L’attività dello Stato diretta all’attuazione della norma giuridica nel caso concreto, e l’insieme degli organi cui è demandata tale funzione.
Nel diritto romano, si intendeva per iurisdictio l’insieme delle facoltà spettanti al magistrato cui era attribuita l’amministrazione della giustizia civile. Fino all’età di Diocleziano, l’esercizio della g. civile fu caratterizzato dalla divisione fra l’attività del magistrato e quella del iudex, scelto dalle parti e confermato dal magistrato. Quest’ultimo delimitava i termini giuridici della controversia, prescrivendo come il giudice da lui nominato avrebbe dovuto risolvere la controversia verificandosi o meno l’ipotesi prevista nella formula. Il giudice invece verificava i fatti allegati dalle parti, e pronunciava la sentenza in base alla formula prescrittagli dal magistrato. Iudex poteva essere tanto un privato, che poteva agire come giudice o come arbitro, quanto un collegio: sia il collegio dei recuperatores sia i decemviri (st)litibus iudicandis (per le cause di libertà), i centumviri (per le petizioni di eredità), i tresviri capitales seu nocturni. Per quanto riguarda il magistrato, la g. spettò dapprima al re, poi ai praetores e ai magistrati straordinari esercitanti le stesse funzioni. Nel 367 a.C. la g. civile fu attribuita al praetor urbanus; poi fu creato un praetor peregrinus, cui fu attribuita la g. nelle cause fra cittadini e peregrini (➔ editto). Nei municipi e nelle colonie la g. venne esercitata dai praefecti iure dicundo e dai magistrati locali (duoviri, quattuorviri). Durante l’Impero il magistrato usò sempre più decidere da sé direttamente la causa, senza sottoporla al iudex (➔ cognitio extra ordinem). Basata sulla cognitio extra ordinem fu anche la g. esercitata dal praeses nelle province. Sugli stessi principi fu basata la g. esercitata dal princeps in forza del suo imperium, sia in prima istanza sia quando si venne svolgendo l’istituto dell’appellatio. Funzioni giurisdizionali furono poi attribuite agli ufficiali imperiali (praefectus urbi, praef. praetorio, praef. annonae, praef. vigilum), finché nel diritto giustinianeo si venne a costituire una gerarchia che dall’imperatore discendeva ai praefecti praetorio, ai vicari delle singole diocesi, ai rectores delle province, fino ai duoviri per i singoli comuni. Anche nella g. penale, che durante l’età repubblicana era esercitata in base al regime delle quaestiones, che a ogni reato attribuiva un proprio tribunale, venne successivamente a prevalere la cognitio extra ordinem.
Nell’età feudale si ebbe una moltiplicazione delle g., conseguente al dissolvimento dello Stato. La qualità di magistrato e il diritto di g. erano uniti al possesso del feudo, e vi erano perciò tanti distretti di g. quanti i feudatari, coordinati gerarchicamente come questi ultimi. La g. ordinaria feudale si distingueva in alta e bassa, secondo che avesse, o no, la potestas gladii. L’imperatore era il giudice supremo in tutti i luoghi dove la sua autorità era riconosciuta. Presiedeva personalmente, o per mezzo del conte di palazzo, il tribunale palatino, che funzionava nel luogo della sua abituale residenza. Nei luoghi dai quali l’imperatore era assente esercitavano la sua g. i vicari imperiali. Nell’età comunale la g. imperiale si ridusse in realtà in confini sempre più angusti, mentre i nuovi organismi politici, allargando o consolidando progressivamente la propria autonomia, esercitavano una g. sempre più ampia. Gli Stati che si andavano a mano a mano formando, esercitarono l’attività giurisdizionale mediante organi di diverso nome, mentre il potere assoluto dei principi riusciva a sua volta a spegnere le autonomie comunali. Ne sofferse anche la g. della Chiesa, alla quale è dovuto il più complesso sviluppo di istituti giurisdizionali durante il Medioevo. Il quadro si semplificò dopo la Rivoluzione francese.
