Nome generico di sporgenze o escrescenze di varia natura e funzione; in particolare, nell’apparato scheletrico, nome di speciali sporgenze o apofisi cartilaginee o ossee, o anche di altre strutture di diversa origine e natura (p. ciliare, p. coracoideo, p. olecranico ecc.)
Complesso delle attività e delle forme mediante le quali appositi organi prestabiliti dalla legge esercitano, con l’osservanza di determinate modalità, il potere di giurisdizione, cioè attuano nel caso concreto il comando della legge.
Il p. civile, in particolare, è disciplinato innanzitutto dal codice di procedura civile, ma anche da numerose leggi speciali, ha la funzione di tutelare i diritti soggettivi assicurando in tal modo una delle principali garanzie costituzionali del nostro ordinamento, ovvero il diritto di azione, di cui all’art. 24 Cost.
Il p. civile deve tuttavia svolgersi nel rispetto di altre norme costituzionali. Innanzitutto, l’art. 111 Cost. esige un «giusto processo regolato dalla legge» e che ogni p. si svolga in un tempo ragionevole nel contraddittorio tra le parti, nonché in condizioni di parità davanti a un giudice terzo e imparziale. L’art. 102 prevede invece che la funzione giurisdizionale, e quindi anche quella civile, sia esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, i quali, ai sensi dell’art. 101 sono soggetti soltanto alla legge.
Per raggiungere il proprio obiettivo di tutelare i diritti soggettivi, il p. civile si articola in vari tipi di attività. Innanzitutto vi è il p. di cognizione (Accertamento. Diritto processuale civile), disciplinato dal libro II del codice di procedura civile, che può essere di mero accertamento, se l’attore si limita a chiedere l’accertamento dell’esistenza e del modo di essere del diritto soggettivo, di condanna, se l’attore oltre all’accertamento chiede al giudice la condanna del convenuto alla reintegrazione del diritto soggettivo affermato come leso o violato, o, infine, costitutivo se con la propria domanda l’attore promuove un’azione costitutiva, cioè rivolta a ottenere dal giudice un provvedimento di costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico, ai sensi dell’art. 2908 c.c. In secondo luogo, vi è il p. civile di esecuzione forzata, disciplinato dal libro III del codice di procedura civile, il quale è finalizzato a far ottenere al titolare del diritto soggettivo la concreta realizzazione del proprio diritto risultante dal titolo esecutivo. In terzo luogo, vi è il processo cautelare che serve per ottenere un provvedimento idoneo a impedire che nelle more del p. di cognizione o di esecuzione il diritto oggetto dell’azione di merito subisca un pregiudizio tale da rendere inutile o infruttuoso il successivo provvedimento di merito. Vi è, infine, un quarto tipo di attività, che prende il nome di volontaria giurisdizione, che si svolge di fronte al giudice civile e che perciò può farsi rientrare nella nozione di p. civile, pur discostandosi sensibilmente dalle attività sopra indicate, in quanto il suo oggetto non è la tutela dei diritti soggettivi ma la cura o la gestione di interessi privati. In quest’ultimo caso il p. civile segue principalmente la disciplina delle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio, di cui agli art. 737 ss. c.p.c.
Alle diverse funzioni svolte dai vari tipi di p. civile corrispondono diverse caratteristiche strutturali. Tipica del p. di cognizione è l’idoneità del provvedimento conclusivo ad acquistare gli effetti di giudicato, ai sensi degli art. 324 c.p.c. e 2909 c.c. Caratteristica distintiva del p. di esecuzione forzata è il possibile impiego della forza al fine di attuare praticamente il diritto soggettivo consacrato nel titolo esecutivo. Il p. cautelare, data la sua funzione strumentale al p. di cognizione o a quello di esecuzione, non ha una propria autonomia strutturale, sicché di volta in volta condividerà le caratteristiche strutturali di quelle azioni. Infine, peculiare della giurisdizione volontaria è il concludersi con provvedimenti inidonei al giudicato, che sono anzi revocabili e modificabili in ogni tempo, ai sensi dell’art. 742 c.p.c.
