L’insieme delle operazioni, semplici o complesse, attraverso le quali si produce un bene trasformando altri beni. Costo di p. Le spese sopportate per produrre, cioè il complesso dei beni e servizi che viene consumato per produrre altri beni o servizi (➔ costo). Fattore, mezzo o agente di p. Ogni bene che in qualsiasi modo concorra a un processo produttivo (➔ fattore) sia che si tratti di elemento insostituibile, la cui disponibilità finisce quindi per limitare la possibilità di p. di un bene (fattore di p. limitazionale o limitativo), sia che possa invece esser sostituito, tutto o in parte, da altro elemento (fattore di p. sostituzionale o sostitutivo). Unità di p. Ogni impresa, soprattutto con riferimento a un’astratta combinazione di fattori produttivi.
Per p. s’intende ogni attività che trasformi beni economici in altri aventi un’utilità complessiva maggiore, sia che l’attività stessa si traduca in trasformazioni tecniche della materia o della forma, distrugga cioè alcuni beni per crearne altri, sia che trasformi i beni nello spazio o nel tempo. Nel linguaggio economico il termine ha quindi un significato più largo che nel linguaggio comune e, oltre alle attività produttive propriamente dette (agricoltura, pastorizia, caccia, pesca, coltivazione delle miniere, industrie varie), comprende anche il commercio, la speculazione, il credito, l’assicurazione, i trasporti ecc. Secondo la distinzione di C. Clark, entrata ormai nell’uso comune, per p. primaria si intende quella agricolo-forestale, della pastorizia, della caccia e della pesca, e per p. secondaria quella delle industrie manifatturiere, edilizie e fornitrici di gas, elettricità ecc., e delle opere pubbliche; per estensione analogica si è chiamata quindi p. terziaria quella di tutte le altre attività economiche che pure possono assorbire capitali e mano d’opera (attività ricreative di vario genere, attività connesse al turismo, trasporti, servizi personali e domestici, arte, letteratura, scienza, professioni, pubblica amministrazione). Dal punto di vista individuale è p. ogni attività che consente a chi la svolge di recuperare il valore dei mezzi impiegati e di ottenere in più un utile, cioè un aumento della sua precedente capacità economica. Dal punto di vista sociale si ha p. soltanto quando ad attività conclusa risulti accresciuta la ricchezza a disposizione della collettività, e ciò si verifica sempre che si realizzi una diminuzione dei costi unitari di p. o perché diminuisce il costo totale, restando ferma la quantità prodotta, o perché aumenta quest’ultima a parità di costo totale, o perché la quantità prodotta aumenta più che proporzionalmente all’aumento del costo totale: quest’ultimo è il caso più frequente.
In ogni caso e qualunque sia l’ambiente politico-sociale in cui si svolge, la p. si attua mediante combinazione di agenti o fattori di p. già appartenenti al lavoratore o, per lo più, all’imprenditore, o acquistati sul mercato, e il suo risultato dipende dalla quantità e qualità dei fattori stessi disponibili, dallo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche e dall’organizzazione dei fattori dal punto di vista economico, ossia dall’organizzazione interna delle singole unità di p. e dal coordinamento delle varie unità. I vari fattori di ogni p. sono complementari, ma entro certi limiti possono in genere sostituirsi l’uno all’altro in quanto non si applica la legge delle proporzioni definite e molte combinazioni dei fattori produttivi sono tecnicamente possibili.
