L’arte e la pratica di coltivare il suolo allo scopo di ottenerne prodotti utili all’alimentazione dell’uomo e degli animali e materie prime indispensabili per numerose industrie (cotone, lino, semi oleosi ecc.). In senso lato include anche l’allevamento del bestiame e la silvicoltura. Nello studio dell’a. si possono distinguere tre principali filoni di ricerca: il primo attiene alle condizioni dell’ambiente fisico che influiscono sulla produzione vegetale e animale, e comprende, tra le altre discipline, l’agronomia, la zootecnia, la silvicoltura; il secondo riguarda le finalità e le caratteristiche degli uomini operanti in a., studiate dalla sociologia rurale; il terzo concerne le azioni degli operatori e degli organi di Stato in relazione con le suddette condizioni e finalità, ed è proprio dell’economia e della politica agraria.
L’a. costituisce una delle fondamentali, più antiche e complesse manifestazioni dell’attività umana. La sua storia, che inizia circa 10.000 anni fa con il passaggio dalla raccolta dei prodotti spontanei della terra alla domesticazione di specie animali e vegetali selvatiche e, quindi, dall’allevamento nomade alla coltivazione e all’allevamento stanziali, può essere divisa in quattro stadi principali, ciascuno dei quali è contrassegnato da profonde innovazioni tecniche.
Il primo stadio è caratterizzato dallo sfruttamento del terreno fino all’esaurimento (e dal diboscamento nelle aree con popolazione relativamente densa), mediante l’impiego di strumenti manuali: dal bastone da scavo, alla zappa e alla vanga. Le principali colture praticate sono i cereali (frumento, miglio, orzo, mais, riso), leguminose da granella (fava, pisello, cece, lenticchia), alcuni ortaggi, nelle zone a clima temperato, e manioca, taro, igname nei climi tropicali.
Il secondo stadio inizia con il consolidarsi dell’attività stanziale di popolazioni che organizzano, su territori relativamente ristretti, le prime forme statuali. La necessità di provvedere, con poca terra, al fabbisogno di una popolazione in aumento porta all’intensificazione della coltivazione mediante sistemazioni del terreno e irrigazione.
Il terzo stadio si apre con l’invenzione dell’aratro trainato da animali, che determina una notevole riduzione del lavoro umano per unità di superficie coltivata e consente di accrescere sensibilmente l’estensione delle terre utilizzate. Per evitare un rapido declino della fertilità, si adotta il sistema dell’avvicendamento colturale discontinuo (una parte del terreno è coltivata e una parte è lasciata a riposo). Le arature consentono una maggiore profondità di lavorazione e rendono così possibile immagazzinare nel terreno l’acqua piovana, favorendo la valorizzazione dei concimi organici. Si diffondono il sovescio (interramento di piante erbacee per accrescere la fertilità del terreno), la potatura e la propagazione vegetativa degli alberi da frutto; si intensifica il trasferimento da alcuni territori ad altri di diverse specie vegetali.
Il quarto stadio, che dura tuttora, ha inizio nel 18° sec. in connessione con lo sviluppo della ricerca scientifica nei diversi campi, in particolare nella meccanica, nella chimica, nella genetica e nella biologia. Si perfezionano gli aratri tradizionali e se ne inventano nuovi tipi; si costruiscono le seminatrici, le mietitrici, le trebbiatrici, i trattori; nel 19° sec. la produzione di tali macchine esce dall’ambito aziendale per diventare un settore a sé stante. Dall’avvicendamento discontinuo si passa a quello continuo con l’introduzione delle foraggere. Viene intensificata la concimazione, dapprima utilizzando concimi naturali quali il letame e il guano, e successivamente realizzando una gamma sempre più ampia di fertilizzanti chimici, prodotti da imprese specializzate. Dopo la riscoperta dei principi mendeliani (1900) inizia una feconda applicazione delle conoscenze scientifiche sulla ereditarietà dei caratteri per la costituzione di nuove varietà di specie coltivate (varietà ibride) e di razze animali che consentono di elevare il reddito delle aziende agricole. Si diffonde la lotta contro i parassiti delle piante e del bestiame mediante presidi sanitari, e quella contro le erbe infestanti, attraverso i diserbanti. La lavorazione dei prodotti esce dall’ambito aziendale dando luogo dapprima a manifatture e poi a industrie non alimentari (lana, canapa, lino, cotone ecc.) e alimentari (conserve di carne, verdure, frutta, pesce ecc.).