Concatenazione di atti finalizzata ad una decisione. Sotto il profilo strutturale il p. penale inizia con l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e termina con l’irrevocabilità della sentenza. Tecnicamente, la fase delle indagini preliminari non appartiene al p. in senso stretto, ma concorre, insieme a questo, a configurare il cosiddetto procedimento penale. L’azione penale consiste nella richiesta al giudice di decidere sull’imputazione. Nel procedimento ordinario il pubblico ministero esercita l’azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell’imputato. Nei procedimenti cosiddetti speciali (Giudizio. Diritto processuale penale) l’azione penale è esercitata, invece, quando il pubblico mistero formula l’imputazione nell’atto che instaura il singolo procedimento. L’imputazione consiste nell’addebitare a un determinato soggetto un fatto di reato.
Con la richiesta di rinvio a giudizio si passa dalla fase delle indagini preliminari a quella dell’udienza preliminare. Quest’ultima ha la funzione di assicurare che il giudice per l’udienza preliminare (Giudice dell'udienza preliminare) controlli la legittimità e il merito della richiesta stessa e può, inoltre, costituire la sede di definizione anticipata del procedimento. È, infatti, nel corso di tale udienza che il giudice può accogliere la richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento. Al di fuori di questi casi, al termine dell’udienza, il giudice decide se emettere sentenza di non luogo a procedere o disporre il decreto che rinvia a giudizio. Nel primo caso il processo termina, nel secondo continua nella fase dibattimentale. La fase dibattimentale è la sede naturale della formazione della prova e della sua valutazione da parte del giudice terzo e imparziale. Essa si articola essenzialmente in tre sottofasi: a) fase pre-dibattimentale, in cui il presidente del tribunale può svolgere alcuni atti urgenti e vengono effettuate le citazioni dei testimoni, periti e consulenti tecnici dopo il deposito della lista dei testi, dei consulenti e degli argomenti su cui verterà l’esame; b) fase del giudizio, comprensiva delle questioni preliminari, dell’istruttoria dibattimentale e della discussione finale; c) fase della emanazione della sentenza, in cui il giudice decide, delibera e deposita la sentenza e la relativa motivazione. Il dibattimento, nucleo fondamentale del p., è informato da una serie di principi: quello della pubblicità, che permette a ogni cittadino di conoscere quanto si svolge in questa fase; quello della correlazione tra accusa e sentenza, in base al quale il fatto storico può essere modificato solo entro limiti rigorosi; quello del contraddittorio, che comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova; quello della concentrazione, che impone che non vi siano intervalli di tempo tra l’assunzione delle prove in udienza, la discussione e la deliberazione della sentenza; quello dell’oralità, che caratterizza le prove dichiarative e, non da ultimo, quello dell’immediatezza, in base al quale deve sussistere identità fisica tra il giudice che decide e quello davanti al quale si svolge il dibattimento. Al termine di questa fase il giudice può emettere sentenza di condanna o di proscioglimento. Se tale sentenza viene impugnata, il giudizio prosegue in grado di appello ed eventualmente in cassazione; in caso contrario il processo giunge al termine. Una volta divenuta irrevocabile, la sentenza è esecutiva e si forma il cosiddetto giudicato, il cui effetto comporta che l’imputato, prosciolto o condannato, non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto storico.
P. che si svolge innanzi agli organi di giurisdizione amministrativa «per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi» (art. 103 Cost.).
Tradizionalmente, è stato configurato come un p. di tipo impugnatorio che ha per oggetto un provvedimento amministrativo.
Attualmente, la dottrina e la giurisprudenza sono inclini a ritenere che l’oggetto precipuo del p. sia divenuto il rapporto giuridico controverso. In altri termini, il p. amministrativo si sarebbe trasformato da un “giudizio sull’atto”, teso a verificarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati, a un “giudizio sul rapporto”, volto a valutare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
Il p. amministrativo si svolge dinanzi ai Tribunali amministrativi regionali (TAR), in primo grado, e dinanzi alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in grado di appello (per il TAR della Sicilia, il secondo grado di giudizio si svolge davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana). La magistratura amministrativa ha un autonomo organismo di autogoverno, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.
Il p. amministrativo è un p. di parti, nel senso che sono queste, e non il giudice, ad avere il potere di darvi l’impulso iniziale, di farlo proseguire, di allegare le prove e di farlo terminare, anche, eventualmente, senza che la controversia sia decisa. Infatti, ove non siano coinvolti interessi generali e, come tali, indisponibili, le parti hanno la piena disponibilità del processo.
