziaria), se si continuerà a ritenere che per ogni decisione del tribunale o del giudice di pace ci debba essere sempre un appello e un giudizio per cassazione, se i giudici delle corti d’appello continueranno a scrivere decine e decine di pagine per dire che sono d’accordo con il giudice di primo grado e non intendono discostarsi di una virgola dal suo pensiero.
L’ordinamento giudiziario nei principali sistemi giuridici
di Paolo Ravaglioli
Una descrizione comparativa degli ordinamenti giudiziari dei maggiori sistemi giuridici non può prescindere, in questo come in qualsiasi altro settore del diritto, dalla fondamentale distinzione tra ordinamenti di diritto comune (common law) e di diritto civile (civil law).
Nei paesi di tradizione anglo-americana, o di diritto comune, la classe magistratuale è da sempre contraddistinta da un indubbio ruolo politico, che risulta ulteriormente rafforzato dal controllo diffuso di costituzionalità delle leggi negli Stati che dispongono di una Costituzione scritta, poiché in tali casi è il contenuto precettivo delle norme primarie a essere interessato dagli interventi degli organi giurisdizionali, attraverso lo strumento della disapplicazione combinato con il sistema del precedente vincolante. Un’altra peculiarità rispetto agli apparati giudiziari dei paesi della tradizione di diritto civile riguarda il sistema di nomina dei magistrati, che vengono designati dal potere esecutivo, ovvero direttamente dal popolo.
Negli ordinamenti di diritto civile la magistratura si contraddistingue per un assetto burocratico, dal momento che il reclutamento dei suoi membri viene effettuato mediante l’espletamento di concorsi pubblici aperti alla partecipazione di candidati che hanno da poco concluso gli studi di giurisprudenza, senza quindi che venga attribuito significato particolare a eventuali pregresse esperienze professionali. Gli appartenenti al potere giudiziario vengono poi inseriti in un’organizzazione gerarchica, la quale prevede avanzamenti di carriera di tipo competitivo, con valorizzazione nei vari passaggi di carriera sia dei meriti professionali acquisiti sia dell’anzianità di servizio. Altra caratteristica che generalmente si riscontra nei paesi di questa tradizione giuridica inerisce a una concezione generalista dell’attività giurisdizionale, nel senso che il magistrato può essere assegnato indifferentemente a ogni ufficio giudiziario e con funzioni non predeterminate.
Regno Unito
Nel Regno Unito coesistono due sistemi giuridici, la common law operante in Inghilterra e Galles e la Scots law della Scozia, ai quali se ne può aggiungere un terzo, che è in sostanza una ramificazione del sistema inglese, definito Anglo-Irish law e operante nell’Irlanda del Nord. La differenza fondamentale tra i due sistemi risiede nel diverso peso attribuibile all’influenza della giurisdizione e dei giudici: i magistrati inglesi hanno esercitato un’indiscutibile egemonia nella formulazione del diritto e nella stessa invenzione della common law, che ha quindi natura essenzialmente giurisprudenziale, mentre in Scozia i giudici hanno operato al fianco dei grandi giuristi, e pertanto la costruzione dell’ordinamento è organizzata intorno alla compresenza tra fonti di giurisprudenza e fonti scritte derivanti da accurate tecniche di codificazione. Sebbene il diritto scozzese non si sia del tutto sottratto all’influenza della common law, la diversificazione dei due sistemi ha prodotto diversi apparati giudiziari.
