Insieme dei cambiamenti che si verificano in un organismo sia animale sia vegetale a partire dall’inizio della sua esistenza. Nel corso dello sviluppo i tessuti e gli organi aumentano di dimensioni, mutano di forma e differenziano le loro funzioni, in un processo nel quale allo sviluppo si accompagna l’accrescimento.
Lo sviluppo embrionale è l’insieme dei cambiamenti che hanno inizio nell’uovo fecondato dei Metazoi e si compiono con la realizzazione della forma e dell’organizzazione del nuovo individuo (➔ embrione). Si distingue uno sviluppo diretto, se il nuovo organismo ha già l’aspetto complessivo dei genitori, oppure indiretto, se ne differisce completamente (stadio di larva) e, per raggiungere l’aspetto definitivo, deve passare attraverso varie metamorfosi.
Lo sviluppo embrionale è caratterizzato da una serie di eventi ordinati che iniziano dalla fecondazione. A seguito della formazione dello zigote si hanno numerose divisioni mitotiche (➔ segmentazione) con conseguente aumento della massa organica (accrescimento); a questo aumento si aggiunge un processo che conduce al differenziamento delle singole cellule in tessuti e alla formazione degli organi. Nella specie umana, per esviluppo, si formano, per divisioni successive a partire dallo zigote, approssimativamente 1015 cellule. Considerate le caratteristiche della divisione mitotica, tutte le cellule prodotte dovrebbero essere tra loro identiche; al contrario, durante l’embriogenesi, le cellule si differenziano e formano tessuti e organi diversi tra loro. Come questo avvenga è stato chiarito dall’esperimento di J.B. Gurdon, il quale ha dimostrato che cellule diverse di uno stesso organismo possiedono le stesse informazioni genetiche, cioè hanno lo stesso genotipo pur presentando un fenotipo diverso: esiste dunque un rapporto strutturale e funzionale tra il genotipo (sequenza del DNA) e la sua espressione nel fenotipo (funzione della corrispondente proteina). Fra le cellule si stabiliscono stretti contatti e interazioni specifiche. Esse, inoltre, vengono a contatto con numerose molecole secrete, di natura proteica o glicoproteica, che riempiono gli spazi extracellulari e formano la cosiddetta matrice extracellulare. La matrice costituisce una sorta di substrato sul quale le cellule possono muoversi, soprattutto durante le prime fasi dello sviluppo; è infatti formata da molecole di diversa natura, soprattutto collageni e proteoglicani, che regolano l’adesione, la migrazione e la forma delle cellule. In un organo, le diverse cellule immerse nella matrice extracellulare si associano e aderiscono a essa in modo diverso mediante le proteine presenti sulla membrana plasmatica. Tra queste proteine hanno notevole importanza le cosiddette molecole di adesione cellulare o caderine.
Per quasi un secolo e persino molto tempo dopo che era stato chiarito il ruolo del DNA nell’ereditarietà, i meccanismi del controllo genico della struttura corporea sono rimasti un mistero non risolto. Il ruolo svolto dalle molecole di adesione nei processi cellulari dello sviluppo è ora sufficientemente delucidato, anche se molto resta ancora da scoprire sulle interazioni fra le cellule e sui segnali che queste si inviano (➔ caderina). Sono stati gli studi genetici su Drosophila melanogaster, durati decenni, ad aver rivoluzionato le conoscenze sul modo in cui i geni definiscono l’organizzazione spaziale dei tipi cellulari e delle parti del corpo. Grazie alle tecnologie molecolari è stato possibile identificare i geni chiave e chiarirne la funzione: usando sonde molecolari e ibridazione in situ si è potuto direttamente osservare come lo stato delle cellule dell’embrione sia definito da gruppi di geni regolatori; inoltre, analizzando mutanti e animali transgenici, si è potuto notare che ogni gene funziona come una parte di un sistema complesso che determina tutta l’organizzazione del corpo. La tecnologia dei chip a DNA (➔ chip), utilizzata a partire dalla seconda metà degli anni 1990, costituisce inoltre un potente mezzo per l’osservazione dell’espressione dei geni durante lo sviluppo. Drosophila melanogaster può essere assunta come modello per altri organismi anche più complessi, quali i Mammiferi. Sono stati infatti scoperti geni omologhi a quelli di Drosophila negli animali superiori, Uomo incluso (➔ Hox).
La formazione di un individuo adulto di Drosophila comporta una serie di eventi programmati, sotto lo stretto controllo di geni, che si verificano in un periodo di 10 giorni (v. fig.). Dopo 24 ore dalla fecondazione l’uovo si trasforma in una larva che va incontro a due mute e diventa una pupa; la pupa subisce la metamorfosi e diventa quindi insetto adulto. Prima che l’uovo maturo venga fecondato, al suo interno si formano particolari gradienti di concentrazione di molecole e l’estremità posteriore è segnalata dalla presenza di una regione chiamata citoplasma polare. Dopo la fecondazione i due nuclei del gamete maschile e femminile, collocati approssimativamente al centro dell’uovo, si fondono e formano lo zigote. Per le prime 9 divisioni i nuclei si dividono all’interno di un citoplasma comune e si produce quello che viene chiamato sincizio multinucleato; alcuni nuclei migrano nel citoplasma polare, dove diventano i precursori delle cellule della linea germinale, uova e spermatozoi. La maggior parte dei nuclei migra dal centro dell’uovo verso la superficie formando un monostrato, il blastoderma sinciziale. Dopo altre divisioni i nuclei vengono circondati dalle membrane e si forma il blastoderma cellulare, costituito da circa 6000 cellule.