Le parti necessarie del p. amministrativo sono: il ricorrente (il soggetto che si ritiene leso da un atto amministrativo illegittimo), la parte resistente (normalmente, l’amministrazione che ha emanato l’atto o posto in essere il comportamento lesivo) e i controinteressati (soggetti che hanno un interesse, contrapposto a quello del ricorrente, alla sopravvivenza del provvedimento impugnato).
Quanto alle azioni proponibili nel p. amministrativo, il codice del p. (d.lgs. 104/2010) prevede: a) l’azione di annullamento (art. 29); b) l’azione di condanna (art. 30); c) quella avverso il silenzio (art. 31); d) quella diretta all’accertamento delle nullità (art. 31).
Il p. è a istanza di parte e viene quindi introdotto con un ricorso che deve indicare, a pena di inammissibilità, i motivi su cui si fonda richiamando espressamente i vizi dell’atto impugnato. Il ricorso è notificato al resistente e ai controinteressati entro 60 giorni dalla comunicazione, pubblicazione o piena conoscenza dell’atto impugnato. Il ricorrente si costituisce in giudizio con il deposito del ricorso presso la segreteria del TAR. Le parti intimate possono costituirsi in giudizio nel termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso, eventualmente presentando memorie, istanze, documenti e indicando i mezzi di prova di cui intendono valersi. È possibile sia l’intervento in giudizio che il ricorso incidentale. Presentato il ricorso, sulla base di apposita istanza, viene fissata l’udienza.
Il p. amministrativo prevede anche una fase cautelare diretta ad evitare che i tempi necessari ad ottenere una decisione del giudice comportino un ulteriore pregiudizio per il cittadino leso da un atto amministrativo illegittimo. Potrebbe, infatti, accadere che, nelle more del procedimento giurisdizionale, il provvedimento illegittimo sia portato comunque ad esecuzione, arrecando un grave pregiudizio al ricorrente. È stato così previsto che, in presenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, si possa chiedere al giudice una pronuncia c.d. sospensiva dell’efficacia dell’atto. Inizialmente era prevista una sola misura cautelare e tipica, vale a dire la sospensione del provvedimento impugnato. L’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, seguita dagli interventi codificatori del legislatore (si vedano la l. n. 205/2000 e il d.lgs. n. 104/2010, c.d. codice del p. amministrativo), si è mossa nella direzione di ampliare la possibilità di tutela cautelare, per renderla effettiva. Il codice, conservando l’impostazione sul contenuto atipico delle misure cautelari introdotta dalla l. n. 205/2000, dedica alle misure cautelari diverse disposizioni sia nel Titolo II del Libro II, artt. 55-62 (ad esse espressamente dedicato), sia in ulteriori disposizioni sparse in tutto il disegno codicistico. L’art. 55, comma 1, stabilisce che il ricorrente, il quale alleghi un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso, può chiedere l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso.
Per quanto concerne la fase istruttoria, in cui si accerta la situazione oggetto della controversia, il codice del p. riconosce al giudice un’ampia possibilità di disporre dei mezzi di prova, quasi parificando la situazione con il p. civile.
Il p. amministrativo è ispirato al principio del contraddittorio: al riguardo, l’art. 27 c.p.a. prevede che il contraddittorio è integralmente costituito quando l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione resistente e,ove presenti, ai controinteressati.
Una volta conclusa l’istruttoria e svolta l’udienza pubblica di discussione, la causa è assegnata in decisione. Il collegio si riunisce e decide in camera di consiglio. La decisione può essere di rito o interlocutoria, nel qual caso viene assunta con ordinanza; oppure può concludere il p. definendo il merito, e viene assunta con sentenza. L’eventuale annullamento dell’atto amministrativo opera con effetto ex tunc.
Accanto al rito ordinario, sono previste forme accelerate di risoluzione delle controversie, tra cui un rito cosiddetto abbreviato per le controversie aventi a oggetto provvedimenti di particolare rilievo. Tale rito è ora disciplinato dall’art. 119 c.p.a. e prevede, salvo che per la proposizione del ricorso, la dimidiazione dei termini processuali. È inoltre, prevista una decisione in forma semplificata, in cui la semplificazione attiene a un elemento formale della decisione, ossia la motivazione.
Tra i riti speciali si segnala quello in materia di accesso ai documenti amministrativi (art. 116 c.p.a.) e quello in materia di silenzio-rifiuto (art. 117 c.p.a.).