Espressione tipica della common law è dunque l’ordinamento inglese, che si divide in civil e criminal jurisdiction. La giurisdizione civile, cui spetta normalmente decidere anche questioni che nei paesi di diritto civile sarebbero di competenza dei giudici amministrativi, è esercitata dalle County courts, operanti capillarmente sul territorio, e dalla High court. I tribunali di contea, istituiti nel 1846 come corti per le controversie minori e progressivamente espansi fino all’emanazione del Courts and legal services act del 1990, hanno una competenza limitata sia per territorio sia per valore, dal momento che è obbligatorio rivolgervisi per tutte le cause di valore inferiore alle 25.000 sterline e facoltativo per le cause fino a 50.000. La High court, che ha sede a Londra, ha al contrario competenza generale nei restanti ambiti del diritto civile. È divisa in tre sezioni, corrispondenti ad alcune delle antiche corti che essa ha sostituito nel 19° secolo: la Queen’s bench division, che si occupa di una vasta gamma di questioni, tra cui le azioni di risarcimento derivanti da inadempimento contrattuale o illecito civile, controversie commerciali e di diritto marittimo (Admiralty cases); la Chancery division, che ha competenza principalmente nelle questioni di diritto testamentario e nelle cause relative a beni immobiliari; la Family division, che giudica sulle controversie di diritto familiare, come quelle riguardanti matrimoni, adozioni e successioni intestate. Alcuni ricorsi presentati contro decisioni di tribunali inferiori sono esaminati dalle Divisional courts della High court, che sono organi formati da almeno due giudici. Più specificamente, i ricorsi presentati contro le sentenze dei tribunali di contea in materia di bancarotta e questioni fondiarie sono giudicati da una Divisional court della Chancery division, mentre le Divisional courts della Queen’s bench si occupano dei ricorsi relativi a questioni di diritto avverso le decisioni delle Magistrates’ courts e della Crown court; la Divisional court della Family division, infine, ha competenza sugli appelli avverso decisioni relative a controversie di diritto familiare prese da Magistrates’ courts. Contro le sentenze di primo grado è dato generale ricorso alla Civil division della Court of appeal, istituita con il Supreme court of judicature (consolidation) act del 1925 e presieduta dal Master of the rolls. Di norma, sono tre i giudici che si riuniscono in Corte d’Appello, ciascuno dei quali prende una decisione sul caso, con la statuizione definitiva corrispondente all’opinione maggioritaria.
Per quanto riguarda la giurisdizione penale, le cause relative a reati meno gravi sono esaminate dalle Magistrates’ courts, composte in genere da tre magistrati non professionisti e senza formazione giuridica, assistiti da un clerk, un ausiliario o un avvocato con almeno 5 anni di esperienza professionale. I casi più complessi sono comunque lasciati a giudici distrettuali (District judges) a tempo pieno. Le sanzioni erogabili dalle Magistrates’ courts possono essere di natura finanziaria o comportare l’arresto, ma solo per periodi limitati.
Se il caso sottoposto a una Magistrates’ court riguarda un reato grave il giudizio è rinviato alla Crown court, tribunale istituito nel 1971 con il Courts act per sostituire le Courts of assize e le Quarter sessions, e caratterizzato dalla presenza di una giuria di 12 cittadini. Le sue decisioni sono impugnabili davanti alla Criminal division della Court of Appeal.
L’ultimo grado di appello, cui si può ricorrere per impugnare le decisioni di secondo grado sia nelle cause civili sia in quelle penali, è stato per secoli costituito da un apposito collegio della House of Lords, storicamente formato dal Lord chancellor e dai Lords of appeal in ordinary (Law lords). Il ricorso in questa sede, tuttavia, veniva esaminato soltanto se era accordato il permesso (leave) di ricorrere da parte del giudice che aveva pronunciato la decisione impugnata oppure, su ricorso contro il suo diniego, dalla stessa Camera dei Lord in sede di esame preliminare. Una prima riforma nel 2003, con la quale è stata soppressa la figura del Lord Chancellor e riconsiderata la posizione dei Law Lords, ha aperto la strada a un’ulteriore fase di modernizzazione del supremo grado di appello che si è verificata con il Constitutional reform act del 2005, legge istitutiva della Supreme court of the United Kingdom. Dal 2009 questa corte, composta da 12 giudici nominati dalla regina ma scelti da una commissione indipendente (JAC, Judicial Appointment Commission), ha assorbito le funzioni dell’Appellate Committee della Camera dei Lord, divenendo il giudice di ultima istanza nell’ordinamento inglese.