Lo sviluppo delle strutture del corpo dipende inizialmente dalla produzione di molecole che formano gradienti di concentrazione, uno lungo l’asse anteroposteriore e l’altro lungo l’asse dorsoventrale dell’uovo, e successivamente dalla determinazione di regioni, dette segmenti, che assumono una configurazione a strisce lungo l’asse anteroposteriore dell’embrione. I segmenti embrionali danno luogo ai corrispondenti segmenti della larva e questi ai corrispondenti segmenti dell’insetto adulto. Il moscerino è costituito da una testa, 3 segmenti toracici (numerati da T1 a T3) e 8 o 9 segmenti addominali (numerati da A1 a A8 o A9). Il punto in cui si delimitano i confini fra un segmento e l’altro è parzialmente convenzionale; il limite dei segmenti tradizionali è leggermente sfalsato rispetto a quello dei cosiddetti parasegmenti, definiti dall’analisi molecolare dell’espressione dei geni dello sviluppo.
Questi geni controllano lo sviluppo con una cascata temporale di eventi e sono stati identificati da mutazioni che danno luogo a strutture anomale, determinando la morte in stadi successivi. Per primi agiscono i geni materni, che sono espressi durante la formazione dell’uovo e che ne determinano la polarità, codificando proteine che si dispongono al suo interno con specifici gradienti di concentrazione. Per esviluppo, il gene bicoid (bcd), necessario per il normale sviluppo della parte anteriore, viene trascritto nell’ovaio dalle cellule nutrici connesse all’ovocita durante l’ovogenesi (➔ uovo). Successivamente, la sequenza non tradotta all’estremità 3′ dell’RNAm si ancora al citoscheletro a livello dell’estremità anteriore dell’ovocita. Dopo la deposizione dell’uovo gli RNA vengono tradotti, dando origine a un gradiente di concentrazione della proteina che ha il suo punto più elevato a livello dell’estremità anteriore dell’embrione. La proteina codificata da bicoid si lega al DNA e regola l’espressione di altri geni, influenzando il destino di sviluppo delle cellule localizzate nella parte anteriore dell’embrione.
Sono stati identificati 12 geni che controllano la polarità dorsoventrale e 21 geni che controllano quella anteroposteriore; questi ultimi sono divisi in tre sottogruppi: un gruppo che governa la parte anteriore, del quale fa parte bicoid, uno che governa la parte posteriore e il terzo, il gruppo terminale, che governa le due estremità distali dell’embrione, comprese le strutture terminali non segmentali specializzate e le due regioni dalle quali deriva l’intestino. Successivamente, dopo la fecondazione, intervengono i geni gap (intervallo), i geni pair rule (regola della coppia), i geni segment polarity (polarità dei segmenti) e i geni omeotici.
Fenomeno durevole nel tempo consistente nella crescita di alcune variabili reali del sistema: produzione, consumi, investimenti, occupazione. Generalmente come indice del grado di sviluppo economico raggiunto da un paese si assume il reddito reale per abitante o il Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite. Questo indice sintetico tuttavia è stato sottoposto a forti critiche in quanto dalla sua evoluzione nel tempo non possono essere tratte valutazioni né sul livello di benessere raggiunto da un paese né, tanto meno, sulla distribuzione del reddito al suo interno. Confronti internazionali basati sul livello raggiunto dal PIL pro capite, specie se si prendono a riferimento paesi molto diversi sotto il profilo economico, come è il caso dei Paesi Industrializzati (PI) e dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS), non solo non consentono di spiegare la complessità del fenomeno dello sviluppo ma molto spesso portano a esagerare le differenze tra i due gruppi di paesi.
Lo sviluppo economico è un fenomeno complesso non facilmente riconducibile a spiegazioni e interpretazioni generalizzabili: l’esperienza storica dimostra infatti la presenza di modelli di sviluppo economico assai diversi, per politiche economiche attuate e per fasi e tempi di realizzazione, tanto tra le società economicamente più avanzate che tra quelle meno avanzate.
Lo sviluppo economico al quale si fa oggi riferimento presenta aspetti del tutto particolari che lo contraddistinguono dai meccanismi che caratterizzavano le epoche precedenti. Mentre nell’epoca medievale, tra l’11° e il 15° sec., il ruolo centrale nello sviluppo è stato assunto dalla città e dalle innovazioni indotte dalla crescita dell’economia urbana, negli anni compresi tra il 1500 e il 1570 il motore della crescita economica si è fondato principalmente sul capitalismo mercantile, cioè sulle scoperte e le conquiste del Nuovo Mondo, ma anche sulle consistenti trasformazioni che hanno interessato il settore agricolo, le prime attività manifatturiere e il commercio. Tuttavia, solo con lo sviluppo industriale avvenuto inizialmente in Inghilterra a partire dalla fine del 18° sec., e diffusosi nei due secoli successivi negli altri paesi europei, negli USA e nel resto del mondo, il processo economico ha assunto le caratteristiche fortemente intensive che connotano le società moderne.
