In economia, il termine ha più significati: il valore in denaro di beni; i beni stessi in cui il denaro è investito o, più comunemente, l’insieme dei beni destinati a impieghi produttivi per ottenere nuova produzione. L’espressione beni c. (in contrapposto a beni di consumo) indica i beni impiegati in atti di produzione, da cui si attende la reintegrazione del valore investito con un profitto. Il c. è detto morto, quando l’investimento non dà frutto. In ragioneria, c. indica un fondo astratto di valori e anche il valore capitalizzato di redditi futuri.
Il concetto di c. è uno dei più controversi e difficili della teoria economica. Gli economisti della scuola classica, da A. Smith a J.S. Mill, considerano c. ogni bene prodotto che invece di essere consumato è impiegato per ulteriori processi produttivi. Per gli autori classici, il saggio di profitto su tutti gli investimenti di c. tende all’uguaglianza, scontati i fattori specifici che rendono più o meno rischioso ogni diverso investimento.
Nella teoria di Marx, fondata sull’identità di valore e lavoro contenuto, è fondamentale la distinzione tra c. costante e variabile. Il c. costante è quello investito in impianti, macchine, materie prime, elementi che non possono aggiungere al prodotto più valore di quanto ne incorporano. Il c. variabile compra la forza-lavoro che, oltre a riprodurre il proprio valore, crea il plusvalore, fonte del profitto.
C. Menger definì il c. come il potere di acquisto disponibile per investimenti produttivi, concezione poi sviluppata da J.A. Schumpeter. M.-E.-L. Walras distinse i c., beni scarsi che offrono servizi in più atti d’uso, dai redditi, beni scarsi che scompaiono in un solo uso. Tra i c. Walras incluse le risorse naturali (c. fondiari), le capacità dei lavoratori, frutto di qualità personali e d’addestramento (c. personali) e i c. propriamente detti, beni durevoli prodotti (con destinazione produttiva o di consumo), che danno luogo alla vendita di servizi dal loro uso.
Nella funzione aggregata di produzione sviluppata da autori marginalisti (➔ marginalismo), poi nella teoria della crescita (➔ crescita economica) come negli studi di economia applicata, il c. è trattato come un fattore omogeneo, applicabile in dosi successive con produttività positiva, ma decrescente (a parità degli altri fattori), secondo il principio dei rendimenti decrescenti. Questa visione del c. è stata criticata, per le difficoltà logiche che s’incontrano nel ricondurre un insieme eterogeneo di beni c. a grandezza unica, con significato quantitativamente coerente. La teoria della distribuzione marginalista è basata sulla corresponsione ai vari fattori produttivi di compensi corrispondenti alla rispettiva produttività marginale, tra cui va inclusa la produttività marginale dei singoli beni c. ovvero del c. come fattore omogeneo. Secondo E. von Böhm-Bawerk, il c. va concepito come l’investimento indiretto di risorse originarie nei vari stadi necessari per arrivare al prodotto finale destinato al consumo; l’intensità di c. va misurata con il periodo medio di produzione (la durata in media dell’immobilizzo di lavoro nel processo produttivo.
I c. (o, in altra dizione, i c. mobiliari) si distinguono in c. fissi, se si logorano gradualmente e possono fornire prestazioni utili in più cicli di produzione, e c. circolanti, se si consumano interamente in un solo atto di produzione (come le materie prime) o servono ad anticipare i salari. I primi vanno reintegrati parzialmente a ogni ciclo produttivo, i secondi integralmente. Il c. circolante è talvolta distinto in c. di anticipazione, c. di esercizio, c. liquido e fondo monetario. Per il reintegro del c. fisso, al logorio tecnico va aggiunto quello economico, a seguito delle innovazioni tecnologiche, che rendono superati strumenti e macchine ancora efficienti. La durata del c. può considerarsi indefinita, se si provvede costantemente a fronteggiare il logorio tecnico ed economico con restauri e ammortamenti, coprendo con l’assicurazione la distruzione totale o parziale per caso fortuito. La ripartizione del c. totale in fisso e circolante dipende, caso per caso, dal tipo e dal sistema di produzione. Si distingue ancora tra c. tecnico e c. salari, il primo impiegato in strumenti, edifici, materie prime e sussidiarie, il secondo destinato alla retribuzione dei lavoratori.