Anche i magistrati delle corti inferiori sono ormai selezionati dalla JAC, che ha sostituito in questo compito le apposite commissioni formate da magistrati ed esponenti politici locali, in modo da garantire una più coerente separazione dei poteri. Già con il previgente sistema, comunque, il giudice inglese, una volta insediatosi nella carica, godeva di una notevole protezione nei confronti del potere politico dal quale promanava la sua nomina. Sulla base dell’Act of settlement del 1701, infatti, i giudici delle corti superiori esercitano le funzioni giurisdizionali during good behaviour, formula che nella pratica significa ‘a vita’, con garanzia di sostanziale inamovibilità. L’ordinamento contempla gli istituti dell’impeachment e dell’address allo scopo di far valere l’eventuale responsabilità politica, democratica e istituzionale del giudice, ma tali possibili sanzioni, la cui applicazione comporta la destituzione del giudice, non sono quasi mai poste in essere.
Stati Uniti
Negli Stati Uniti esistono ben 51 sistemi giudiziari diversi: vi è infatti quello federale e uno per ciascuno dei 50 Stati.
L’ordinamento federale si fonda sull’articolo III della Costituzione, secondo cui il potere giudiziario negli Stati Uniti è affidato a una Corte Suprema e a tanti tribunali di ordine inferiore quanti il Congresso stabilirà all’occorrenza. Questa previsione si è tradotta, nel corso del tempo, nella disciplina della materia da parte del Congresso, con la composizione della Corte Suprema fissata in nove giudici e con la creazione di due gradi di giudizio inferiori, costituiti dalle Corti Distrettuali e dalle Corti d’Appello.
Va premesso che il potere giudiziario federale è un ramo completamente separato e autonomo, che ha il compito di stabilire la costituzionalità delle leggi federali e di risolvere le controversie riguardanti tali norme. Per quel che riguarda il criterio di selezione dei giudici, va evidenziato come essi non siano dotati di legittimazione diretta in quanto sono nominati dal presidente in carica, con l’avallo del Senato. La Costituzione ne garantisce l’indipendenza stabilendo che possano restare in carica a vita ed essere destituiti solo in seguito a impeachment, qualora il Congresso abbia accertato atti di tradimento, corruzione o altri gravi reati a loro carico. A ciò si aggiunge che la loro retribuzione non può essere ridotta durante la permanenza in carica, né dal presidente né dal Congresso.
La garanzia dell’inamovibilità è il frutto della particolare autorevolezza che i giudici federali hanno acquisito nello svolgimento della propria attività privata. Essi infatti sono scelti dal presidente solitamente tra avvocati, ma a volte anche tra professori universitari, che hanno già svolto una brillante carriera nel mondo del diritto, godendo conseguentemente di notevole prestigio personale. La garanzia della loro indipendenza è dunque individuata non tanto dal metodo di selezione o da strutture organizzative autonome, come nel caso dei giudici dell’Europa continentale, ma dal prestigio sociale acquisito prima della nomina e in seguito mantenuto.
Il potere giudiziario federale è articolato in tre differenti livelli. Autorità competente in primo grado sono le Corti Federali Distrettuali, che si pronunciano su vertenze di natura sia civile sia penale. Tutte le violazioni di legge federale in materia penale confluiscono infatti nella competenza di tali corti laddove, per le cause civili, queste ultime hanno la possibilità di conoscere soltanto le controversie tra due soggetti appartenenti a diversi Stati, o tra cittadini statunitensi e stranieri, e comunque unicamente superati determinati limiti di valore. Nelle cause penali, la maggior parte dei processi istruiti da un distretto federale vede la presenza, accanto a un giudice monocratico, di una giuria popolare, che è invece assente nelle vertenze civili, dove è eventualmente previsto, in un limitato numero di casi, l’affidamento della causa a un collegio giudicante composto da tre giudici. Ciascuno dei 50 Stati dispone di almeno una Corte Distrettuale, ma diversi di essi sono suddivisi in distretti di minori dimensioni, come per es. lo Stato di New York, nel quale sono presenti quattro Corti.