Tali caratteristiche, che hanno portato i paesi europei a svilupparsi a ritmi di incremento del PIL mediamente superiori all’1% rispetto allo 0,1-0,2% dei secoli precedenti, possono essere così sintetizzate: crescente introduzione dell’innovazione nei processi di lavorazione dei manufatti con conseguente realizzazione di nuovi prodotti e nuovi macchinari, forte espansione dell’attività industriale a scapito di quella agricola, realizzazione di elevati profitti con mantenimento di alti tassi di accumulazione del capitale, maggiore ricorso al lavoro qualificato, sviluppo delle risorse naturali.
I paesi che per primi si sono industrializzati hanno tratto, grazie anche a un assetto liberistico degli scambi internazionali, consistenti vantaggi dall’insieme degli ingredienti dello sviluppo qui descritti, mentre quelli che si sono sviluppati successivamente, dovendo affrontare la concorrenza dei paesi già affermati sui mercati esteri, sono ricorsi spesso a misure protettive delle loro economie, anche se hanno potuto usufruire della maggiore disponibilità di tecnologie avanzate e meno costose, di una riserva di manodopera da impiegare a salari contenuti e della presenza di un mercato interno in espansione non totalmente dipendente dalle importazioni dei paesi terzi.
In seguito alla diffusione dello sviluppo, e soprattutto delle innovazione scientifiche e dell’applicazione del progresso tecnologico ai processi produttivi, la struttura del sistema economico ha subito profonde modificazioni sia nel contributo delle diverse attività produttive alla formazione del PIL sia negli usi finali della produzione; al minore peso nella composizione del PIL del settore agricolo e in parte anche dei settori industriali più tradizionali (minerario, tessile e metallurgico) ha fatto riscontro una maggiore crescita di quelli dove più intenso è risultato lo sforzo di innovazione di processo e/o di prodotto (la meccanica, l’elettronica, le telecomunicazioni ecc.), ma anche un incremento del peso del settore dei servizi destinati alla vendita (banche, assicurazioni, commercio, trasporti e comunicazioni ecc.).
A questa imponente trasformazione nelle modalità di utilizzo delle risorse produttive disponibili, capitale (umano e fisico), lavoro e terra, si sono accompagnati importanti mutamenti di carattere sia istituzionale sia culturale: i processi di sviluppo delle società moderne hanno visto il crescente coinvolgimento dello Stato nella vita economica, la ricerca di istituzioni efficienti, la formazione di sistemi di istruzione in grado di diffondere le nuove conoscenze.
Un’altra caratteristica dello sviluppo economico moderno è quella di presentare un’elevata variabilità nell’andamento nel tempo delle grandezze economiche; a fasi di crescita rapida di tali grandezze (il PIL, gli investimenti, le esportazioni ecc.) si succedono periodi di rallentamento, talvolta di contrazione o di vera e propria recessione economica. Alcuni studiosi hanno individuato nel processo di sviluppo una successione naturale di tali fluttuazioni, tanto da poter parlare di regolarità dei cicli economici, da quelli di breve e medio periodo a quelli di più lungo periodo. Ma tali fenomeni sono difficilmente prevedibili nel tempo e comunque non sempre da attribuire allo stadio di sviluppo (più o meno avanzato) raggiunto dal paese, bensì a un insieme di cause o shock che possono essere dettati talvolta da fenomeni economici, più spesso da avvenimenti provocati da tensioni sociali e politiche, sia interne sia internazionali, la cui influenza sull’evoluzione del ciclo economico non è facile da determinare.
Le fluttuazioni verificatesi in particolare a partire dagli anni 1970 hanno evidenziato, anche per la crescente integrazione dei mercati e delle economie dei paesi più avanzati, caratteristiche sia di maggiore rapidità nella successione del ciclo sia di maggiore intensità; è sufficiente pensare agli shock petroliferi degli anni 1973 e 1979 e ai processi inflattivi che ne sono conseguiti, alla recessione mondiale dei primi anni 1980, alla persistenza nel decennio 1980-90 di condizioni sfavorevoli alla crescita economica in molti PVS, al problema della disoccupazione strutturale nella gran parte delle società avanzate degli anni 1990 e nuovamente alla fine del primo decennio del 2000.
Un’ultima considerazione rinvia al fatto che, laddove è stato comunque realizzato, lo sviluppo economico non ha sempre assicurato il conseguimento di altri importanti obiettivi come una maggiore giustizia sociale, la realizzazione di una migliore qualità della vita, la riduzione dei divari esistenti tra le classi sociali e tra aree geografiche del mondo, la diminuzione della disoccupazione e l’eliminazione dell’emarginazione sociale anche nei paesi più progrediti.