Tra i rimedi giurisdizionali ordinari contro la sentenza di primo grado vi è l’appello che può essere proposto – entro 60 giorni dalla notifica della sentenza – solo nei riguardi delle sentenze di primo grado non passate in giudicato. Nel giudizio di appello il giudice si pronuncia sulla medesima controversia decisa dal giudice di primo grado (cd. effetto devolutivo dell’appello: anche sul punto si rinvia alla voce Appello. Diritto amministrativo).
Tra i rimedi straordinari vi sono la revocazione (art. 106 c.p.a.) e l’opposizione di terzo (art. 108 c.p.a.).
È ammesso, inoltre, il ricorso in Corte di cassazione soltanto per motivi di giurisdizione (art. 108 c.p.a.).
Il giudicato amministrativo si forma quando non è più esperibile alcun rimedio ordinario. Le amministrazioni soccombenti hanno l’obbligo di adeguarvisi ma non è infrequente che tardino nell’adottare gli atti di propria competenza e non diano seguito alla sentenza. È stato, così, previsto il rimedio del giudizio di ottemperanza a conclusione del quale viene disposto uno specifico obbligo di dare esecuzione al giudicato, anche con la fissazione di un termine e l’eventuale nomina di un commissario ad acta. Questo, in caso di ulteriore inerzia dell’amministrazione, operando quale organo ausiliare del giudice, adotta quindi gli atti amministrativi necessari a eseguire il giudicato.
È il procedimento giurisdizionale che si svolge dinanzi alle commissioni tributarie e che ha per oggetto la definizione delle controversie tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente attinenti alla materia fiscale. La disciplina del contenzioso tributario è il risultato di una lunga evoluzione normativa. In particolare, con la riforma del sistema impositivo degli anni 1970 è stata consacrata la natura giurisdizionale delle commissioni tributarie (originariamente organi amministrativi), attraverso il riconoscimento di garanzie di autonomia e di indipendenza ai componenti delle stesse, ed è stata formulata una disciplina unitaria e organica del p. tributario (d.p.r. 636/1972). Sulla materia sono intervenuti successivamente i d. legisl. 545 e 546 del 1992, recanti rispettivamente una regolamentazione analitica delle commissioni tributarie e del p. tributario. In questa sede, si è razionalizzata la disciplina del p. e si sono conferite ulteriori garanzie di imparzialità e di terzietà alle commissioni tributarie. Soltanto nel 2002 (l. 448/2001) un nuovo intervento normativo ha reso la giurisdizione tributaria delle commissioni – prima circoscritta ad alcune materie, tassativamente indicate nell’art. 2 del d. legisl. 546/1992 – esclusiva per tutti i tributi. La giurisdizione delle commissioni tributarie si estende, oggi, a tutte le controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio. In tale giurisdizione si ricomprendono, inoltre, alcune controversie catastali promosse dai singoli possessori. Rimangono, invece, attribuite al giudice ordinario le liti che, pur essendo oggettivamente tributarie, vedono opporsi due parti private, nonché quelle promosse dai contribuenti nei confronti dell’amministrazione finanziaria, ma aventi a oggetto la domanda di risarcimento dei danni per comportamenti illeciti commessi dell’amministrazione medesima. Sono escluse dalla giurisdizione tributaria le liti riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata in base a ruolo, la cui giurisdizione spetta al giudice ordinario. Lo Statuto del contribuente prevede, infine, ambiti di cognizione del giudice amministrativo, disponendo che si possa ricorrere a tale organo quando ne sussistano i presupposti (art. 7, co. 4, l. 212/2002). Qualora sorga una questione relativa alla giurisdizione, è ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione davanti alla Corte di cassazione, secondo la disciplina prevista dal codice di procedura civile. Entro questi limiti il contenzioso tributario si articola, quindi, in due gradi di giudizio di merito, dinanzi alle commissioni tributarie provinciali (in primo grado) e alle commissioni tributarie regionali (in secondo grado) e in un grado di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione. Per le controversie di minore importanza il giudizio si svolge in primo grado davanti a un giudice singolo; negli altri casi la composizione della commissione tributaria è collegiale.