Se la storia dell’a. si presenta, dal punto di vista della tecnologia, come un processo essenzialmente cumulativo di cognizioni scientifiche, differente è l’andamento dal punto di vista economico. Sotto questo aspetto si riscontrano fasi alterne con riferimento all’estensione delle superfici coltivate, all’intensità di coltivazione, alla dimensione aziendale, al tipo di gestione. E ciò in relazione principalmente alla dinamica della popolazione e dei settori di attività extra-agricoli, all’ampiezza dei mercati, al regime giuridico della proprietà. L’azione di questi fattori, che spesso operano congiuntamente, ha dato luogo al prevalere, di volta in volta, della grande o della media e piccola impresa, della conduzione diretta o di quella capitalistica, basata sul lavoro salariato, dell’a. estensiva, caratterizzata dall’ampliamento della coltivazione, o di quella intensiva, contraddistinta dal massiccio impiego di mezzi meccanici e chimici e di varietà migliorate. Dalla metà del 20° sec., tuttavia, anche a seguito della cosiddetta ‘rivoluzione verde’, l’a. intensiva si è affermata a livello mondiale dando luogo a una crescita senza precedenti della produzione agricola. In tal modo è stato possibile venire incontro, anche se in misura insoddisfacente, alle crescenti esigenze alimentari dovute all’esplosione demografica dei paesi in via di sviluppo, ma sono al tempo stesso sorti problemi di impatto sull’ambiente e sulle risorse, con risvolti di carattere politico ed economico sempre più importanti. Ciò è abbastanza chiaro se si analizza l’uso del suolo. La centralità dell’a. per i paesi in via di sviluppo, soprattutto per soddisfare i bisogni alimentari, è testimoniata dal continuo incremento delle terre coltivate. Nei paesi sviluppati, al contrario, le terre arabili sono in contrazione, mentre quelle irrigue restano stabili.
Il problema della sostenibilità. L’a. costituisce un’interfaccia diretta tra l’ecosistema e la società. Si tratta quindi di un’attività complessa, la cui valutazione non può essere effettuata in termini di semplice analisi costi/benefici. Se i bisogni alimentari dei paesi in via di sviluppo potranno essere soddisfatti soltanto incrementando ulteriormente la produzione agricola, occorrerà anche tener conto della sostenibilità dei processi produttivi che si fondano sull’utilizzazione di risorse naturali (il suolo, l’acqua, le risorse genetiche) rinnovabili ma limitate. Queste devono essere impiegate quindi in modo che il tasso di utilizzazione risulti minore di quello della loro ricostituzione.
L’a. è responsabile del 65% dei consumi idrici e sempre più spesso entra in conflitto con altri usi, in particolare quelli civili legati all’aumento demografico. Ciononostante, soltanto il 45% dell’acqua irrigua viene effettivamente utilizzato dalle colture; la parte restante viene perduta durante il trasporto, la distribuzione alle aziende, l’applicazione in campo. L’aumento dell’efficienza nella gestione delle risorse idriche in a. passa attraverso l’innovazione delle tecniche irrigue, la riduzione dell’inquinamento idrico, il riciclo delle acque reflue.