L’analisi dello sviluppo economico occupa un posto centrale nell’analisi degli scrittori classici, da A. Smith a D. Ricardo e J.S. Mill. Secondo tali autori, l’accumulazione di capitale, da cui dipende l’espansione del sistema economico, è realizzata dai capitalisti, cioè dai percettori di profitto, i quali investono la quasi totalità del reddito che percepiscono con l’esclusione di una piccola quota destinata al consumo, mentre i percettori di salari e di rendite consumano per intero i propri redditi. L’intensità dell’accumulazione di capitale dipende pertanto dalla distribuzione del reddito tra le classi sociali. Finché il saggio di profitto è alto, l’accumulazione progredisce e il sistema si sviluppa. Ma con il procedere dell’accumulazione le opportunità di investimenti profittevoli si riducono, il saggio di profitto tende a diminuire e l’economia si avvia verso una situazione di stazionarietà che, secondo gli scrittori classici, rappresenta l’esito inevitabile di ogni processo di sviluppo capitalistico.
Anche nello schema teorico di K. Marx il processo di accumulazione del capitale provoca una riduzione tendenziale del saggio di profitto in conseguenza dell’impiego sempre più ampio del capitale rispetto al lavoro. Tuttavia, secondo Marx, il processo di sviluppo capitalistico non è destinato a esaurirsi, lentamente e in maniera continua, fino al raggiungimento di uno stato di crescita stazionaria, ma implica invece il susseguirsi di cicli economici di ampiezza sempre maggiore, la cui origine è indissolubilmente legata alla contraddizione di fondo tra i rapporti capitalistici di produzione e la distribuzione del reddito. Infatti, ciascun ciclo dipende dalla crescita sproporzionata della produzione rispetto ai consumi e si risolve in una crisi che, attraverso la distruzione di ricchezza, ristabilisce l’equilibrio tra le due variabili, ma solo temporaneamente, sicché a ogni crisi ne segue un’altra più grave fino a quella finale che provoca il crollo del sistema capitalistico.
Dopo Marx, e per oltre un cinquantennio, la teoria dello sviluppo segna una stasi, con la sola eccezione del contributo recato da J.A. Schumpeter, il quale vide anch’egli nel capitalismo una forma storica transitoria destinata a essere sostituita da una società socialista. Una ripresa dell’interesse per i temi dello sviluppo si ebbe solo nel 1939, con il contributo di R.F. Harrod, il quale inquadrò, in un contesto dinamico, il problema delle condizioni sottostanti la crescita economica nell’ambito della teoria keynesiana della distribuzione del reddito. L’interesse di Harrod era rivolto soprattutto allo studio delle condizioni per le quali le decisioni di investimento degli imprenditori, che regolano lo sviluppo dei sistemi economici capitalistici, risultano tali da soddisfare l’equilibrio dinamico sul mercato dei beni (uguaglianza ex ante tra risparmi e investimenti). Tali condizioni sono soddisfatte quando gli investimenti ‘desiderati’ (o investimenti ex ante) coincidono con quelli ‘giustificati’, in grado, cioè, di determinare quel particolare rapporto tra capitale prodotto che sostiene (o giustifica) l’incremento previsto di domanda in base al quale sono state prese le decisioni di investimento. Nella realtà dell’economia, gli investimenti effettuati dagli imprenditori sono il risultato di aspettative che non necessariamente si realizzano: l’indeterminatezza delle decisioni di investimento rende difficile la soddisfazione delle condizioni di equilibrio dinamico, dando luogo a fluttuazioni nella forma di eccessiva espansione o di depressione. Di conseguenza le stesse forze che generano lo sviluppo dell’economia sono alla base della sua instabilità. Nel modello di Harrod viene dunque descritta una dinamica delle condizioni di sviluppo nei sistemi capitalistici caratterizzata dal fatto che il comportamento degli imprenditori non garantisce il mantenimento dell’economia lungo un sentiero di crescita in equilibrio stabile.
L’idea che lo sviluppo dell’economia si muova lungo il ‘filo del rasoio’ dell’instabilità è stata messa in discussione, a partire dagli anni 1950, dai modelli di matrice neoclassica, con i quali si verifica un profondo mutamento di prospettiva. La teoria dello sviluppo, infatti, cessa di avere a oggetto lo studio degli effetti che le decisioni di investimento esercitano sullo sviluppo economico, per essere ricondotto al problema dell’allocazione delle risorse che aveva caratterizzato il pensiero prekeynesiano. Nei contributi pionieristici di R. Solow (1956) e T. Swan (1956) l’equilibrio dinamico tra risparmi e investimenti viene illustrato con riferimento a una funzione di produzione, sulla quale, in corrispondenza di ciascun punto, si stabilisce un rapporto tra capitale e lavoro in grado di assicurare la piena occupazione dei due fattori produttivi. Ciascun punto è inoltre associato a un unico saggio di profitto e di salario i quali, congiuntamente, individuano una quota di prodotto per lavoratore tale da originare un ammontare di risparmio sufficiente ad assicurare una crescita dello stock di capitale corrispondente a quella della forza lavoro. L’insieme di queste condizioni assicura una crescita ‘bilanciata’ del sistema economico tale, cioè, da assicurare un sentiero di sviluppo in grado di lasciare immutati il rapporto capitale/lavoro e la distribuzione del reddito. Il modello di Solow è stato successivamente esteso da J. Meade (1961) e H. Uzawa (1961) a schemi multisettoriali più complessi, nei quali la produzione di beni capitali viene mantenuta distinta da quella di beni di consumo.