In dottrina si riscontrano divergenze in merito alla natura del contenzioso tributario: alcuni autori lo concepiscono come p. di accertamento del rapporto obbligatorio d’imposta, altri come p. di impugnazione-annullamento degli atti impositivi emanati dall’amministrazione finanziaria. Seguendo la prima impostazione, il contenzioso tributario è definito dalla giurisprudenza di legittimità come p. di impugnazione-merito. In particolare, il profilo formale dell’impugnazione attiene all’introduzione del giudizio e alla previsione di termini di decadenza. Il profilo sostanziale del merito concerne l’oggetto e le situazioni giuridiche soggettive dedotte nel p., nonché il tipo di decisione emessa dal giudice, che riguarda il merito e può sostituire l’atto impugnato. Il giudice tributario, infatti, investito della lite attraverso l’impugnazione di un atto impositivo conosce il merito della controversia e stabilisce la disciplina legale applicabile alla fattispecie mediante la propria decisione. Per quanto non è espressamente disciplinato dal d. legisl. 546/1992 si applicano le norme del codice di procedura civile, a condizione che queste risultino compatibili con i caratteri del p. tributario.
Allo stato della normativa attuale, sono impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie solo gli atti tassativamente indicati nel decreto all’art. 19: l’avviso di accertamento; l’avviso di liquidazione del tributo; il provvedimento che irroga sanzioni; il ruolo e la cartella di pagamento; l’avviso di mora; l’iscrizione di ipoteca sugli immobili, di cui all’art. 77 del d.p.r. 602/1973; il fermo di beni mobili registrati, di cui all’art. 86 del d.p.r. 602/1973; gli atti relativi alle operazioni catastali; il provvedimento, espresso o tacito, che respinge l’istanza di rimborso di tributi, le sanzioni pecuniarie e gli interessi non dovuti; il diniego o la revoca di agevolazioni e il provvedimento di rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari. Tali atti possono essere impugnati autonomamente solo per i vizi che li concernono, e non per vizi che riguardino altri atti. Gli atti esclusi dall’elenco non sono impugnabili.
Nel contenzioso tributario la commissione provinciale (o regionale) competente a conoscere della controversia è determinata dalla sede dell’ufficio finanziario, dell’ente locale, o del concessionario della riscossione che ha emesso l’atto che si impugna. La commissione dichiara la propria eventuale incompetenza con sentenza, nella quale è indicata la commissione davanti alla quale il ricorrente deve riassumere la causa nei termini stabiliti. Qualora la riassunzione non sia fatta nei termini, il p. si estingue e il provvedimento impugnato diventa definitivo.
L’atto di impulso del p. tributario è costituito dal ricorso proposto dal destinatario dell’atto impugnato che, normalmente, coincide con il contribuente direttamente inciso dall’azione dell’amministrazione finanziaria, o con i soggetti coinvolti in qualità di sostituti o responsabili d’imposta. Il ricorso alla commissione tributaria provinciale deve contenere l’indicazione: a) della commissione adita; b) del ricorrente e del suo legale rappresen;tante, della relativa residenza o sede legale o del domicilio eletto, nonché del codice fiscale; c) del soggetto contro cui il ricorso è proposto; d) dell’atto impugnato e dell’oggetto della domanda; e) dei motivi. Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore e deve contenere l’indicazione dell’incarico (salvo i casi previsti dalla legge di atto sottoscritto dalla parte). Tutte le indicazioni, tranne quella relativa al codice fiscale, sono prescritte a pena di inammissibilità del ricorso. Per l’avvio del processo il ricorso deve essere portato a conoscenza della controparte mediante notificazione da effettuarsi in una delle modalità previste, entro 60 giorni dalla notificazione dell’atto contro cui si ricorre. Entro 30 giorni dalla notifica del ricorso alla controparte, il ricorrente deve costituirsi in giudizio, depositando alla segreteria della commissione un fascicolo nel quale sono inseriti il ricorso e i documenti prodotti. Poiché solo il ricorrente è titolare del diritto di azione, la sua mancata costituzione rende il ricorso inammissibile. Il ricorrente (contribuente) è, inoltre, l’unica parte necessaria del contenzioso tributario, in quanto la controparte (l’ufficio del ministero delle Finanze, l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione) che ha emesso l’atto impugnato potrebbe anche non costituirsi in giudizio. L’amministrazione finanziaria, in qualità di parte resistente, si deve costituire in giudizio entro 60 giorni dalla data della notifica del ricorso, depositando il proprio fascicolo con le controdeduzioni e i documenti: tale termine è considerato ordinatorio. Il resistente non è titolare di un autonomo potere d’azione, ma si deve limitare a difendere l’atto impugnato, prendendo posizione sui motivi addotti dal ricorrente e indicando le prove di cui intende valersi.