Anche il suolo costituisce una risorsa limitata. Soltanto l’11% delle terre emerse, infatti, risulta adatto all’a. senza miglioramenti apportati dall’uomo o ausili esterni come l’irrigazione. Inoltre, alcune riserve di terre coltivabili non possono essere messe a coltura essendo utilizzate per usi conservativi e forestazione. Anche nel caso del suolo l’utilizzazione intensiva porta a gravi rischi di degrado. Studi della FAO hanno messo in luce che su una superficie mondiale di 13.490,7 milioni di ettari di suolo, il 75,2% è degradato; in Europa la degradazione riguarda il 62,1% dei 680,6 milioni di ettari di suolo e in Italia il 79,5% dei 30,3 milioni di ettari di superficie. Nel mondo quasi 2200 milioni di ettari, pari a circa il 16% dei suoli, risultano compromessi dall’erosione (in Italia i suoli a rischio di erosione sono il 40%). Ogni anno vengono perduti 25 miliardi di tonnellate di suolo agricolo, e in termini di superfici da 5 a 7 milioni di ettari. Il rischio maggiore è rappresentato dall’erosione idrica (che interessa il 55% dei suoli), seguita dall’erosione eolica (28%). La perdita di fertilità dei suoli dovuta a scarso drenaggio, bassa capacità di adsorbimento degli elementi nutritivi, forte acidità, alto livello di ossido ferrico (che immobilizza il fosforo) e salinità riguarda il 44,8% della superficie dei suoli a livello mondiale, il 30,3% a livello europeo e il 15,5% a livello italiano. L’attività agricola (per es., con i danni strutturali conseguenti all’uso delle macchine agricole) accentua il degrado per il 10,7% della superficie dei suoli in Europa e per il 3,3% in Italia. La scarsa piovosità comporta il rischio di desertificazione per il 45% dei suoli a livello mondiale, 29,6% a livello europeo e 3,3% in Italia. Vi sono poi le risorse biologiche. L’aumento di produttività dell’a. negli ultimi 35 anni del 20° sec. (la ‘rivoluzione verde’) è dovuto soprattutto all’uso di nuove varietà geneticamente migliorate, il cui impiego tuttavia ha comportato la perdita di un gran numero di varietà genetiche locali (➔ agrobiodiversità). Si consideri inoltre che l’espansione dei suoli coltivati avviene spesso tramite la deforestazione, in seguito alla quale vengono perduti i sistemi biologici più ricchi del pianeta.
Di fronte a questo scenario, la via possibile è quella di una ‘nuova rivoluzione verde’ che miri a incrementare la produzione, ma in modo sostenibile. Tale obiettivo comporta una ricerca scientifica per le maggiori colture alimentari e industriali, ma anche lo sviluppo di sistemi integrati di ricerca. Interventi prioritari sono considerati la messa a punto di sistemi integrati per il nutrimento delle piante (IPNS, Integrated Plant Nutrition System), volti a ottimizzare la fertilità del suolo mediante l’uso combinato di diversi tipi di fertilizzanti, la lotta ai parassiti e alle fitopatologie delle piante mediante sistemi di lotta biologica integrata (➔ fitosanitario), l’uso di varietà resistenti a stress biotici (causati da virus, batteri, funghi patogeni e insetti e piante parassite) e a stress abiotici (causati, per es., da innalzamento termico oltre quello considerato normale nel periodo prima, durante o dopo la fioritura della specie coltivata, oppure da carenza idrica durante la germinazione, fioritura e allegagione dei frutti).
Uno strumento di grande potenzialità per la domanda d’innovazione tecnologica dell’a. è rappresentato dalla biotecnologia, la cui applicazione su scala globale non è tuttavia scevra di problemi, sia di carattere ambientale sia di tipo sociale ed economico. Per quanto riguarda gli aspetti ambientali, non si hanno sufficienti certezze in materia di biosicurezza, in particolare per quanto concerne le piante transgeniche. Sul piano economico e sociale, i problemi derivano dal fatto che le risorse genetiche, che rappresentano le materie prime per molte applicazioni biotecnologiche, sono concentrate nei paesi in via di sviluppo, dove sono state conservate spesso dai coltivatori. Di contro, la conservazione ex situ (➔ accessione) e l’industria biotecnologica sono concentrate nei paesi sviluppati, che rappresentano i maggiori beneficiari di questo settore.
