Processo attraverso cui un territorio sottoposto a regime coloniale acquista l’indipendenza politica, economica e tecnologica dal paese ex-colonizzatore. In particolare, il processo storico, iniziato con la Seconda guerra mondiale e proseguito negli anni 1970, che ha portato alla dissoluzione dell’assetto coloniale imposto alla quasi totalità dell’Africa, a buona parte dell’Asia e a territori delle Americhe.
La d. trasse il primo avvio dallo svolgimento stesso della colonizzazione: l’azione per lo sviluppo economico dei territori soggetti, intrapresa dai governi coloniali (anche se diretta all’interesse metropolitano), e la connessa promozione sociale provocarono un profondo mutamento delle strutture sociali tradizionali, determinando la formazione di élite culturalmente evolute che divennero l’elemento propulsore delle rivendicazioni politiche. Inoltre la politica coloniale della Gran Bretagna, e in qualche misura anche quella di altre potenze, avviò, sia pure con lenta gradualità, i territori coloniali verso una sempre più ampia autonomia amministrativa, premessa per l’ulteriore progresso verso l’indipendenza politica; a questo risultato pervenne egualmente la politica, tipica della Francia, che mirava all’assimilazione, cioè teoricamente alla progressiva completa fusione fra la madrepatria e le colonie. Le élite così formatesi assunsero come propri gli ideali e i metodi politici occidentali ma allo stesso tempo rivendicarono, con particolare vigore nel mondo arabo e in Asia, le proprie tradizioni, facendosi interpreti presso e contro i governi coloniali delle aspirazioni all’indipendenza e promuovendo la creazione di movimenti che variamente contribuirono a dare progressiva diffusione nelle masse agli ideali nazionalistici. La pressione delle rivendicazioni, spesso espressasi attraverso disordini, tumulti, sollevazioni popolari, anche violente, e talora invece attraverso manifestazioni organizzate di resistenza passiva o non-cooperazione (Gandhi), contribuì in misura rilevante ad accelerare il processo indipendentistico; a tale meta si giunse in alcuni casi attraverso una guerra di liberazione nazionale (Indocina e Algeria ne furono gli esempi più drammatici). Alla pressione esercitata dalle popolazioni soggette si affiancò l’azione di movimenti, partiti e altre organizzazioni all’interno degli Stati coloniali. Le istanze decolonizzatrici provennero specialmente dai partiti e dai movimenti di sinistra, in quanto la dottrina socialista e poi l’elaborazione leninista del marxismo condannavano l’espansione coloniale considerandola come un aspetto e un fondamento essenziale del capitalismo.
Nella Prima guerra mondiale le popolazioni asiatiche e africane si erano schierate con le potenze dell’Intesa acquistando coscienza delle proprie capacità. Al termine del conflitto, specie in Asia e nel mondo arabo si annunciarono richieste di maggiore libertà e autonomia, quasi a compenso del contributo recato alla vittoria, mentre a favore dei Neri d’America e d’Africa si levarono dagli USA le voci del movimento panafricanista (➔ panafricanismo), iniziatosi al principio del secolo. Nella Carta della Società delle Nazioni si affermò, sia pure con una formula blanda, il principio che i governi coloniali dovessero «assicurare un equo trattamento agli indigeni» (art. 23), mentre l’art. 22 creò l’istituto del mandato, nei cui successivi sviluppi può scorgersi l’inizio concreto del processo di decolonizzazione. Già nel periodo fra le due guerre mondiali, con la fine del mandato britannico nel 1932 nacque l’Iraq quale Stato indipendente. Durante il Secondo conflitto mondiale – il cui svolgimento nell’Africa orientale, con la resa delle forze italiane, restituì l’indipendenza all’Etiopia (1941) – la stessa propaganda di guerra, esaltando i valori della democrazia e della libertà, nel cui nome gli Alleati combattevano, e la dichiarazione della Carta Atlantica (1941), affermando il diritto dei popoli all’autodeterminazione, suscitarono le speranze delle popolazioni coloniali la cui partecipazione al conflitto, con notevole contributo di uomini e di mezzi, accentuò le conseguenze psicologiche già avutesi nella Prima guerra mondiale, rinnovando l’aspirazione a un compenso sul piano politico.
Negli incontri internazionali preparatori dell’assetto politico internazionale postbellico, le istanze decolonizzatrici furono sostenute, con motivazioni e prospettive diverse, dalle due massime potenze mondiali, USA e URSS, e trovarono espressione nella Carta dell’ONU (1945): il cap. XI fissava i principi direttivi e alcuni precisi obblighi cui dovevano attenersi i governi che amministravano «territori non autonomi»: i capitoli XII e XIII creavano l’istituto dell’«amministrazione fiduciaria», il cui scopo era esplicitamente indicato nell’autogoverno o nell’indipendenza e la cui applicazione era prevista per i territori già sotto mandato, ed eventualmente per quelli sottratti agli Stati vinti e per quelli che le potenze responsabili volessero liberamente sottoporre al nuovo regime.