La disciplina processuale ha affermato il principio dell’obbligatorietà della difesa tecnica per le parti private e per il concessionario della riscossione, con esclusione di alcune controversie di minore rilevanza economica o strutturate secondo regole processuali alternative. Sono abilitati all’assistenza tecnica, per tutti i tipi di controversie, gli iscritti agli albi professionali degli avvocati, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali.
Dopo la costituzione in giudizio delle parti, la segreteria forma il fascicolo del p., sottoponendolo al presidente della commissione provinciale, che lo assegna a una sezione. Il presidente della sezione, scaduti i termini per la costituzione delle parti, esamina preliminarmente il ricorso e ne dichiara con decreto l’inammissibilità nei casi previsti dalla legge (sempre con decreto può provvedere sulla sospensione, sull’interruzione e sull’estinzione del p.); quindi procede alla fissazione dell’udienza di trattazione, dandone comunicazione alle parti almeno 30 giorni liberi prima. Nel p. tributario, essenzialmente scritto e documentale, non sono ammesse prove orali; sono, quindi, espressamente vietati il giuramento e la testimonianza. Il ricorrente e la parte resistente hanno la facoltà di produrre documenti, inserendoli nei rispettivi fascicoli, al momento della costituzione in giudizio, nonché fino a 20 giorni liberi prima della data di trattazione, allegandoli alle memorie difensive o con apposita nota. Qualora i mezzi di prova addotti dalle parti non siano sufficienti a formare il convincimento del giudice sui fatti controversi, la stessa commissione tributaria può esercitare poteri istruttori aventi gli stessi connotati di quelli attribuiti agli uffici impositori. Il giudice tributario può: disporre accessi e ispezioni; chiedere dati, informazioni e chiarimenti; ordinare l’esibizione di documenti; richiedere relazioni tecniche a organi dello Stato; disporre lo svolgimento di una consulenza tecnica. Si tratta, in ogni caso, di un’istruzione integrativa rispetto agli apporti probatori delle parti, giacché nel contenzioso tributario vige il principio dispositivo: il giudice non può porre a fondamento della propria decisione fatti diversi da quelli allegati dalle parti. La trattazione della controversia da parte del collegio avviene normalmente in camera di consiglio, salvo che sia richiesta da una delle parti la pubblica udienza. Nell’udienza in camera di consiglio il relatore espone al collegio i fatti e le questioni della controversia, senza la presenza delle parti; nell’udienza pubblica, dopo la relazione, le parti presenti sono ammesse alla discussione. In entrambi i casi la sentenza è deliberata in camera di consiglio, ma è resa pubblica con il deposito nella segreteria della commissione; non sono ammesse sentenze non definitive o limitate ad alcune domande. Entro 10 giorni dal deposito, la segreteria della commissione deve notificare il dispositivo della sentenza alle parti costituite.
La sentenza, che conclude il p. tributario, può annullare l’atto oggetto di impugnazione, può riaffermare ovvero riformare la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria. Tra gli atti che possono essere emessi dal giudice tributario (sentenza, ordinanza, decreto), la sentenza è l’unico a essere menzionato nel decreto che disciplina il processo tributario. La sentenza, pronunciata in nome del popolo italiano, deve contenere: l’indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei difensori; la concisa esposizione dello svolgimento del p.; le richieste delle parti; la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto; il dispositivo. L’ordinanza è pronunciata, invece, in tutti i casi nei quali non si definisce il giudizio. I decreti regolano lo svolgimento del p. e sono atti, generalmente ordinatori, del presidente (della sezione o della commissione).
