Nell’esperienza giuridica romana, il processo di età imperiale, che si affiancò inizialmente a quello repubblicano, sancito nell’ordo della legge Giulia del 17 a.C., e finì quindi per soppiantarlo del tutto, sia nella prassi metropolitana sia in quella delle province. Invalso, fin dall’epoca di Augusto, in campo tanto civile quanto criminale, si connotò per il carattere di maggior ufficialità e diede luogo a notevoli differenze rispetto al processo formulare (➔ formula), con il quale pure coesistette a lungo. La c., infatti, fu instaurata anche senza la collaborazione del convenuto, in contumacia del quale il processo poteva ora svolgersi. Venne inoltre a mancare la tradizionale distinzione in due fasi, in iure e apud iudicem, dal momento che il rito si celebrava, fino alla sua naturale conclusione della sentenza emessa dal funzionario, sotto la direzione di quest’ultimo, senza che la decisione fosse mai affidata (tranne in casi assai rari) a giudici diversi o ad arbitri.
Oltre alla progressiva enucleazione di regole in materia di valutazione delle prove, la c. offrì al giudice la possibilità di pronunciare verdetti eseguibili in forma specifica – non aventi necessariamente a contenuto, dunque, il pagamento di un equivalente pecuniario – giacché a decidere la controversia non era più un privato, pur incaricato dal pretore, ma un soggetto titolare di imperium, delegato direttamente dall’imperatore o da un funzionario di grado superiore. A questi poteva appellarsi la parte soccombente, in caso di sentenza ritenuta ingiusta; facoltà, questa, che non era invece data rispetto alle decisioni adottate dal iudex privatus o, in ambito criminale, dalla giuria di una quaestio perpetua.