In applicazione del principio della divisione dei poteri, la g. costituisce una delle tre funzioni fondamentali dello Stato, insieme a quella legislativa e amministrativa. In senso specifico, è il potere di un determinato ordine di giudici (ordinari e speciali, civili, penali o amministrativi) di decidere la domanda giudiziale proposta. La g. trova fondamento nella Carta costituzionale, in cui si stabilisce (art. 24) che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e si attribuisce l’esercizio della g. alla magistratura ordinaria, civile e penale (art. 101 e seg.). L’ordinamento italiano è ispirato al principio dell’unicità della g. secondo il quale la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (l’art. 102 Cost.) e, nello stesso tempo, introduce alcune deroghe, prevedendo che la funzione giurisdizionale possa essere esercitata, in ipotesi tassative, da magistrati speciali, ponendo al contempo il divieto di istituirne di nuovi.
I magistrati speciali sono: il Consiglio di Stato e altri organi di giustizia amministrativa per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi; la Corte dei conti, nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge; i tribunali militari, che, in tempo di guerra, hanno la g. nei casi stabiliti dalla legge e, in tempo di pace, per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate; il Tribunale superiore delle acque pubbliche, nelle controversie relative al regime delle acque pubbliche; le commissioni tributarie, in materia tributaria.
La g. costituisce un presupposto processuale, la cui mancanza impedisce al giudice di decidere il merito della lite, dovendo egli chiudere il processo in rito per la presenza del vizio di carenza del potere giurisdizionale. In particolare, si ha difetto relativo di g. in materia civile quando essa spetta a un giudice speciale, quale il TAR, la Corte dei conti. Si ha invece difetto di g. assoluto quando la materia oggetto della lite appartiene alle funzioni esclusive della pubblica amministrazione, giacché in questo caso nessun giudice ha il potere di giudicare la controversia. Infine, la g. del giudice ordinario e di tutti i giudici italiani viene a mancare quando il convenuto non è residente o domiciliato in Italia, salve alcune eccezioni (l. 218/1995). Il difetto di g. è rilevabile su istanza di parte o d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, quando si pone nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali (art. 37 c.p.c.). Quando la g. appartiene ai giudici stranieri: se il convenuto è contumace, il difetto di g. è rilevabile d’ufficio; mentre se il convenuto compare deve eccepire il difetto di g. nel primo atto difensivo. Le questioni di g. possono essere decise dalla Corte di Cassazione anche in via preventiva, attraverso il regolamento di g., di cui all’art. 41 c.p.c.
La Costituzione italiana stabilisce un sistema di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi basato su due tipi di g., una g. ordinaria e una g. amministrativa (art. 113, 1° co., Cost.).
La ragione di tale ripartizione deriva da un’esigenza avvertita negli ordinamenti di civil law nell’ambito dei quali la pubblica amministrazione, quando agisce in veste autoritativa, si pone in una posizione differente rispetto a quella degli altri soggetti dell’ordinamento, per cui anche la tutela g. deve essere attribuita a un giudice diverso da quello ordinario. Pertanto, tali sistemi hanno adottato il modello dualistico di g. sopra delineato. Diversa è la situazione negli ordinamenti di common law, che, infatti, hanno adottato un modello monistico di g., nell’ambito dei quali la pubblica amministrazione non assume una configurazione particolare rispetto agli altri soggetti e, di conseguenza, la tutela giurisdizionale è affidata a un giudice unico.
I criteri di riparto di giurisdizione. - Il criterio di riparto tra la g. ordinaria e la g. amministrativa stabilito dalla Carta costituzionale è basato principalmente sulla natura delle situazioni giuridiche soggettive vantate dai privati nei confronti della pubblica amministrazione. Al giudice ordinario spetta la cognizione delle controversie che hanno a oggetto i diritti soggettivi, mentre al giudice amministrativo spetta la cognizione delle controversie riguardanti gli interessi legittimi. Inoltre, in particolari materie, espressamente indicate dalla legge, viene affidata alla g. amministrativa anche la tutela dei diritti soggettivi (art. 103, 1° co., Cost.).