Tra le varie possibilità tocca al produttore scegliere quella più conveniente e non solo dal punto di vista tecnico, in base cioè alla relazione imposta dalla tecnica del momento tra quantità prodotta e quantità dei fattori impiegati (funzione della p. o equazione della tecnica, della fabbrica o della produttività), ma anche tenendo conto del prezzo dei fattori e del previsto prezzo del prodotto. Mentre la funzione della p. può assumere diverse configurazioni in base alla possibilità di sostituzione dei fattori produttivi, alla relazione fra produttività e scala della p. e al ruolo della tecnologia, il prezzo dei fattori e della merce prodotta dipende dall’andamento del mercato. Sulla base di questi elementi il produttore tende a realizzare il massimo beneficio e il suo problema soltanto astrattamente, per comodità di studio, può scindersi in due: problema tecnico, relativo alla combinazione dei fattori di p. capace di assicurare il massimo prodotto a parità di costo totale o lo stesso prodotto al costo totale minimo, e problema commerciale, relativo alla più conveniente dimensione da dare all’impresa e quindi al volume della p. che si vuole raggiungere. In concreto la scelta della combinazione dei fattori di p. da adottare è legata alla quantità che si vuole produrre e viceversa; a varie dimensioni dell’impresa corrispondono infatti, in genere, funzioni della p. diverse e la determinazione del volume di p. è fatta in vista delle possibilità di vendita e quindi connessa con il costo di p. che dipende dalla soluzione del problema tecnico. La scienza economica ha analizzato in astratto il problema del produttore, prospettando le varie combinazioni possibili e tra queste quelle tecnicamente indifferenti, da cui risulta la stessa quantità di prodotto (➔ isoquanto), e quelle economicamente indifferenti, che danno luogo allo stesso costo totale (➔ isocosto), in modo da giungere a individuare la combinazione più vantaggiosa, tenendo conto del vincolo tecnico, dei prezzi dei fattori produttivi e delle disponibilità finanziarie. La posizione di massimo beneficio (o di equilibrio del produttore) è quella determinata dall’uguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale (ossia tra costo marginale e prezzo) e dal livellamento delle produttività marginali ponderate dei singoli fattori di p. impiegati (➔ produttività). Oltre che dal punto di vista delle singole imprese, il problema dell’efficienza della p. è stato studiato anche con riferimento all’intero sistema economico.
La classificazione più diffusa dei regimi o sistemi di p. rispetto alla loro evoluzione è quella che distingue: a) la fase in cui unità di p. è il gruppo familiare, con o senza aggiunta di collaboratori esterni, e in cui si produce per il consumo del gruppo stesso, essendo nullo o scarso lo scambio (p. o economia naturale, p. o economia o industria domestica); b) la fase in cui si comincia a produrre per lo scambio, in genere su ordinazione, e l’imprenditore, pur avvalendosi di aiuti salariati o apprendisti, lavora egli stesso nell’impresa e utilizza, in prevalenza almeno, capitale proprio (artigianato, piccola impresa e anche arti e corporazioni di mestiere); c) la fase della lavorazione a domicilio, in cui si sviluppa la specificazione della p. e si accentua la separazione tra p. e consumo; d) la fase moderna o capitalistica, in cui il lavoro si svolge nelle fabbriche, i mezzi di p. appartengono a operatori diversi e si produce in serie e per il mercato. Si tratta di una classificazione approssimativa che non corrisponde a una rigorosa evoluzione nel tempo, dato che più forme possono coesistere e si verificano talora ritorni a forme più arretrate; d’altra parte essa non tiene conto dell’ordinamento della p. nei paesi a economia socializzata, in cui cioè i mezzi di p. non possono appartenere a privati. Inoltre riguarda soprattutto la p. manifatturiera, perché l’agricoltura ha un suo particolare sviluppo e così pure l’organizzazione del commercio, dei trasporti, del credito ecc. Tra le caratteristiche della p. nei paesi di tipo occidentale a economia mista, ricordiamo la progressiva concentrazione in grandi imprese e complessi economici, la creazione di multinazionali, l’intervento dello Stato, la raccolta di capitale presso il pubblico con emissione di azioni e di obbligazioni, l’autofinanziamento, la massima razionalizzazione del processo produttivo, l’aumento quantitativo e qualitativo dei prodotti, lo studio dei mercati per facilitarne il collocamento e il ricorso su larga scala alla pubblicità per influire sulla domanda e competere con le imprese concorrenti, la formulazione di piani di p. da parte delle singole imprese e di piani di coordinamento volontari o suggeriti dall’autorità anche nei paesi in cui la direzione della p. non è accentrata nelle mani dello Stato.