Una conseguenza dei risultati ottenuti dai modelli neoclassici è che la crescita del prodotto è limitata dal tasso di incremento della forza-lavoro. Per assicurare una crescita costante del prodotto pro capite occorre che la produzione aumenti a un tasso maggiore di quello della forza lavoro (o della popolazione), ma ciò è possibile solo attraverso l’intervento del progresso tecnico, che rappresenta tuttavia una variabile esogena, cioè indipendente dalle altre variabili contenute nel modello.
Una formulazione alternativa al pensiero neoclassico era stata formulata da N. Kaldor (1957), sulla base dell’osservazione che le spese per investimento rappresentano un’opportunità per l’introduzione di nuovi processi produttivi e di nuove tecnologie. Dal momento che il tasso di crescita della produttività del lavoro è correlato positivamente con l’attività di investimento, la quale a sua volta esercita un’influenza diretta sul saggio di sviluppo del sistema, il progresso tecnico ‘incorporato’ nei nuovi beni di investimento non può essere considerato esogeno. Un primo tentativo di accogliere anche negli schemi teorici neoclassici una funzione endogena del progresso tecnico può essere ricondotto al modello di K. Arrow (1962) nel quale gli incrementi della produttività del lavoro dipendono, oltre che dall’accumulazione di capitale, anche dall’esperienza acquisita in seguito alla ripetizione di determinate attività (learning by doing). Tuttavia è solo a partire dagli anni 1980 che, nell’ambito del nuovo filone della teoria della crescita endogena (➔ progresso), associato ai nomi di P. Romer (1986) e R.E. Lucas (1988), il nesso centrale nella spiegazione dei meccanismi alla base dello sviluppo economico viene ricondotto al ruolo svolto dall’accumulazione di capitale umano, cioè al bagaglio di conoscenze tecniche, scientifiche e culturali acquisite attraverso l’istruzione formale e l’addestramento informale.
Sono così definiti quei paesi che, presentando determinate caratteristiche economiche, sono accomunati, in particolare, da un basso livello di prodotto interno lordo. Rispetto ai paesi industrializzati, i PVS hanno scarsa disponibilità dei fattori di produzione essenziali a una moderna industria: capitale e lavoro specializzato. L’attività prevalente è quella agricola, caratterizzata da arretratezza, scarsa meccanizzazione e sovrabbondanza di manodopera. Il reddito pro capite viene quasi completamente consumato impedendo la formazione di sufficienti livelli di risparmio e, dunque, di sviluppo degli investimenti, a loro volta rallentati dalla carenza di infrastrutture e di capacità imprenditoriali; di conseguenza la crescita della produzione e del reddito rimane molto bassa. Questa spirale in cui restano avviluppati i PVS è stata definita da K.G. Myrdal ‘circolo vizioso della povertà’. Il problema di tali paesi è pertanto quello di modificare le suddette condizioni in modo da innescare il processo di sviluppo.
I PVS non costituiscono una categoria di paesi strutturalmente omogenea e in essa vengono inclusi in realtà anche i paesi che hanno raggiunto livelli di reddito più elevati. Secondo il reddito pro capite, a livello mondiale i sistemi economici dei vari paesi possono essere suddivisi in sei categorie: economie a basso reddito (gran parte della Cina, India, Africa subsahariana); economie con reddito medio (i piccoli paesi latino-americani e caribici e la restante parte dei paesi africani); economie a reddito medio-alto (i maggiori paesi latino-americani, Hongkong, Corea, Israele e i paesi più poveri dell’Est europeo); economie dei paesi esportatori di petrolio a reddito più elevato (Libia e i paesi OPEC della penisola arabica); economie ex comuniste dell’Est europeo; economie industrializzate. I PVS rientrano nei primi quattro gruppi: tra di essi vi sono tuttavia differenze notevoli. Molti di questi paesi hanno fin dagli anni 1970 ampliato il settore industriale fino a essere definiti Newly Industrializing Countries («paesi di nuova industrializzazione», sigla NIC), quali la Corea del Sud, Taiwan, Hongkong, Singapore ecc. Altri paesi sono invece rimasti al livello della mera sussistenza, come quelli dell’Africa sub-sahariana. Tali differenze dipendono dalla diversa applicazione delle politiche dello sviluppo e vengono valutate in base a indicatori che sintetizzano specifici aspetti socioeconomici.