Nell’economia di un singolo agente la nozione di c. è legata a quella di reddito monetario, perché coincide con la ricchezza capace di fornire un reddito, effettivo o presunto; dal punto di vista individuale è c. anche la ricchezza in moneta, mentre la sua inclusione tra i c. dal punto di vista generale è controversa. In riferimento all’economia nazionale, s’includono nel c. tutti i beni destinati alla produzione del reddito reale nazionale, siano essi risorse naturali, come la terra, o prodotti (come le macchine, gli edifici ecc.) e anche la popolazione produttiva, che con i beni concorre alla produzione.
Il c. umano è l’insieme delle capacità acquisite con l’educazione e la formazione; va considerato come il risultato di scelte d’investimento nel corso del tempo, perché produce rendimenti futuri grazie al maggior valore dei redditi percepiti da chi ha investito risorse nella sua accumulazione. Il concetto di c. umano, in questa accezione, è stato approfondito in particolare da G.S. Becker con un’ampia gamma di applicazioni.
Il c. deve la sua origine all’ampiezza del prodotto interno lordo e all’entità dell’accumulazione: in sintesi, alla quota del prodotto lordo destinata in ogni periodo a nuovi investimenti che permettono l’impiego degli altri fattori della produzione e determinano la possibilità di maggior prodotto e maggior risparmio nel futuro. L’ampliamento del c. esistente in un dato periodo è consentito dal flusso di risparmio, che va a finanziare gli investimenti netti. Secondo le teorie keynesiane, nel caso di risorse disoccupate, può essere l’investimento stesso, dal lato della domanda, anche se finanziato con mezzi aggiuntivi di pagamento, a costituire il presupposto per l’aumento del reddito e quindi del risparmio. Nella teoria degli investimenti, l’efficienza marginale del c. misura il saggio di profitto atteso (detto saggio di rendimento interno) per un investimento iniziale che dà redditi nel corso di più periodi futuri. L’efficienza marginale del c. deve superare il tasso dell’interesse di mercato, perché l’investimento sia conveniente. A livello aggregato, s’ipotizza che l’efficienza marginale del c. diminuisca con il crescere del volume degli investimenti e questo sia, quindi, funzione diretta dell’efficienza marginale del c. e inversa del saggio dell’interesse.
Il principio dell’ adeguamento dello stock di c. spiega le decisioni d’investimento con una funzione, derivata dalla modifica del principio d’accelerazione (➔), nell’ipotesi che in ciascun periodo le imprese realizzano solo una quota degli investimenti desiderati per adeguare la capacità (➔) produttiva all’andamento del reddito. In generale, il principio dell’adeguamento dello stock di c., suppone che le imprese esprimano in ogni periodo un livello del c. desiderato, sulla base della domanda attesa, del livello di produzione, del saggio dell’interesse, e decidano investimenti netti (la variazione dello stock di c.) per adeguare il c. già istallato al livello desiderato. Il coefficiente di adeguamento è supposto positivo, ma inferiore all’unità: in ciascun periodo si realizza un adeguamento parziale, che dà luogo a un processo dinamico nel tempo dello stock di c., con ritardi e flessibilità nell’aggiustamento all’andamento del reddito.
Nella teoria dello sviluppo, l’espressione c. fisso sociale è stata usata per indicare infrastrutture e beni c. di uso collettivo (ferrovie, acquedotti, impianti elettrici ecc.), esterni alla dotazione delle singole imprese, nonché le spese per l’istruzione e la ricerca scientifica. Questo insieme di risorse influisce sulla redditività del c. impiegato nelle singole imprese, perché genera economie esterne. È detto fisso, perché nessun investimento può svolgersi con buone prospettive di profitto se il c. sociale non raggiunge almeno un minimo. Secondo P.N. Rosenstein-Rodan, la carenza di c. fisso sociale contribuisce all’arretratezza di certe regioni e costituisce serio ostacolo all’avvio del processo di sviluppo. In altra accezione, sviluppata soprattutto da R.D. Putnam, c. sociale indica l’insieme delle istituzioni, delle norme e relazioni di reciprocità e fiducia in una comunità, che favoriscono l’azione collettiva e facilitano, quindi, l’attività economica. Il c. sociale è ritenuto un importante fattore nei processi di sviluppo economico.