In generale, quindi, al giudice ordinario sono attribuite le controversie sui diritti soggettivi, escluse quelle relative alle materie espressamente devolute alla g. esclusiva del giudice amministrativo; in via eccezionale e in relazione a un numero limitato di materie assoggettate a procedimenti speciali (per es., espulsione di stranieri, trattamenti sanitari obbligatori), il giudice ordinario può incidere sul contenuto dell’atto amministrativo sospendendolo, modificandolo o annullandolo. Inoltre, in seguito alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, è stata devoluta al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, la cognizione delle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, mentre al giudice amministrativo è rimasta la cognizione delle controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti e la g. esclusiva sui rapporti di lavoro non privatizzato che rimane «in regime di diritto pubblico». Parallelamente, in materia di contrattualistica pubblica, appartengono alla g. ordinaria le controversie attinenti propriamente alla fase esecutiva del rapporto negoziale mentre sono devolute alla cognizione del giudice amministrativo quelle connesse alla legittimità della procedura ad evidenza pubblica. In questo schema, differentemente da altri ordinamenti europei, il giudice amministrativo potrà conoscere degli effetti del contratto soltanto per stabilirne la sorte nel caso in cui sia stato annullato il provvedimento di aggiudicazione (su tali profili si veda la voce Contratti della pubblica amministrazione).
Inoltre, alla g. amministrativa è attribuita, in via esclusiva, la cognizione delle controversie su particolari materie indicate dalla legge, indipendentemente dalla situazione giuridica dedotta in giudizio (g. esclusiva). La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 204 del 2004, ha stabilito che il legislatore ben può ampliare l’area della g. esclusiva, purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la g. generale di legittimità.
Con le riforme della fine degli anni ‘90, è stato anche conferito al giudice amministrativo, nell’esercizio della propria g. (sia esclusiva sia di legittimità), il potere di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e degli altri diritti patrimoniali consequenziali, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.
Recentemente, infine, è stato avvalorato il nesso tra la g. amministrativa e l’esercizio del potere pubblico in forma autoritativa. Infatti, l’art. 7 del codice del processo amministrativo stabilisce che sono devolute alla g. amministrativa le controversie concernenti l’esercizio il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio del potere.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, infatti, esulano dalla g. amministrativa e appartengono alla cognizione del giudice ordinario quelle controversie in cui l’amministrazione abbia agito non attraverso strumenti autoritativi ma secondo moduli di diritto comune.
Nel caso in cui sorgano conflitti tra la g. ordinaria e la g. amministrativa, la soluzione deve essere demandata alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, eventualmente nelle forme del regolamento preventivo di g., ovvero attraverso il particolare mezzo di impugnazione del ricorso per cassazione.
Gli organi. - Sono organi della giustizia amministrativa, in primo grado, i tribunali amministrativi regionali (TAR) e, in secondo grado, il Consiglio di Stato (art. 100, 103, 1° co., e 125, 2° co., Cost.); nei confronti delle pronunce del TAR della regione Sicilia, funge da giudice in secondo grado il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana.
I tipi di g. amministrativa. - La g. amministrativa si articola nelle forme della g. di legittimità, di merito ed esclusiva.
La g. di legittimità ha carattere generale e conferisce al giudice il potere di verificare se l’atto amministrativo sia lesivo di interessi legittimi per violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere (l. n. 241/1990, artt. 3 e 21 octies). La l. n. 205/2000 ha introdotto alcune importanti novità, modificando l’impianto originario della g. di legittimità delineato dalla l. n. 1034/1971 (art. 2, 3 e 4), ampliando notevolmente i poteri del giudice con riferimento sia alla disponibilità dei mezzi di prova (l. n. 1034/1971, art. 21) che alla capacità decisionale. In merito a quest’ultimo profilo, il giudice, oltre al potere di annullamento dell’atto lesivo di interessi legittimi, ha il potere di valutazione sulla risarcibilità del danno provocato dall’atto illegittimo della pubblica amministrazione e può, inoltre, condannare l’amministrazione a un obbligo di reintegrazione in forma specifica. Nuovi e rilevanti poteri sono stati conferiti anche dall’art. 34 del codice del processo che prevede il potere del giudice di condannare l’amministrazione all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.