Il PIL pro capite dà una misura delle condizioni di sviluppo di un paese (parametri fissati dalla Banca Mondiale stabiliscono una soglia minima di PIL al di sotto della quale il paese è considerato a basso reddito), ma non dà informazioni sulla distribuzione del reddito del paese. Per questo motivo si ricorre ad altri parametri, quali la struttura per età della popolazione (che nei PVS è caratterizzata da alti tassi di natalità), o l’indice della qualità fisica della vita (che tiene conto della speranza di vita, la quale si riduce in proporzione all’aumento della povertà, della mortalità infantile ecc.).
Negli anni 1950 riscuoteva ampio credito la teoria degli stadi dello sviluppo economico di W.W. Rostow, secondo la quale tutti i paesi passano attraverso tre stadi di sviluppo: un lungo periodo in cui si creano le condizioni per un decollo; il decollo che dura due o tre decenni; un lungo periodo in cui la crescita diviene normale e quasi automatica. Si riteneva che tale impostazione fosse applicabile anche ai PVS; a essa si ricollegavano le teorie di ispirazione neoclassica che attribuivano piena fiducia all’operare spontaneo delle forze di mercato anche a livello internazionale. Esse supponevano che, anche nell’arco di un periodo abbastanza lungo, i PVS avrebbero manifestato una tendenza (smentita dall’esperienza storica) a convergere verso i paesi già sviluppati. W.A. Lewis, in un saggio del 1954, ha analizzato il processo di industrializzazione di un paese arretrato individuando nello spostamento dei lavoratori dalle campagne alle città il presupposto dello sviluppo. Secondo le tesi dell’autore, la manodopera sovrabbondante consente il mantenimento di bassi livelli salariali e il conseguimento di alti profitti industriali che vengono reinvestiti. Ciò comporta l’espansione del settore industriale che dura finché permane l’esodo dalle campagne alle città, cioè fino a quando rimane soltanto una limitata parte della popolazione nelle campagne. L’incentivo al trasferimento cessa quando, essendo scarsa la popolazione rimasta nelle campagne, il guadagno che un individuo può realizzare lavorando nell’agricoltura è all’incirca pari al salario che percepisce nell’industria. La riserva di lavoro così si esaurisce, la domanda di lavoro da parte delle imprese industriali diviene maggiore dell’offerta di lavoro, si verifica un aumento dei salari e una diminuzione dei profitti. Da quel momento il ritmo di sviluppo è dato dall’aumento della popolazione e dal progresso tecnico.
Ma la realtà ha dimostrato che il processo di sviluppo si può bloccare prima che sia esaurita la riserva di forza lavoro delle campagne, perché le retribuzioni più elevate creano un forte incremento della domanda di beni che non riesce a essere soddisfatta dall’offerta produttiva ancora relativamente scarsa. Ciò provoca un aumento dei prezzi, e di conseguenza dei salari, con un rallentamento della produzione.
Nel corso degli anni il quadro del sottosviluppo si è profondamente modificato. Fra gli anni 1950 e 1960 hanno favorito lo sviluppo economico di alcuni PVS fattori quali la decolonizzazione e la formazione di governi nazionali, l’applicazione di un intervento statale diretto in economia, la crescita delle esportazioni, gli investimenti stranieri diretti da parte dei paesi più sviluppati e il loro apporto di conoscenze e tecnologie. Vari autori, come H.B. Chenery, hanno descritto e analizzato i mutamenti strutturali dei paesi arretrati che, nonostante le caratteristiche comuni, sono spesso condizionati dalle diversità delle situazioni politiche e commerciali.
Negli anni 1980 si è sostenuto che le cause del mancato sviluppo dei paesi del Terzo mondo vanno individuate proprio nelle caratteristiche interne di tali paesi. S.S. Kuznets ha individuato alcuni elementi comuni allo sviluppo dei paesi industrializzati (elevati tassi di crescita della produttività dei fattori e quindi del prodotto pro capite, rapida trasformazione della struttura dell’economia e trasformazione sociale, culturale e istituzionale) che non si manifestano nei paesi sottosviluppati. Ma per vari autori il processo di sviluppo non si innesca proprio perché esiste un meccanismo di complementarità, dovuto al commercio internazionale, tra la ricchezza dei paesi ricchi e la povertà dei PVS. Questi ultimi hanno infatti bisogno di importare beni di investimento per industrializzarsi e, per pagarli, devono aumentare le loro esportazioni, costituite soprattutto da risorse naturali e da prodotti agricoli, entrambi soggetti a una forte instabilità dei prezzi che rende fluttuante l’introito derivante dalla vendita. Inoltre il protezionismo agricolo dei paesi industrializzati ostacola il collocamento delle merci prodotte dai PVS sul mercato internazionale. Questi fattori contribuiscono a innescare un processo di indebolimento dei PVS che li rende economicamente dipendenti dai paesi sviluppati e che rappresenta uno dei principali condizionamenti allo sviluppo di tali paesi.
Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale numerosi PVS hanno fatto ricorso al prestito estero per finanziare gli investimenti interni a causa del loro basso livello del risparmio. Un PVS ricorre in genere al prestito estero promettendo di ripagare in un secondo tempo il capitale e gli interessi maturati. Tuttavia i prestiti che finanziano investimenti non profittevoli o l’importazione di beni di consumo possono creare debiti che i PVS non saranno in grado di ripagare. Inoltre, poiché i bassi livelli di risparmio dei PVS sono spesso dovuti a politiche economiche errate, queste stesse politiche possono condurre a un eccessivo ricorso al prestito provocando una spirale da cui diventa impossibile uscire. Il flusso di capitali che finanzia il disavanzo dei PVS assume diverse forme quali la vendita di titoli all’estero, i prestiti bancari, gli investimenti diretti dall’estero, i prestiti pubblici offerti da agenzie internazionali, come il FMI e la Banca Mondiale ecc. In sostanza si tratta di finanziamento con debito (in genere rappresentato da prestiti diretti ai governi o alle imprese pubbliche o da prestiti garantiti al settore privato) e di finanziamento con capitale di rischio.
Dopo un lungo periodo in cui i prestiti internazionali ai paesi sottosviluppati ebbero un boom soprattutto per le varie opportunità di investimento, la crisi del 1929 provocò il quasi totale prosciugamento delle fonti di finanziamento di questi paesi, i quali furono costretti a tagliare le importazioni aggravando la carenza di domanda aggregata che caratterizzava i paesi sviluppati. Questi, a loro volta, eressero barriere alle importazioni impedendo ai paesi sottosviluppati di collocare i propri prodotti e mettendoli nell’impossibilità di ripagare il debito. Dal 1945 ai primi anni 1970 la maggior parte dei flussi finanziari verso i paesi sottosviluppati si configurò come prestito ufficiale, credito commerciale a breve, investimenti diretti dall’estero (che poi furono spesso soggetti alla minaccia della nazionalizzazione). Poiché talvolta i PVS incontravano difficoltà nel ripagare il debito, i paesi prestatori crearono nel 1956 il Club di Parigi, per gestire la rinegoziazione del debito (che si ha quando parte dei pagamenti sul debito viene posposta). Nel periodo della crisi petrolifera del 1973-74, i prestiti ai PVS si moltiplicarono poiché l’enorme avanzo di parte corrente dei paesi esportatori di petrolio li portava a depositare fondi presso le banche dei paesi industrializzati i quali li utilizzavano prestandoli ai PVS. Questi ultimi proseguirono nelle loro politiche espansive anche dopo la recessione del 1975 favorendo la crescita del disavanzo (a sua volta incrementato da tassi di interesse in aumento per tutti gli anni 1970).
Dagli anni 1980 è esplosa la crisi del debito dei PVS, aggravata inizialmente dall’apprezzamento del dollaro (che accrebbe il valore reale del debito dei PVS). La recessione mondiale e la diminuzione del reddito del mondo industrializzato hanno determinato una riduzione delle esportazioni dei PVS di fronte a un incremento dei prezzi di importazione. Nonostante le sensibili differenze regionali dei PVS, la forte crisi del debito che essi attraversano (spesso acuita dalla situazione dei mercati finanziari interni poco sviluppati e soggetti a pesanti controlli governativi) trova in questi elementi le sue radici.
Gli interventi considerati indispensabili per risolvere tali problemi sono esterni (aiuti finanziari dei paesi industrializzati, come prestiti a basso tasso di interesse o donazioni, riduzione del protezionismo commerciale) e interni (politiche di sviluppo dell’agricoltura e delle infrastrutture, forme di industrializzazione ad alta intensità di lavoro che consentano l’aumento dell’occupazione e la diminuzione della povertà). Ma le varie proposte di innovazione non hanno portato finora a una soluzione dei problemi che condizionano fortemente l’ulteriore possibilità di crescita dei PVS e la loro reale autonomia dai paesi avanzati.
Secondo la definizione proposta nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo (Commissione Bruntland) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Il concetto di sostenibilità, in questa accezione, viene collegato alla compatibilità tra sviluppo delle attività economiche e salvaguardia dell’ambiente. La possibilità di assicurare la soddisfazione dei bisogni essenziali comporta, dunque, la realizzazione di uno sviluppo economico che abbia come finalità principale il rispetto dell’ambiente, ma che allo stesso tempo veda anche i paesi più ricchi adottare processi produttivi e stili di vita compatibili con la capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane e i paesi in via di sviluppo crescere in termini demografici ed economici a ritmi compatibili con l’ecosistema.