I trasferimenti (o movimenti) internazionali di c. consistono nel trasferimento da un paese all’altro di flussi finanziari, che non sono la contropartita di vendite o acquisti, già avvenuti o da avvenire, di merci o servizi oggetto di commercio internazionale, né il pagamento di prestazioni economiche internazionali con natura di reddito. Includono gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e gli investimenti di portafoglio per acquisto di attività finanziarie, ovvero anche prestiti accordati da Stati o da organismi governativi e da organizzazioni internazionali. Possono essere a lungo o breve termine e sono contabilizzati nella bilancia dei pagamenti, con metodi contabili che sono variati nei diversi periodi storici.
I movimenti internazionali di c. sono determinati in primo luogo da variabili economiche. Sui movimenti di c. privati a breve termine influisce soprattutto la differenza tra i tassi d’interesse nei paesi tra i quali avvengono; giocano un ruolo importante le aspettative di svalutazione o rivalutazione delle valute, soprattutto nei regimi di cambi fissi. Possono determinare repentini movimenti di c. timori di crisi bancarie o voci di sospensione del debito estero, l’inasprimento della pressione fiscale all’interno di un paese, o preoccupazioni per l’instabilità politica in paesi dai quali si preferiscono ritirare i fondi investiti. Movimenti internazionali di c. avvengono per interventi di politica economica, soprattutto nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, o per circostanze eccezionali, quali riparazioni di guerra, prestiti bellici e postbellici e loro rimborso. Dopo la Prima guerra mondiale si ebbe un’accentuata tendenza a improvvisi e ingenti spostamenti da un paese all’altro di oro e capitali a vista o a breve termine. Per neutralizzarne gli effetti, furono istituiti Fondi di stabilizzazione dei cambi. Rilevanti movimenti di c. si sono verificati, dopo il ripristino (1958) della convertibilità esterna, nell’ambito del sistema di cambi fissi stabilito a Bretton Woods, che aveva al centro il Fondo monetario internazionale. Movimenti di c. sono stati provocati dai cambiamenti politici avvenuti nell’ex URSS e nei paesi dell’Europa dell’Est.
I movimenti di c. possono essere regolamentati, più o meno rigidamente, dai singoli Stati o anche da organismi internazionali. La dottrina si è divisa sull’opportunità del loro stretto controllo. Prevale oggi la liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di c., che si è imposta sulla scena internazionale per i vantaggi della mobilità, nonostante i rischi d’instabilità finanziaria con ricadute a catena in caso di crisi finanziarie internazionali, come avvenuto nel corso degli anni 1990. La crescente mobilità internazionale dei c. è un aspetto importante della globalizzazione, ma si discute sull’opportunità di ripristinare o adottare forme di controllo sui movimenti finanziari a breve, che hanno carattere spiccatamente speculativo.
Città principale di uno Stato, sede del capo dello Stato e degli organi supremi di governo. Può essere ‘originaria’, cioè matrice dello Stato (per es. Parigi); ‘designata’, cioè scelta fra le varie città dello Stato (per es. Berlino); ‘fondata’, cioè creata per assolvere alla funzione di c. (per es. Madrid o Brasilia). Le trasmigrazioni di c. contrassegnano particolari evoluzioni dello Stato (per il Regno d’Italia: Torino fino al 1864, Firenze fino al 1871, Roma, indicata quale c. prima che entrasse a far parte dello Stato). Negli Stati federali esistono tante c. per quante sono le unità statali federate, nonché una c. federale, sede degli organi politici centrali della federazione.
La scrittura delle epigrafi e degli antichi manoscritti latini. Nel mondo latino, da un’originaria c. arcaica si svilupparono la c. lapidaria o quadrata, che raggiunse forme stabili e costanti in epoca augustea, e la c. libraria, usata nei manoscritti in papiro e poi in pergamena e detta rustica, caratterizzata dal forte chiaroscuro di orientamento obliquo, dal tratteggio sinuoso e dalla presenza di trattini ondulati al termine delle aste. In campo documentario fu adoperata invece una tipizzazione corsiva della capitale.
Tra 3° e 6° sec. d.C. la c. venne gradatamente sostituita nell’uso librario dalla minuscola e dall’onciale, mentre in campo documentario la ‘corsiva nuova’ si era già affermata tra la fine del 3° e l’inizio del 4° secolo. La c. sopravvisse ancora molti secoli nell’uso lapidario, sia pure con trasformazioni notevoli. Sostituita per almeno due secoli (13° e 14° sec.) dalla lapidaria gotica, la c. di tipo romano fu recuperata in Italia, ai primi del 15° sec., dagli umanisti fiorentini, e da allora si impose definitivamente in campo epigrafico.