La g. di merito, invece, permette al giudice amministrativo di effettuare una valutazione sull’opportunità o la convenienza dell’atto amministrativo in relazione all’interesse pubblico che deve essere perseguito, attribuendogli ampi poteri di cognizione, di istruzione e di decisione, fino all’eventuale annullamento, riforma o sostituzione dell’atto. Tale forma di g. ha, però, carattere eccezionale, in quanto può essere esercitata solo nei casi tassativamente previsti dalla legge (art. 134 c.p.a.): tradizionalmente ricondotta alle controversie aventi ad oggetto l’attuazione, da parte dell’amministrazione, delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato, può essere esercitata anche con riferimento agli atti e alle operazioni in ambito elettorale, alle sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla g. amministrativa, comprese quelle delle Autorità Amministrative Indipendenti e ad altre ipotesi di modesta applicazione pratica. La g. esclusiva, introdotta nel 1923, consente al giudice amministrativo di conoscere delle controversie, in determinate materie espressamente indicate dalla legge, in cui siano coinvolte posizioni giuridiche aventi la connotazione sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi. Le ipotesi che ricadono nell’ambito della g. esclusiva sono espressamente indicate dall’art. 133 del codice del processo amministrativo. Come si è detto poco sopra, la Corte costituzionale ha ridimensionato e circoscritto il potere del legislatore di individuare le controversie devolute alla g. esclusiva, ribadendone il carattere eccezionale rispetto a quella di legittimità. In particolare, la Corte costituzionale ha precisato che l’art. 103 Cost. stabilisce espressamente che il legislatore può attribuire la g. esclusiva al giudice amministrativo solo in «particolari materie» e solo quando la pubblica amministrazione «agisce come autorità».
Il diritto internazionale impone a tutti gli Stati di astenersi dall’esercizio della propria giurisdizione nei confronti degli altri Stati. Tale obbligo, di natura consuetudinaria e connaturato alla struttura paritaria della comunità internazionale, ha subito, nel suo contenuto, notevoli evoluzioni.
Fino alla metà del 19° sec. nel diritto internazionale era generalmente riconosciuto che uno Stato estero non potesse essere assoggettato ad atti di autorità da parte di un altro Stato in ragione dell’assenza di qualsiasi gerarchia tra Stati sovrani (parem in parem non habet iudicium). Questa regola, della cosiddetta immunità assoluta dalla g. è stata revisionata dopo la Prima guerra mondiale, parallelamente all’ampliamento dell’attività economica degli Stati, impegnati sempre più di frequente in transazioni di carattere privatistico che nulla avevano in comune con l’esercizio del potere statale a tutela del quale l’immunità assoluta era stata concepita.
Sono state la giurisprudenza italiana e quella belga a dare inizio a un’inversione di tendenza che ha portato all’elaborazione della teoria dell’immunità ristretta o relativa. Secondo questa teoria, oggi prevalente, l’esenzione degli Stati stranieri dalla g. è limitata ai soli atti compiuti dagli organi addetti alle relazioni interne o esterne nell’esercizio delle loro competenze o funzioni pubbliche (atti iure imperii). L’immunità, che può essere sempre oggetto di rinuncia da parte dello Stato straniero, non si estende invece agli atti iure gestionis, cioè compiuti dagli Stati in condizioni di parità con i privati (come l’acquisto di un immobile o l’emissione di prestiti obbligazionari).