Il concetto di sviluppo sostenibile fu elaborato dalla Commissione Brundtland sulla base di due elementi fondamentali: l’ambiente quale dimensione essenziale dello sviluppo economico e la responsabilità intergenerazionale nell’uso delle risorse naturali. La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), tenuta a Rio de Janeiro nel 1992, ha consolidato il principio dello sviluppo sostenibile attraverso la sua formalizzazione negli atti adottati a conclusione del Vertice: la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, l’Agenda 21, e la Dichiarazione sulla gestione, la conservazione e lo sviluppo sostenibile delle foreste. La nozione di sviluppo sostenibile è stata accolta anche nei trattati ambientali aperti alla firma a Rio: la Convenzione sui cambiamenti climatici, entrata in vigore nel 1994, e la Convenzione sulla diversità biologica, entrata in vigore nel 1993. Più in particolare, l’art. 2 della Convenzione sulla biodiversità contiene la nozione di ‘sostenibilità’, definendo ‘sostenibile’ l’uso delle risorse biologiche secondo modalità e a un ritmo che non ne comportino una riduzione a lungo termine e che preservino le capacità di soddisfare le esigenze delle generazioni presenti e future. Gli atti di Rio e le successive conferenze mondiali promosse dalle Nazioni Unite, in specie la Conferenza di Johannesburg del 2002, confermano una configurazione del principio dello sviluppo sostenibile fondata su tre fattori interdipendenti: tutela dell’ambiente, crescita economica e sviluppo sociale. A partire dall’UNCED, lo sviluppo sostenibile si è consolidato quale principio di diritto internazionale e ha contribuito all’evoluzione del diritto internazionale ambientale attraverso la conclusione di trattati ambientali globali e di numerosi accordi di carattere regionale. Nell’ambito dell’Unione Europea, lo sviluppo sostenibile è posto a fondamento delle azioni e delle politiche dell’Unione in materia ambientale.
Nella geometria elementare e differenziale, l’operazione di distendere una superficie sopra un piano senza alterare le lunghezze delle sue linee e l’ampiezza dei suoi angoli su di essa tracciati. L’operazione di sviluppo non è sempre possibile; le sole superfici che ammettono sviluppo sono quelle appunto dette sviluppabili. Si dimostra che le sole superfici sviluppabili sono i coni e i cilindri e le superfici luogo delle rette tangenti a una curva sghemba λ, detta spigolo di regresso della sviluppabile. Non è sviluppabile, invece, la superficie sferica (di qui l’impossibilità di rappresentare fedelmente su di un piano il globo terrestre).
Per lo sviluppo in serie ➔ serie.
Procedimento per il quale un tema o un soggetto musicali si svolgono in un discorso basato sui motivi interni al tema o al soggetto stesso. Nella composizione propriamente monodica lo sviluppo avviene per continuità e libertà di volute melodiche; nella polifonia, per elaborazioni contrappuntistiche di un dato soggetto; nella composizione sonatistica (o sinfonica), attraverso un processo dialettico che coinvolge l’uno e l’altro dei temi, e anche l’uno e l’altro dei motivi interni di ogni tema.
Nella fotografia su pellicola, processo mediante il quale si hanno la riduzione (sviluppo chimico) dei granuli di alogenuro d’argento ad argento metallico in soluzione e la precipitazione (sviluppo fisico) dell’argento metallico nero per la presenza nell’emulsione di aggregati di pochi atomi formatisi in fase di esposizione. Lo sviluppo si effettua in camera oscura, al buio o con una luce inattinica adatta per l’emulsione, immergendo il materiale impressionato in bacinelle o vasche contenenti il bagno di sviluppo alla temperatura prescritta e agitando di quando in quando; ci si può servire di apposite sviluppatrici, a funzionamento automatico o non automatico. L’immersione si fa per un ben determinato periodo di tempo e a temperatura costante, a seconda delle caratteristiche dell’emulsione da sviluppare, seguendo le modalità prescritte dal fabbricante del materiale sensibile o dettate dall’esperienza. Nei processi automatici, durata e temperatura del bagno di sviluppo del materiale sensibile fotografico, sia negativo sia positivo, sono predefiniti. Per rendere stabile l’immagine così ottenuta e poter in seguito tenere esposto indefinitamente alla luce il materiale fotografico senza che si verifichino altre trasformazioni, allo sviluppo deve seguire il trattamento di fissaggio. Un bagno di sviluppo contiene di solito, oltre a una o più sostanze che effettivamente danno luogo allo sviluppo (rivelatori), una sostanza che protegge queste dall’ossidazione, un’altra (acceleratore) che aumenta l’energia dei rivelatori e ne accelera l’azione, e un’altra ancora che ne rende regolare l’azione in tutta la profondità dello strato di emulsione (moderatore).
Le sviluppatrici possono essere a ciclo discontinuo e a ciclo continuo; nelle prime, usate prevalentemente per il trattamento di prodotti a carattere professionale, le pellicole sono applicate a una serie di telai che, con movimenti non continui attuati secondo rigorosi programmi prestabiliti e modificabili caso per caso, le trasferisce in successione dentro vaschette diverse in cui sono presenti i bagni di trattamento e i liquidi di lavaggio. Nelle macchine a ciclo continuo, più adatte per elevati cicli di produzione, il passaggio delle pellicole da un bagno all’altro avviene senza soluzione di continuità.
L’introduzione nel settore fotografico della tecnologia digitale, per cui, abbandonata la pellicola fotografica, le immagini sono acquisite attraverso la creazione di file su schede di memoria portatili (flash memory card), ha prodotto un’evoluzione anche dello sviluppo: nelle sviluppatrici digitali le immagini, una volta acquisite dai file presenti nelle schede di memoria, impressionano la carta fotografica a emulsione che viene poi sviluppata chimicamente.