Accanto al sistema delle Corti Distrettuali esistono, inoltre, due tipi speciali di tribunali di prima istanza, che hanno competenza su tutto il territorio nazionale per alcune materie specifiche. Il primo di essi è rappresentato dal Tribunale del commercio internazionale, che quindi si occupa dei casi che riguardano il commercio internazionale e la normativa doganale. Il Tribunale degli Stati Uniti per i ricorsi federali è competente, invece, per le controversie riguardanti gli appalti del governo federale, l’appropriazione di beni privati da parte dello stesso governo e per una serie di altri ricorsi di natura economica sempre nei confronti del governo.
Come nell’ordinamento inglese, anche negli Stati Uniti vige il sistema del giudice unico, competente sia per le liti tra privati sia per le controversie che vedano coinvolta la Pubblica Amministrazione: da ciò consegue che i giudici di cui al citato articolo III della Costituzione, che compongono le Constitutional Courts, siano unici titolari del potere giurisdizionale federale, così come stabilito dalla Corte Suprema fin dal 1828 con la sentenza American Insurance Company v. Carter. Con la medesima statuizione, tuttavia, la stessa corte ha ritenuto possibile, sulla base dell’articolo I, sez. 8, clausola 9 della Costituzione, la creazione da parte della legge federale di organi amministrativi adibiti ad attività quasi-giurisdizionale, che formano le Legislative courts.
Si è venuta così a delineare la categoria dei non-article III judges, caratterizzati, oltre che dalla titolarità non piena del potere giurisdizionale, dal mancato godimento delle garanzie di indipendenza dei giudici federali, dal momento che, sebbene anch’essi siano nominati dal presidente con possibilità di revoca solo in casi eccezionali, il loro mandato è a tempo determinato, anche se può essere alquanto lungo. Le loro decisioni, comunque, sono sempre appellabili dinanzi a giudici federali. Al di là di questi pochi tratti comuni, tuttavia, la categoria in esame è estremamente eterogenea, comprendendo organi giurisdizionali distinti per forma e funzioni, anche a causa di una giurisprudenza della Corte Suprema molto oscillante in merito ai requisiti minimi essenziali. Tra i non-article III judges spicca per importanza la US Tax court, competente per tutte le questioni fiscali.
È possibile impugnare tutti i provvedimenti di decisione definitiva emessi da un tribunale distrettuale, ricorrendo in Corte d’Appello. Il territorio statunitense è diviso in 11 aree geografiche, definite circuits (l’undicesima è costituita dal District of Columbia), ciascuna delle quali dispone di una Appellate court che giudica, con un collegio di tre membri, i ricorsi provenienti dai tribunali distrettuali appartenenti al proprio circuito e da alcuni enti amministrativi federali.
La parte che risulti soccombente dinanzi a una Corte d’Appello ha diritto a un ulteriore gravame in ultima istanza dinanzi alla Corte Suprema. Tale Corte, composta da un presidente e da otto giudici associati, designati a vita dal presidente con il consenso del Congresso, oltre a rappresentare l’organo supremo di giurisdizione d’appello, ha anche funzioni di tribunale di prima istanza in alcune ipotesi circoscritte, per es. per le controversie tra Stati per questioni di confini. Va sottolineato come la Corte Suprema non è tenuta a esaminare tutti i ricorsi che le sono proposti, potendo accettare di giudicare soltanto i casi che in sede di esame preliminare appaiono tali da presentare una questione di diritto di una certa importanza.
Accanto al sistema di giustizia federale si hanno i vari ordinamenti giudiziari statali, diversi da Stato a Stato, ma con caratteristiche generalmente ricorrenti. Premettendo che le denominazioni degli organi non sono sempre coincidenti, sono infatti presenti tre gradi di giudizio, il primo dei quali si svolge, a seconda dell’importanza dell’affare, dinanzi a un Justice of the peace, oppure a una Municipal court o a una County court, composte da giudici eletti o nominati, che operano spesso con la collaborazione di una giuria. Il secondo grado è costituito da una Intermediate court of Appeals, le cui decisioni possono essere impugnate dinanzi a una Final court of Appeals, che è la Corte Suprema dello Stato.