Alla stessa distinzione fa capo il regime dell’immunità da azioni esecutive dei beni di uno Stato straniero, nei cui confronti l’esecuzione forzata deve ritenersi ammissibile solo se esperita su beni non destinati a una pubblica funzione. Data la difficile applicabilità ai singoli casi concreti della distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis, si rimette alla discrezione del giudice interno valutare se, in caso di dubbio, debba concludersi a favore dell’immunità anziché a favore della sottoposizione dello Stato straniero alla giurisdizione. Tuttavia, la tendenza della giurisprudenza interna è incline a individuare la regola nell’immunità e l’eccezione nell’esercizio della giurisdizione. A questa prassi si adeguano anche le convenzioni internazionali adottate in materia, allo scopo di creare una disciplina comune per gli Stati contraenti.
A parte alcune convenzioni aventi per oggetto settori particolari (come l’immunità delle navi di Stato e delle navi da guerra, o degli aeromobili adibiti a servizi di Stato), il primo strumento internazionale di carattere generale adottato nella materia è la Convenzione del Consiglio d’Europa sull’immunità degli Stati del 1972, entrata in vigore nel 1976. Ispirandosi alla concezione restrittiva dell’immunità, tale convenzione stabilisce la regola dell’immunità, indicando in via di eccezione i casi in cui una parte non può invocarla. Ciò si verifica quando la parte in questione accetta, espressamente o con comportamenti concludenti, la g. del tribunale di un’altra parte o in caso di procedimenti relativi a situazioni che si collegano all’attività iure gestionis dello Stato, come controversie in materia di lavoro, contratti commerciali, partecipazione a società o attività industriali, proprietà e altri diritti reali, proprietà intellettuale, riparazione di un danno morale o materiale.
Al livello universale, la Convenzione dell’ONU sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, adottata nel 2004 e non ancora in vigore, segue il modello della Convenzione europea, afferma il principio dell’immunità, con una serie di eccezioni analoghe a quelle sopra indicate.
Innovativa è la prassi giurisprudenziale manifestatasi recentemente in diversi paesi – e che in Italia ha avuto origine dalla sentenza della Corte di cassazione n. 5004 del 2004 nel caso Ferrini – tendente ad affermare, in deroga al principio dell’esenzione, la competenza dei tribunali interni a pronunciarsi su reclami presentati contro uno Stato estero dalle vittime di crimini internazionali.
Il Codex iuris canonici non ne fornisce una definizione. Tenendo però conto dei suoi elementi essenziali, essa può essere definita come la pubblica potestà, conferita da Cristo alla Chiesa, di reggere e organizzare pastoralmente il popolo di Dio, per il conseguimento dei fini che gli sono propri e del fine supremo che è la vita eterna. La potestà di governo (potestas regiminis) è detta anche potestà di g. (potestas iurisdictionis).
La potestà di governo sussiste nella Chiesa per istituzione divina. In quanto è indipendente nella sua esistenza e nella sua attività da qualsiasi autorità umana (can. 747, par. 1, e 1254, par. 1), la Chiesa possiede non solo il potere di ordine, ossia il potere di compiere e amministrare le cose sacre, ma anche quello di g. o di governo, ossia il potere di reggere e guidare socialmente i fedeli, nella sua triplice funzione legislativa, giudiziaria e amministrativa o esecutiva, cui si unisce anche il potere dottrinale o di magistero.
In diritto canonico si parla anche di g. in un senso più stretto e più affine a quello dato alla locuzione dal diritto laico: in questo senso g. è il potere di esaminare una controversia e di definirla con l’emanazione di una sentenza. Vi sono materie che la Chiesa rivendica alla propria g. esclusiva (per es., dichiarazioni di nullità del matrimonio), altre sulle quali la Chiesa ammette la concorrenza della propria g. con quella dello Stato (per es., testamento con la fondazione di un legato pio), altre infine circa le quali la Chiesa riconosce la g. statale. Invece è vivamente controverso, sulla base degli art. 23 del Trattato dei Patti Lateranensi e 8 dell’Accordo di revisione del Concordato, se lo Stato riconosca la g. ecclesiastica.
Processo (ragionevolmente) breve di Antonio Carratta