Sul piano giuridico, la nascita di questi nuovi Stati favorì, negli anni seguenti, l’adozione di solenni dichiarazioni di principi, quali la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali (1960). L’ingresso nell’ONU dei paesi di nuova formazione sancì la fine del predominio numerico degli Stati occidentali, l’acquisto della maggioranza nell’organo plenario dei paesi in via di sviluppo e l’esigenza di garantire una più equa rappresentanza degli Stati appartenenti alle differenti aree geografiche. Sulla spinta del processo di d. si formarono inoltre nuove aggregazioni, quali il movimento dei paesi non allineati (➔) e il gruppo dei 77 paesi in via di sviluppo, basate su fattori di carattere politico ed economico. Per parte loro, al crollo dei rispettivi imperi coloniali, i paesi europei reagirono in maniera differente: mentre il Regno Unito mantenne stretti legami economici con i paesi decolonizzati attraverso il Commonwealth (➔), altri paesi (Francia, Olanda e Belgio) tentarono di impedire il distacco delle colonie ricorrendo a repressioni militari.
La d. diede luogo alla nascita di Stati formalmente indipendenti e sovrani, ma ancora condizionati dal passato coloniale. Essi, specie in Africa, ereditarono i confini delle antiche colonie, che spesso non tenevano conto degli elementi geografici, sia fisici sia umani. Sono così risultati politicamente divisi territori unitari per motivi naturali o etnici, determinando coabitazioni forzate di gruppi umani diversi e rivali o un frazionamento di gruppi legati da storia e cultura comune e da economie complementari. In taluni casi le risorse hanno continuato a essere utilizzate dagli antichi dominatori o da altri paesi che si sono a essi sostituiti ( neocolonialismo). Vari tentativi di rinnovamento (per es., l’abbandono di colture agrarie di tipo speculativo o i cambiamenti di sede delle capitali) hanno rivelato la tendenza a una nuova organizzazione territoriale che rifletta la reale indipendenza dei paesi.
In Asia la d. precedette, nell’insieme, l’analogo processo nel continente africano. Nell’Asia mediterranea già parte dell’Impero ottomano, la Siria e il Libano conseguirono nel 1946 l’indipendenza. Nello stesso anno cessò il mandato britannico sulla parte della Palestina eretta nel 1923 in regno di Transgiordania; l’altra parte fu divisa nel 1948 fra il nascente Stato di Israele e la Transgiordania (dal 1949 Giordania). Nel 1967 la Gran Bretagna si ritirò da Aden e fu proclamata l’indipendenza dello Yemen del Sud (unificatosi nel 1990 con lo Yemen del Nord nella Repubblica dello Yemen). Nell’Asia orientale pervennero all’indipendenza nel 1946 le Filippine. L’India cessò di essere britannica nel 1947 con la nascita (15 agosto) dell’Unione Indiana a prevalenza indù, e del Pakistan, a prevalenza musulmana, Ceylon (Srī Lanka) e Birmania (Myanmar) dal 1948. Attraverso aspri contrasti e fasi di conflitto armato acquistò l’indipendenza nel 1949 l’Indonesia olandese. Ancora più drammatico il processo della d. nell’Indocina francese, dove solo dopo un aspro conflitto contro la Francia si giunse agli accordi di Ginevra (1954) che sancirono l’indipendenza di Cambogia, Laos e Vietnam, quest’ultimo diviso fino al 1975 in due Stati a diverso regime politico. Attraverso un graduale processo evolutivo acquistò l’indipendenza nel 1957 la Federazione malese, che dal 1963 con lo Stato di Singapore (poi erettosi in Stato indipendente, 1965) e i territori del Borneo settentrionale Sabah e Sarawak, formò la Malaysia. L’ammissione all’ONU nel 1971 del Bhutan segnò la completa indipendenza di questo Stato, le cui relazioni internazionali erano state curate prima dalla Gran Bretagna e poi dall’India; nel 1971, proclamarono l’indipendenza anche il Baḥrain, l’emirato del Qaṭar, la federazione degli Emirati Arabi Uniti, nel 1984 il Brunei. Rispettivamente del 1997 e del 1999 è il ritorno alla sovranità cinese di Hong Kong, già colonia britannica, e di Macao, ex colonia portoghese. Timor Est, ex colonia portoghese annessa nel 1975 dall’Indonesia, ha acquistato l’indipendenza nel 2002.
