tributo Nell’antica Roma, contribuzione obbligatoria dei cittadini allo Stato, pagata in rapporto al censo e prelevata per tribù (donde il nome). Il termine ha poi assunto significato più ampio, per indicare ora un’imposizione pagata dal suddito al signore e dal cittadino allo Stato, ora un’imposizione pagata da principe a principe o da Stato a Stato. Oggi, denominazione generica di qualsiasi prestazione in denaro dovuta dai cittadini allo Stato e agli altri enti pubblici e cioè imposte generali e speciali, erariali e locali, sovrimposte, tasse e contributi obbligatori.
Entrata dello Stato e degli enti pubblici, caratterizzata da elementi peculiari e da una disciplina giuridica autonoma, oggi definita ‘diritto tributario’.
L’attuale nozione di t. è il risultato di una lunga evoluzione storica, connotata dell’avvicendarsi di diverse concezioni in merito alla ripartizione dei carichi pubblici (concezioni economiche e concezioni giuridiche) e influenzata dalle profonde modificazioni dello Stato italiano, dai principi costituzionali, dalle elaborazioni della dottrina, da importanti pronunce della Corte costituzionale. Attualmente la nozione di t. è ricavata in relazione agli art. 23 e 53 Cost., che contengono, rispettivamente, la previsione di una riserva di legge relativa per le prestazioni patrimoniali imposte e il principio di capacità contributiva.
I t. costituiscono delle prestazioni patrimoniali imposte finalizzate al concorso alle spese pubbliche, che si caratterizzano per essere soggetti al principio di capacità contributiva. La qualificazione di un’entrata in termini di t. determina numerose conseguenze, fra le quali: l’assoggettamento della disciplina alla riserva di legge relativa, una giurisdizione esclusiva delle commissioni tributarie, peculiari limiti costituzionali (art. 81 Cost.), una disciplina dell’accertamento e della riscossione. Nella nozione di t. oggi si includono: le imposte, le tasse, i contributi e i monopoli fiscali. In merito alle tasse, vi sono state nel tempo diverse impostazioni che le hanno escluse dalla nozione di t. o che ne hanno messo in discussione la soggezione al principio di capacità contributiva quale criterio di riparto. A tale ultimo proposito la Corte costituzionale ha sempre ritenuto non applicabile alle tasse l’art. 53 Cost., sostenendo che l’assetto quasi commutativo che le caratterizza escluda l’applicazione del criterio di riparto solidaristico.
I t. si distinguono in: statali, regionali e degli enti locali (➔ federalismo). I t. statali sono quelli istituiti e disciplinati con legge dello Stato; rientrano in tale categoria le imposte sul reddito (➔ IRPEF; IRES). I t. regionali sono quelli il cui gettito è tendenzialmente incassato dalle regioni ed è finalizzato a finanziare le spese della regione stessa. Si distinguono in t. regionali propri e t. propri derivati. I t. propri sono istituiti e disciplinati dalla regione; a norma dell’art. 117 Cost., devono rispettare i principi del sistema tributario nazionale. I t. propri derivati sono, invece, istituiti e disciplinati dallo Stato, il quale riserva alla regione (all’interno della disciplina del t. stesso) degli spazi di autonomia, attinenti nella maggior parte delle ipotesi alla misura dell’aliquota o alla determinazione della base imponibile. Fra i t. propri derivati oggi si riconoscono l’IRAP e l’addizionale regionale.
Non essendo gli enti locali dotati di potere legislativo ed essendo l’introduzione dei t. subordinata dalla Costituzione a una riserva di legge (art. 23), i t. degli enti locali sono sempre previsti da una legge dello Stato o della regione che fissa le direttive e gli elementi essenziali della disciplina. Gli enti locali hanno, quindi, facoltà (attraverso regolamenti) di attivare il t. e di disciplinare lo stesso nell’ambito degli spazi di autonomia a loro riconosciuti dalla legge (statale o regionale). Normalmente agli enti locali è riservata la disciplina di alcuni elementi previsti all’interno delle esenzioni e delle agevolazioni o la fissazione della misura delle aliquote. I t. degli enti locali tendono ad assumere a presupposto la richiesta dei servizi resi all’interno del territorio e a coprire con gli importi riscossi i costi dei servizi stessi. Per questo acquisiscono normalmente la struttura di tasse o di tariffe.
Con il d. lgs. n. 74/2000 è stata introdotta una nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Per evitare al giudice penale di procedere all’accertamento dell’imponibile e dell’imposta evasa, la disciplina previgente prevedeva la repressione dei soli reati cosiddetti prodromici, ovvero delle fattispecie criminose propedeutiche a una successiva evasione. Obiettivo della nuova normativa è, invece, la repressione di comportamenti direttamente lesivi di interessi fiscali. Tra le principali figure criminose si afferma il reato di dichiarazione fraudolenta (art. 2) che consiste nella redazione di una dichiarazione non veritiera, sottesa da un impianto contabile o documentale idoneo a intralciare l’attività di accertamento dell’amministrazione. Il reato si consuma quando fatture o altri documenti posti in essere per operazioni inesistenti vengono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono tenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
Dichiarazione fraudolenta mediante artifici. - Commette tale reato di chiunque, con mezzi fraudolenti, al fine di evadere l’IVA o le imposte sui redditi, indichi nella dichiarazione annuale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, quando si verificano alcune condizioni previste dalla norma, quale l’evasione superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 77.468,53 euro (art. 3).