Il commercio internazionale.Appare sempre più evidente che la causa prima della fame o della malnutrizione risiede non tanto nella mancanza di derrate, quanto in quella di un reddito sufficiente ad acquistarle, anche se in futuro l’incremento demografico e l’evolversi delle preferenze alimentari potrebbero rendere necessario un ulteriore aumento della produzione agricola mondiale. Il nodo cruciale è, tuttavia, il fatto che nei paesi poveri un aumento del reddito può derivare solo da un’a. più produttiva, giacché la maggioranza delle famiglie trae il proprio reddito dall’a. o da settori a essa strettamente collegati. Il legame tra sviluppo dell’a. e sviluppo economico è l’aspetto più importante del problema agricolo su scala mondiale. In linea generale quindi la sicurezza alimentare e il progresso economico dei paesi in via di sviluppo dipenderanno essenzialmente dal successo della loro agricoltura.
Il commercio internazionale è tra i fattori che influenzano maggiormente la produzione agricola e continua a essere dominato dai paesi più avanzati (Unione Europea, Stati Uniti), che rappresentano i maggiori mercati, tanto per l’esportazione quanto per l’importazione. Nell’ultimo decennio del 20° sec., il commercio internazionale è stato oggetto di mutamenti significativi generalmente indirizzati verso una maggiore liberalizzazione degli scambi. Sono stati siglati numerosi accordi commerciali, sia di natura regionale sia di carattere più generale, finalizzati all’abolizione delle barriere commerciali in diversi paesi. L’accordo di maggior portata è stato siglato all’interno del GATT (➔). La negoziazione in sede GATT aveva come obiettivo la riduzione delle barriere al commercio internazionale dei prodotti agricoli. L’a., infatti, rappresenta tradizionalmente il settore più protetto, con conseguenze che vengono subite, in particolare, proprio dai paesi in via di sviluppo a causa dei sussidi e delle barriere tariffarie applicati dai paesi sviluppati. Gli effetti negativi del protezionismo agricolo riguardano anche la produzione eccedentaria di molti paesi sviluppati che, immessa sul mercato internazionale, causa alterazioni dei prezzi riflettendosi negativamente sulla produzione dei paesi in via di sviluppo. Nell’ambito dell’Uruguay round l’a. ha avuto un posto di rilievo, ma le riduzioni tariffarie e dei sussidi applicate dai paesi sviluppati e la maggiore apertura alle esportazioni dei paesi in via di sviluppo sono state contenute. Gli impegni assunti in sede GATT nel 1994 sono riassumibili in tre tipologie: a) riduzione del sostegno interno accordato al settore agricolo; b) aumento delle possibilità di accesso delle importazioni al mercato interno; c) riduzione dei sussidi all’esportazione. La strada aperta dal GATT del 1994, tuttavia, è tuttora segnata da gravi difficoltà e l’abbandono del protezionismo sui prodotti agricoli appare ancora lontano, come dimostra il fallimento dei negoziati del Doha Round (luglio 2006). Questo ciclo di negoziazioni, avviato nel 2001, avrebbe dovuto dare vita a un accordo multilaterale sulla liberalizzazione degli scambi mondiali, ma si è arenato proprio sulle questioni relative alle politiche agricole a causa di resistenze e timori espressi tanto da paesi in via di sviluppo quanto da potenze economiche quali gli Stati Uniti e l’Unione Europea.
La negoziazione dell’accordo sul GATT, insieme a problemi interni soprattutto di bilancio, ha imposto all’Unione Europea una riforma della Politica Agricola Comune (PAC) e in particolare delle Organizzazioni Comuni di Mercato (OCM) di molti prodotti agricoli di base, quali i cereali, i prodotti lattiero-caseari, la carne bovina e altri. Più in generale, al fine di favorire la transizione da una economia agricola a una economia integrata, nonché di contrastare i fenomeni di impatto ambientale dovuti all’uso massiccio di fertilizzanti, fitofarmaci e macchine agricole, l’Unione Europea ha varato una politica di sviluppo per le aree rurali e una specifica politica agroambientale volta a favorire la diffusione di pratiche conservative delle risorse naturali utilizzate dall’agricoltura.