Nel continente africano la d. prese avvio con la decisione dell’Assemblea generale dell’ONU sulla sorte delle ex colonie italiane: la Libia divenne indipendente nel 1951 quale Regno federale; l’Eritrea fu unita nel 1952 all’Etiopia in forma federativa, ma poi privata di qualunque autonomia (avrebbe acquistato l’indipendenza nel 1993). Marocco, Tunisia e Sudan ottennero l’indipendenza nel 1956. Il primo territorio dell’Africa nera in cui giunse a compimento il processo di d. fu la colonia britannica della Costa d’Oro, che assunse il nome di Ghana (1957); con esso si fuse il Togo Britannico. Nell’Africa nera francese la strada verso l’indipendenza fu aperta dalla costituzione della Comunità Francese (1958), cui non aderì la sola Guinea; gli altri territori ebbero lo status di repubbliche autonome, ma poi, nel corso del 1960, ottennero l’indipendenza Senegal, Mali, Madagascar, Dahomey (attuale Benin), Niger, Alto Volta (attuale Burkina Faso), Costa d’Avorio, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Mauritania. Nello stesso 1960, che fu detto ‘l’anno dell’Africa’, conseguirono l’indipendenza la parte di Camerun meridionale amministrato dalla Francia, cui si unì nel 1961 quella amministrata dal Regno Unito; il Togo; il Congo belga, denominato Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo); la Somalia, cui si unì il Somaliland britannico; la Nigeria (cui si unì, 1961, il lembo settentrionale del Camerun). Dei territori britannici pervennero all’indipendenza nel 1961 la Sierra Leone e il Tanganica (dal 1964, unito a Zanzibar e Pemba, indipendenti dal 1963, Tanzania), e nel 1962 l’Uganda. Nel 1962, dal territorio del Ruanda-Urundi amministrato dal Belgio, nacquero i due Stati indipendenti del Ruanda e del Burundi. L’Algeria conquistò l’indipendenza con più lunga e drammatica lotta, protrattasi dal 1954 al 1962, quando la Francia ne riconobbe l’indipendenza. Anche in alcuni territori britannici la presenza di collettività europee restie a ogni concessione rese più contrastato il processo di d.: così il Kenya, dove il malcontento della popolazione africana si espresse nella sanguinosa rivolta dei Mau Mau, giunse all’indipendenza nel 1963. Ancor più tormentata l’evoluzione dell’Africa centrale, i cui territori nel 1953 erano stati riuniti in una Federazione, strumento della supremazia della popolazione di origine europea; nel 1964 si resero indipendenti il Nyasaland (con il nome di Malawi) e la Rhodesia del Nord (con il nome di Zambia); in Rhodesia del Sud la minoranza bianca proclamò unilateralmente l’indipendenza nel 1965 e solo nel 1980 poté nascere lo Zimbabwe. Il processo di d. nell’Africa britannica si completò con l’indipendenza di Gambia (1965), Bechuanaland (1966, col nome di Botswana), Basutoland (1966, col nome di Lesotho), Swaziland (1968). Nel 1968 pervennero all’indipendenza anche la colonia britannica di Maurizio e la Guinea Equatoriale.
Nel corso degli anni 1970 si compì la cosiddetta seconda indipendenza dell’Africa, conquistata dai territori già portoghesi con la lotta armata: nel 1974, Guinea Bissau, nel 1975 Mozambico, arcipelago di Capo Verde, São Tomé e Principe, Angola. Negli stessi anni ottennero l’indipendenza anche le isole Comore (1975; a eccezione di Mayotte, rimasta legata alla Francia), le Seychelles (1976) e la Repubblica di Gibuti (1977). Nel 1990, raggiunse l’indipendenza, dopo una lunga lotta, anche la Namibia (ex Africa del sud-ovest, colonia tedesca).
In America e Oceania, la d. ha riguardato territori con superfici ed entità demografiche esigue e solo in alcuni casi con importanza strategica o economica. Nell’America Centrale e Meridionale sono giunti all’indipendenza: nel 1962, Giamaica e isole Trinidad e Tobago; nel 1966, Guiana già Britannica e Barbados; nel 1973, Bahama; nel 1974, Grenada; nel 1975, Suriname (ex Guiana Olandese); nel 1978, Dominica; nel 1979, Saint Lucia, Saint Vincent; nel 1981, Belize (ex Honduras Britannico), Antigua e Barbuda; nel 1983, Saint Christopher-Nevis. Nell’Oceano Indiano: nel 1965, sultanato delle Maldive (repubblica dal 1968). Nell’Oceania: nel 1962, Samoa occidentali; nel 1968, Nauru, ex amministrazione fiduciaria dell’Australia; nel 1970, Tonga, Figi; nel 1975, Papua-Nuova Guinea; nel 1978, isole Salomone, già britanniche, isole Tuvalu, staccatesi (1975) dalle Gilbert, indipendenti dal 1979 con il nome di Kiribati; nel 1980, Nuove Ebridi, con il nome di Vanuatu.
Dei vasti domini coloniali di un tempo resta ben poco, ove si prescinda dai territori antartici, che, per il fatto di essere pressoché totalmente disabitati, non possono essere considerati alla stregua degli altri possedimenti. La Gran Bretagna amministra una dozzina di colonie (alcune con autonomia interna); la Francia amministra 9 tra dipartimenti e territori d’oltremare. Ai Paesi Bassi rimangono le Antille Olandesi (nel 1986 se ne distaccò Aruba). La Spagna conserva sulla costa del Marocco Ceuta e Melilla. Gli Stati Uniti amministrano 12.000 km2 di isole dell’America Centrale e dell’Oceania di cui quasi il 90% concentrato nello «Stato associato» di Porto Rico. Insoluta resta la questione del Sahara Occidentale (➔).