Le parti insoddisfatte della risoluzione dei casi data dalle corti statali possono presentare un ulteriore ricorso alla Corte Suprema federale per la concessione di un writ of certiorari, in forza del quale ottenere che il caso sia riesaminato dalla stessa corte per l’eventuale revisione della decisione impugnata.
Francia
L’organizzazione del sistema giudiziario francese è di natura dualistica, è composto cioè da un doppio binario di giurisdizione, che affida ai giudici ordinari la decisione sulle controversie tra privati e l’esercizio della pretesa punitiva dello Stato nei confronti dei trasgressori della legge penale, mentre il contenzioso tra privati è considerato Pubblica Amministrazione ed è lasciato alla giurisdizione del giudice amministrativo.
La Costituzione prevede una serie di garanzie di indipendenza a tutela dei soli giudici ordinari, ad assicurare una effettiva separazione tra giurisdizione e funzione di governo. Tali misure, in primis quella della inamovibilità, non sono invece adottate nei confronti degli organi giurisdizionali amministrativi.
L’autorità giudiziaria ordinaria è composta di due categorie di magistrati, dotati di status e garanzie differenti: i giudici, indicati come magistratura du siège in quanto tradizionalmente prendono la decisione seduti, e i pubblici ministeri, magistrats du parquet poiché svolgono la requisitoria in piedi. Solo i primi godono dell’inamovibilità, hanno cioè diritto al mantenimento della sede e possono essere trasferiti unicamente con il loro consenso.
A ulteriore garanzia dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria la Costituzione istituisce un Consiglio superiore della magistratura, formato da due sezioni distinte, l’una competente per lo status dei giudici, l’altra per quello dei pubblici ministeri. La prima sezione esprime parere vincolante sulla nomina dei giudici, che non può essere quindi disatteso dal ministro della Giustizia che effettua la designazione, mentre al contrario non comporta vincoli il parere reso dalla sezione dei magistrati du parquet.
Per quanto riguarda gli illeciti di carattere penale, hanno la competenza, rispettivamente per i reati e per le contravvenzioni, il Tribunale penale e il Tribunale di Polizia, che sono in realtà particolari articolazioni dei tribunali di istanza e di grande istanza, cioè gli organi con giurisdizione in primo grado nella giurisdizione ordinaria.
Nel campo civile il Tribunal d’instance, che ha sostituito il giudice di pace, giudica le controversie fino al valore di 7600 euro nelle materie attribuitegli dalla legge, quindi azioni mobiliari e personali, oltre a esercitare le funzioni del giudice tutelare, pronunciando perciò sull’emancipazione dei minori e organizzando i regimi di tutela e curatela.
Il Tribunal de grande instance ha competenza estremamente ampia, dal momento che si tratta di giudice di diritto comune, deputato cioè a conoscere tutte le controversie per le quali la competenza non è attribuita ad altro giudice. Esistono al suo interno dei giudici specializzati, per es. in materia di diritto di famiglia, delle espropriazioni e delle esecuzioni.
Contro le decisioni di questi due organi è possibile ricorrere in Corte d’Appello, organo collegiale investito degli stessi poteri e funzioni del giudice di primo grado in relazione ai ‘capi’ del provvedimento oggetto dell’impugnazione, e, in ultima istanza, in Corte di Cassazione, che ha però competenza limitata alla corretta applicazione della legge, con esclusione dell’esame nel merito.
Notevole importanza rivestono anche alcuni tribunali speciali: in primo luogo va menzionato il Tribunal de commerce, il quale giudica su tutte le controversie che oppongono i commercianti tra di loro, in relazione alla loro attività professionale. È composto da ‘giudici consolari’, cioè da non professionisti eletti tra i rappresentanti dei commercianti stessi e degli industriali.
Ha funzione invece di giudice del lavoro il Conseil de prud’hommes (Consiglio dei probiviri), competente a dirimere le questioni individuali tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, sorte nell’ambito di un contratto di lavoro o di apprendistato. Anche questa è una giurisdizione elettiva, composta in parti uguali da rappresentanti delle due categorie.