Salvo le eccezioni previste nella disciplina dei singoli mezzi (di impugnazione), per tutte le impugnazioni si applicano le regole generali. Il codice di rito dispone che la legittimazione a impugnare spetti esclusivamente a colui che è stato parte nel p. dal quale è originata la sentenza oggetto dell’impugnazione: non è, quindi, ammissibile l’impugnazione da parte di un ufficio diverso da quello che aveva preso parte nel p. nel grado precedente, mentre è proponibile quella da parte del successore a titolo universale e del successore a titolo particolare nel diritto controverso, nonché da parte dei litisconsorti necessari. Per poter validamente impugnare è necessario che sussista l’interesse, inteso come soccombenza (totale o parziale) della parte per contrasto tra la sentenza e le richieste avanzate nel processo. Le sentenze della commissione tributaria provinciale sono impugnabili mediante appello, ricorso per cassazione e revocazione. L’appello alla commissione tributaria regionale deve essere proposto nel termine di 60 giorni dalla notificazione della sentenza o, in caso di mancata notifica, nel termine di 6 mesi, come previsto dal codice di rito. L’intero procedimento d’appello è strutturato in modo analogo a quello di primo grado. La decisione della commissione tributaria regionale potrà essere definitoria del giudizio d’appello per questioni di mero rito (nei casi di inammissibilità dell’appello espressamente previsti dalla legge, di estinzione del giudizio per rinuncia o per mancata presentazione della copia dell’appello), di rimessione della causa al giudice di primo grado o di definizione nel merito. La decisione sul merito potrà essere di accoglimento o di rigetto, totale o parziale, del gravame; in entrambi i casi sarà la sentenza di secondo grado a costituire la disciplina giuridica della fattispecie. Contro le sentenze della Commis;sione regionale è proponibile ricorso per cassazione; si tratta di un giudizio di legittimità relativo alle norme sostanziali e processuali applicate nel corso del processo. Il ricorso per cassazione deve effettuarsi entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza o, in mancanza, nel termine di 6 mesi. Si applicano a questo giudizio le disposizioni del codice di procedura civile. La revocazione è il mezzo straordinario di impugnazione, che presuppone la non impugnabilità in altro modo della decisione; la competenza a decidere è dello stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata.
L’impianto del p. tributario, così come strutturato, appare attualmente non pienamente allineato ai principi generali del giusto p. e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le maggiori censure oggi rivolte al p. tributario attengono alla mancanza di terzietà e imparzialità dei giudici (in quanto giudici onorari) e al favor fisci che caratterizza tutta la disciplina del p. tributario, alterando sensibilmente la parità delle parti.
Nel diritto canonico non vi sono, come nell’ordinamento dello Stato, due p. distinti, civile e penale, ma un solo p. e norme speciali per le cause penali, matrimoniali, amministrative e per quelle riguardanti la beatificazione e la canonizzazione. Tuttavia è fondamentale la distinzione fra cause attinenti al bene pubblico e cause relative al bene privato; nelle prime prevale il principio inquisitorio, nelle altre invece il principio dispositivo. Anche in queste ultime, però, il principio dispositivo trova il suo limite nella necessità di salvaguardare in primo luogo gli interessi della Chiesa e il «fine supremo della salute delle anime». Il p. canonico ha quindi un carattere spiccatamente pubblicistico; altra sua nota peculiare è quella di essere un p. segreto.
In origine il fedele restio a pacificarsi con il fratello era deferito ecclesiae, cioè al vescovo dinanzi all’assemblea dei fedeli. Successivamente, facendosi strada l’esigenza di evitare lo scandalo del p. pubblico, si passò dal principio accusatorio a quello inquisitorio e quindi al sistema della segretezza. Con Innocenzo III tale sistema era già in atto.
La giurisdizione, anticamente esercitata da abati, vescovi, giudici delegati della Santa Sede, senza una chiara ripartizione di funzioni, è esercitata, oltre che dai tribunali diocesani e metropolitani e dai superiori degli istituti di diritto pontificio, dai tribunali della Santa Sede: la Rota romana, la Segnatura apostolica e le diverse congregazioni, fra le quali sono particolarmente importanti quella per la dottrina della fede (ex Sant’Uffizio) e quella per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, nonché, per il foro interno, la Penitenzieria apostolica.
I momenti caratteristici del rapporto processuale canonico sono: la proposizione della domanda per libello, la contestazione della lite, con la quale si concordano i dubbi e si precludono le eccezioni preliminari, la conclusione in causa, che separa la fase istruttoria da quella della discussione. Rispetto alla formazione del giudicato, sono peculiari del diritto canonico il principio della doppia conforme, in base al quale in caso di appello non deserto il giudicato si forma soltanto dopo l’emanazione di due sentenze di uguale dispositivo, nonché il principio del non passaggio in giudicato delle sentenze relative a questioni di stato personale. Fra i rimedi contro la sentenza sono tipici del p. canonico la querela nullitatis e la restitutio in integrum. La querela nullitatis è un gravame contro la sentenza nulla e differisce dall’appello che è un gravame contro la sentenza ritenuta ingiusta. La restitutio in integrum è un rimedio straordinario contro l’evidente ingiustizia del giudicato per i casi nei quali l’appello o la querela di nullità non possano più proporsi: se invocata per motivi di fatto (prove riconosciute false, fatti nuovi decisivi, dolo di una parte in danno dell’altra), è decisa dallo stesso tribunale che l’ha pronunciata, se per motivi di diritto, cioè per violazione di legge, è decisa dal tribunale superiore.