In questo quadro si collocano i profondi cambiamenti strutturali che hanno investito l’a. italiana. In linea generale è cresciuto il grado di modernizzazione del settore e con questo l’interdipendenza con altre componenti del sistema economico, con il sistema sociale e con quello ambientale. Da un lato quindi l’a. italiana si è integrata con altri settori formando un moderno sistema agroalimentare (➔), dall’altro si è assistito a un processo di differenziazione tra una a. più produttiva e intensiva, concentrata in aree limitate, e una a. estensiva che riveste anche un ruolo ambientale, sociale, culturale. Il dualismo tra l’a. produttiva e quella accessoria risulta chiaro se si pensa che, nel 1996, le aziende di più piccola dimensione erano pari al 50% circa del totale, ma non coprivano neanche il 5% della produzione agricola nazionale. Tale situazione si è leggermene modificata nel 2003 allorquando le aziende con dimensione inferiore a 2 ettari erano pari al 55% del totale e coprivano soltanto il 7,4% della superficie agricola utilizzata. All’a. intensiva si affianca dunque un’a. che riveste soprattutto un ruolo economico e sociale su scala locale, ma che è anche in grado di fornire prodotti alimentari tipici e di qualità, servizi vendibili come l’agriturismo (➔) e il turismo rurale, servizi non vendibili come la protezione dell’ambiente e del paesaggio. Si deve inoltre ricordare che l’abbandono dell’attività agricola nelle aree meno competitive, se non gestito, può divenire fattore di instabilità ambientale e di degrado del paesaggio. Le superfici agricole non sottoposte all’azione di manutenzione antropica sono soggette spesso a erosione e dissesto idrogeologico con perdita di risorse naturali come il suolo, del quale viene eroso lo strato fertile, o l’acqua, il cui deflusso non viene più regolato, o ancora come le risorse biologiche, nel caso di varietà vegetali e animali non più coltivate o allevate.
A. biologica Metodo che si contrappone a quelli tradizionalmente impiegati nell’a. intensiva, nell’intento di promuovere l’uso sostenibile delle risorse ambientali nel processo produttivo (suolo, acqua, biodiversità) e di produrre al contempo alimenti di qualità superiore, per il contenuto nutritivo di alcuni componenti (vitamine, sostanza secca, microelementi, zuccheri), per gli aspetti organolettici (serbevolezza), e per la maggiore salubrità (assenza di residui di fitofarmaci, basso contenuto di nitrati).
I metodi dell’a. biologica (detta anche, più correttamente, a. organica, in considerazione del fatto che ogni forma di a. è in sé biologica) sono stati messi a punto nel corso del 20° sec. in diversi paesi: in particolare si ricordano l’a. biodinamica (Germania, 1924), il sistema Howard-Balfour (Gran Bretagna, 1940), l’a. organico-biologica (Svizzera, 1945), il metodo Lemaire-Boucher (Francia, 1963).
Le basi tecniche dell’a. biologica consistono in una drastica riduzione degli interventi agronomici di maggior impatto ambientale (lavorazioni meccaniche, concimazioni e lotta antiparassitaria basate su prodotti chimici). Per l’applicazione di queste tecniche ci si avvale di una serie di innovazioni delle scienze agrarie e biologiche concernenti la difesa delle colture (➔ fitosanitario e biofabbrica), la genetica agraria e la biotecnologia. Proprio il rapporto tra salute e alimentazione è alla base della sempre più crescente attenzione dei consumatori verso i prodotti dell’a. biologica. In tal senso la diffusione degli alimenti dell’a. biologica è da correlare anche all’insorgenza di fenomeni di intolleranza alimentare. Per gli stessi motivi si è diffusa altresì la domanda di beni non alimentari (per es., tessuti) ottenuti dall’a. biologica.
L’Unione Europea ha varato una serie di provvedimenti legislativi volti a regolamentare l’a. biologica in modo uniforme per tutti i paesi dell’Unione e a incoraggiarne l’adozione da parte delle aziende agricole, in modo che queste possano ottenere la certificazione di qualità dei loro prodotti, garantendo così il consumatore.