Il delitto di dichiarazione infedele. - (art. 4) è commesso da chiunque, anche se non obbligato alla tenuta della contabilità, al fine di evadere l’IVA e le imposte sui redditi, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, indica elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi. Per la consumazione del reato occorre che si verifichino le condizioni indicate dalla norma.
Omessa dichiarazione. - Reato commesso da chiunque, al fine di evadere l’IVA o le imposte sui redditi, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a tali imposte, quando l’imposta evasa è superiore, rispetto a taluno dei singoli t., a 77.468,53 euro (art. 5).
Il rapporto fra entrate fiscali (correnti e in conto capitale) e prodotto interno lordo (PIL) è generalmente indicato con il termine pressione tributaria o fiscale, che misura la quantità di risorse prodotte dal sistema e assorbite dal settore pubblico attraverso tributi. La pressione fiscale è andata aumentando in tutte le principali economie industrializzate per gran parte della seconda metà del 20° secolo. Per es., a metà degli anni 1960 il rapporto fra entrate fiscali correnti e PIL era pari al 24,7% negli Stati Uniti e al 29,1% nell’area dell’Unione Europea; 50 anni dopo si è giunti a quasi il 30,4% negli Stati Uniti e a oltre il 40% in Europa. Come si vede, la pressione fiscale non solo è più alta in Europa che negli Stati Uniti, ma ha anche mostrato una tendenza assai più forte a crescere nel corso della seconda metà del secolo. Per quanto riguarda l’Italia, nel 1965 il rapporto fra entrate fiscali correnti e PIL era più basso (25,5%) della media europea, mentre nel 2008 esso è risultato più alto (42,8%).
Nell’ordinamento finanziario della Grecia classica si rifletteva la forte avversione di tutti i popoli antichi viventi in regime di libertà per il pagamento di tributi. I Greci pertanto preferivano al t. il sistema della prestazione diretta, il cui modo più regolare era la liturgia, consistente nel fornire direttamente allo Stato ciò di cui esso aveva bisogno (come armare una nave, allestire un coro ecc.). Sotto la pressione di esigenze gravi, anche la forma del t. in denaro si imponeva, ma sempre con difficoltà. Ad Atene, e altrove, si incontravano invece stabilmente alcune forme di t. che avevano piuttosto carattere morale e giuridico che scopo finanziario: i t. imposti ai non cittadini come compenso del godimento di diritti riservati teoricamente ai cittadini, quali il diritto di mercato nell’agorà, di pascolo, di residenza stabile in territorio cittadino. Il t. in denaro, che aveva carattere straordinario, si diceva εἰσϕορά, e poteva essere imposto solo a due condizioni: che servisse per gli scopi di una guerra; che la proposta fosse stata precedentemente autorizzata da una deliberazione generica dell’assemblea sulla sua possibilità. Una riforma organica dell’εἰσϕορά si ebbe in Atene durante l’arcontato di Nausinico (378 a.C.), quando si stabilì l’imposta diretta per tutti i cittadini. Entrata fondamentale dello Stato ateniese al tempo della lega delio-attica) era il t. (ϕόρος) degli alleati. Tale t., ridotto, fu riscosso, dopo la sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso, dagli Spartani.
In età ellenistica era normale che i vari sovrani riscuotessero t. dalle città e dalle popolazioni sottomesse: l’uso si collegava alle tradizioni dei regni orientali (Persia, Egitto ecc.) di cui i regni ellenistici si consideravano continuatori. Deve considerarsi un t. anche la ἀπόμοιρα («parte riservata») che, attestata già prima dell’età ellenistica, ebbe larga applicazione soprattutto nei regni dei Tolomei e dei Seleucidi: variava a seconda dei luoghi e delle circostanze, ma in genere era di 1/6 oppure 1/10 dei prodotti della terra. Era naturalmente facoltà del sovrano (che spesso la poneva in essere) esentare da tali t. città o popolazioni che intendeva beneficare.
A base dell’ordinamento finanziario romano erano il vectigal (il reddito cioè tratto dai beni demaniali) e il tributum civium Romanorum, la contribuzione cui erano soggetti i beni di proprietà privata in circostanze straordinarie, per spese di guerra. Il t. era pagato in base al complesso delle proprie attività patrimoniali, il census; su questo lo Stato prelevava, a seconda delle necessità, l’1, 2, 3 per mille (tributum simplex, duplex, triplex). Era prelevato per tribù, e all’operazione di riscossione accudivano i tribuni aerarii. Ma dal 167 a.C. la conquista delle province orientali determinò così largo afflusso di denaro nelle casse dello Stato, che il t. non fu più richiesto. L’esenzione dal t. dei cittadini romani che avevano i loro possessi in Italia durò fino all’età di Diocleziano (292 d.C.). Alle necessità finanziarie si provvedeva invece soprattutto mediante t. imposti alle province. Nell’età repubblicana, la mancanza di certezza e di equa ripartizione degli oneri finanziari e il modo della riscossione, affidata a potenti società di pubblicani che ne tenevano l’appalto, contribuivano a ridurre le province in stato di grave oppressione. I modi di esazione potevano variare di provincia in provincia; particolarmente duro era lo stipendium, fisso e indipendente dall’effettivo rendimento delle terre; a esso si aggiungevano, a costituire il t. globale tratto dall’intera provincia, altre forme di t., come il tributum capitis (imposta personale) e altre contribuzioni straordinarie. Con l’Impero fu portato ordine nei t. provinciali, sottraendo l’esazione ai pubblicani e cercando di fissare l’effettiva capacità contributiva delle singole province, stabilendo un census provinciale.