Nell’organizzazione aziendale, il p. decisionale è l’insieme di operazioni orientate alla scelta tra alternative aventi lo scopo di raggiungere un obiettivo. Se il problema e le relative decisioni sono ben strutturate, si può gestire il p. decisionale scientificamente, per mezzo della teoria delle decisioni e della ricerca operativa, mediante definizione del problema, ricerca di alternative di azione, loro valutazione, scelta e implementazione dell’alternativa. Queste fasi interagiscono tra loro, per cui si giunge alla soluzione mediante iterazioni che prevedono definizione del problema (di cui si prende coscienza e si determinano caratteristiche, limiti, rilevanza), modellazione o formulazione (descrizione logico-matematica, determinazione di obiettivi, identificazione di variabili dipendenti e indipendenti, individuazione di legami fra grandezze in gioco, calibrazione del modello su dati reali), soluzione esatta o approssimata del modello, valutazione della soluzione, implementazione e gestione della stessa.
In ingegneria gestionale, un p. è un insieme di persone, materiali, attrezzature, energia e informazioni, organizzato logicamente in attività interconnesse per trasformare input assegnati in output (risultati).
In un sistema di produzione, cioè un insieme di persone, metodi, meccanismi e apparati automatici fra loro correlati e definiti come un tutto unico per raggiungere un obiettivo, un p. si può definire come porzione di sistema che trasforma flussi (risorse fisiche e informative) in ingresso in flussi in uscita (prodotti), mediante altre risorse, persone, macchine, attrezzature, e trasferimenti nello spazio e nel tempo. Il p. produttivo può essere monolinea (nel caso in cui il materiale subisca un’unica sequenza di trasformazioni, come la ghisa o il cemento), convergente (nel caso in cui il prodotto finale risulti dall’assemblaggio di più elementi sottoposti ciascuno a p. precedenti diversi, come per gli elettrodomestici) o divergente (nel caso in cui prodotti differenti si ottengano diversificando i trattamenti subiti da un elemento di partenza, come nella produzione petrolchimica). Si hanno p. intermittenti (in cui varietà di prodotti si ottengono a lotti in successione) o a ciclo continuo (un’unica varietà di prodotto si ottiene per un periodo indeterminato). A differenza della produzione per parti, tipica dell’industria manifatturiera, in cui si ottiene un prodotto mediante fabbricazione e montaggio di componenti discreti, si ha una produzione per p. quando non si possono identificare i costituenti del prodotto. Il p. produttivo può essere orientato a una produzione per magazzino o a una per commessa (sia su progetto sia su modello). Le condizioni ottimali di produzione si individuano mediante una matrice di correlazione tra prodotto e tipologia di p., per cui per es. la produzione di automobili, con alti volumi di produzione, alto grado di standardizzazione e bassa varietà di prodotti finiti, è caratterizzata da un p. ripetitivo mentre in un cantiere navale, in cui si producono esemplari unici su progetto, la produzione è per commessa. Con il p. produttivo è correlata la configurazione dell’impianto (layout), che può essere a postazione fissa, per reparti (layout per p.), a celle di fabbricazione, per flusso di prodotto (linea).
In termodinamica, trasformazione, reversibile o irreversibile, che un sistema subisce nel passare da uno stato iniziale a uno finale.
Nella tecnica industriale, complesso di operazioni per ottenere o preparare una sostanza o per sottoporre qualcosa a un trattamento (per es., p. di estrazione o fabbricazione, p. chimico, siderurgico, elettrolitico, p. di decantazione o solidificazione). Si ha un p. industriale o di laboratorio se applicabile rispettivamente su scala industriale o ristretta (in laboratorio). A volte il p. si indica con il nome dell’inventore o del detentore del brevetto o in base alla modalità di funzionamento (per es., p. continuo o discontinuo, a secco o a umido).
Approfondimenti:
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