Altri giudici speciali sono il Tribunal des affaires de la sécurité sociale, competente in materia di previdenza sociale, e il Tribunal paritaire des baux ruraux, che si occupa delle cause che sorgono nell’ambito degli affitti fondiari.
Per quanto riguarda la giurisdizione amministrativa, anch’essa è divisa in tre gradi di giudizio, costituiti dai Tribunali amministrativi, dalle Corti amministrative d’Appello e dal Consiglio di Stato, che ne costituisce il vertice. In realtà il Conseil d’État, organo dalla prestigiosa e autorevole tradizione plurisecolare, nasce con l’originaria funzione di consulente amministrativo dell’esecutivo, che rende pareri obbligatori preventivi relativamente a tutti i regolamenti, le ordinanze e i progetti di legge elaborati dal governo. Ha acquisito nel tempo anche il ruolo di supremo giudice amministrativo, che decide in ultima istanza sulla legittimità dei provvedimenti impugnati in via giurisdizionale. Di conseguenza, esso si trova al centro dell’azione amministrativa sia nella fase preventiva, in funzione di consulente, sia in quella successiva, in veste di giudice.
Germania
In riferimento al diritto tedesco, si può osservare come l’assetto federale si rifletta anche sull’organizzazione dell’ordinamento giudiziario, dal momento che spettano ai Länder ampie competenze nella disciplina del sistema giuridico e nel reclutamento dei giudici delle giurisdizioni regionali. A norma dell’art. 92 della legge fondamentale (Grundgesetz) «il potere giurisdizionale è affidato ai giudici; esso viene esercitato dal Tribunale costituzionale federale, dai tribunali federali previsti nella presente legge fondamentale e dai tribunali dei Länder».
Ne emerge un sistema ove i primi due gradi di giudizio sono di competenza delle corti dei singoli Länder, mentre la revisione compete alle Corti Supreme federali, cui è affidato il compito di assicurare la corretta interpretazione e applicazione della legge su tutto il territorio federale.
L’ordinamento è caratterizzato, inoltre, per la presenza, accanto a quello costituzionale, di cinque diversi ordini di giurisdizione (ordinaria, amministrativa, finanziaria, del lavoro e sociale), ognuno dei quali ha proprie corti per ciascun grado di giudizio di merito e al vertice una Corte Suprema federale.
Per quanto riguarda la giurisdizione ordinaria, in primo grado sono presenti innanzi tutto tribunali locali (Amtsgerichte), competenti in ambito civile per le cause di valore inferiore a 5000 euro e per le controversie familiari (rapporti di filiazione, obbligazioni alimentari, controversie matrimoniali ecc.) e in ambito penale per i reati minori. Accanto a essi operano i tribunali regionali (Landgerichte), che invece conoscono tutte le controversie e i reati che non ricadono nell’ambito di competenza dei primi. In campo civile queste corti, oltre a disporre di competenza esclusiva in alcune materie, con particolare riferimento alle controversie nel settore pubblico e a quelle aventi per oggetto obbligazioni derivanti da responsabilità amministrativa, prevedono al loro interno la presenza di speciali sezioni per le cause commerciali, composte da un giudice togato come presidente e da due giudici laici (giudici commerciali). Le sentenze dei Landgerichte sono impugnabili presso le Corti d’Appello regionali (Oberlandesgerichte), mentre costituisce corte di legittimità di ultima istanza il Bundesgerichtshof.
È presente anche una giurisdizione ordinaria speciale in materia di lavoro, ripartita anch’essa in tre gradi di giudizio e contraddistinta dalla partecipazione di giudici ‘laici’ in ogni istanza.
Relativamente alla giurisdizione amministrativa sono presenti tribunali amministrativi generali e tribunali amministrativi speciali, costituiti dai tribunali delle finanze e dai tribunali per gli affari sociali. Si tratta di tre segmenti giurisdizionali ognuno con un proprio codice procedurale.
La giurisdizione costituzionale è esercitata in modo accentrato dal Tribunale costituzionale federale (Bundesverfassungsgericht), i cui 16 membri sono eletti per metà dal Bundestag e per metà dal Bundesrat. Tra le sue principali attribuzioni si trovano l’esame delle controversie tra organi costituzionali, le decisioni sui ricorsi diretti dei cittadini che lamentino la lesione di un diritto fondamentale da parte del legislatore o di altro pubblico potere, e il controllo di legittimità in via incidentale, nel caso in cui un tribunale ritenga una legge in contrasto con la Grundgesetz e richieda una valutazione.
La legge fondamentale non prevede un organo di autogoverno dell’apparato giurisdizionale, ma assicura ai giudici ampie garanzie di indipendenza. Essi, infatti, «possono essere deposti prima della scadenza del loro periodo di servizio, o sospesi dal loro ufficio a tempo indeterminato o temporaneamente, o essere trasferiti in altro posto, o collocati a riposo contro il loro volere, solo per decisione giudiziaria e per i motivi e con le forme stabilite dalla legge» (art. 97).
Anche ai magistrati requirenti, che sono funzionalmente dipendenti dal Ministero della Giustizia federale o dal Land, a seconda che si tratti di pubblici ministeri presso le giurisdizioni regionali ovvero di procuratori federali, è assicurato un ampio margine di autonomia nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, sebbene non si tratti, come nel caso dei giudici, di garanzie di indipendenza costituzionalmente stabilite.
Spagna
L’ordinamento giudiziario spagnolo, basato sul principio dell’unità giurisdizionale per il quale giudici e magistrati fanno parte della stessa struttura di carriera, è suddiviso in base alla materia del contendere in quattro segmenti di giurisdizione (civile, penale, amministrativa e sociale). Il sistema è articolato in due gradi di giudizio di merito e in un grado di controllo degli errori di diritto.
Alla base della struttura si pongono i giudici di pace (juzgados de paz), organi di prima istanza che operano nei municipi in cui non sono presenti i juzgados de primera instancia e instrucción. Si tratta di giudici onorari non togati la cui competenza in materia civile è limitata alle cause di valore non superiore a 90 euro, mentre in ambito penale si estende soltanto alle cause per delitti puniti con pene lievi (juicios de faltas).
Competenza generale di primo grado nel settore civile e commerciale è attribuita ai juzgados de primera instancia, organi al cui interno sono previste sezioni specializzate in materia familiare (juzgados de familia). In materia penale, invece, operano i juzgados de primeria instancia e instrucción nei casi comportanti la condanna a pene non detentive, i juzgados de lo penal per i reati puniti con meno di cinque anni di reclusione e le audencias provinciales in tutti gli altri casi. Per quanto riguarda le controversie in materia di lavoro e sicurezza sociale, competenza di primo grado è attribuita ai juzgados de lo social, le cui decisioni non sono impugnabili nei casi minori (cause di valore inferiore a 1800 euro), mentre nelle altre ipotesi è data facoltà di presentare un appello straordinario (recurso de suplicación) avanti le sezioni in materia sociale dei tribunali superiori di giustizia.
Le audencias provinciales, organi collegiali formati da tre magistrati, che hanno competenza residuale nel primo grado del settore penale, sono altresì gli organi di appello per la definizione dei ricorsi avverso le sentenze emesse dagli altri tribunali di primo grado.
Al vertice dell’organizzazione giudiziaria è il Tribunal Supremo, istituzione atta a conoscere i ricorsi in ultima istanza per soli motivi di legittimità in ciascuno dei quattro settori della giurisdizione ordinaria, con l’esclusione della materia costituzionale, di competenza della Corte Costituzionale, la quale non è integrata nel sistema giudiziario. Il Tribunal Supremo, in cui è presente anche una sezione che si occupa del settore della giustizia militare, ha sede a Madrid e ha competenza estesa a tutto il territorio nazionale.
All’interno di ciascuna comunità autonoma, invece, il grado più alto di giudizio è esercitato dai Tribunales superiores de justicia, organi competenti in ultima istanza in materia di leggi autonomistiche o con riferimento alla legislazione della comunità.
riferimenti bibliografici
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