I fisiocrati, che furono i primi ad avere una visione organica del fenomeno della p., vivendo in un’epoca di prevalente attività agraria considerarono produttiva soltanto l’agricoltura e sostennero che il suo prodotto netto alimentasse tutte le altre attività attraverso lo scambio. A. Smith considerò produttive anche le attività manifatturiere e commerciali, pur assegnando al loro sviluppo una funzione strumentale rispetto a quella dell’agricoltura. Iniziata e ormai in pieno rigoglio la rivoluzione industriale, D. Ricardo pose invece l’accento sull’industria, vedendo nell’agricoltura la fonte di alimenti per la classe lavoratrice e considerando il basso prezzo di questi condizione essenziale per l’accumulazione del capitale e il conseguente accrescimento del reddito. Si può dire che la scuola classica nel suo complesso – comprendendo in essa anche K. Marx – abbia concepito la p. come un processo circolare che può semplicemente riprodurre se stesso ma che in genere tende alla formazione di un sovrappiù (o plusvalore, quando dall’economia naturale si passa a quella di mercato), ossia a un’eccedenza del valore del prodotto rispetto al valore dei costi sopportati per produrre (ricostituzione della forza-lavoro impiegata e dei mezzi di produzione adoperati). Dall’impiego improduttivo o produttivo che la collettività fa di questo sovrappiù deriva poi la stazionarietà o lo sviluppo; la distribuzione dello stesso tra gli agenti della p., oltre a creare gravi problemi sociali, ha il massimo rilievo ai fini appunto dell’accumulazione e dello sviluppo.
Questo problema del sovrappiù, centrale per i classici, scompare negli economisti neoclassici, i quali si preoccupano soprattutto di impostare e risolvere, nell’ambito di una visione statica, problemi di equilibrio parziale e generale, ed elaborano, ricorrendo anche a strumenti di calcolo infinitesimale, i concetti di utilità, costo e produttività marginali, usati nell’analisi microeconomica. La teoria neoclassica considera la p. come un processo economico che consente d’individuare i contributi specifici dei singoli fattori produttivi dietro ogni forma di reddito e sviluppa una teoria dell’equilibrio economico fondata sulla funzione della produzione. Essa suppone che gli scambi, cioè la domanda di fattori di p. (input) e l’offerta, cioè il prodotto (output), siano determinati in modo da massimizzare i profitti tenendo conto dei vincoli derivanti dalla funzione di produzione.
Un ritorno alle teorie classiche si è avuto con J.A. Schumpeter, il quale prese le mosse dal considerare il processo economico che riproduce se stesso per attribuire poi all’attuazione di innovazioni da parte degli imprenditori la rottura del flusso circolare e la messa in moto di un ciclo che è anche processo di sviluppo: il susseguirsi cioè di fasi di crescente prosperità, flessione e depressione che non riportano al punto di partenza, ma consentono di ripartire da un livello più alto con un movimento a spirale. Il contributo di J.M. Keynes alla teoria della p. va ricercato nell’analisi dei fattori macroeconomici, che determinano il grado di utilizzo della capacità produttiva del sistema. Nella teoria keynesiana, la relazione diretta fra occupazione di lavoro e livello della p. e del reddito reale, conseguente a certe ipotesi, conduce alla conclusione che il loro valore di equilibrio dipende dalla domanda globale. L’analisi keynesiana, in quanto imposta i problemi in termini macroeconomici, si ricollega pure ai classici e apre, nello stesso tempo, la via agli studi che, integrando e tentando di dinamizzare l’economia keynesiana, costituiscono il pensiero successivo.
Un ritorno esplicito alla tradizione di Ricardo e Marx è rappresentato poi, in altro senso, dal contributo di P. Sraffa che nella sua Produzione di merci a mezzo di merci (1960) espone uno schema di processo economico con sovrappiù svincolato dalla teoria del valore-lavoro e logicamente rigoroso, ma non riferibile a una determinata realtà sociale come quello dei classici. Un altro importante filone di ricerca sviluppatosi soprattutto dagli anni 1950, la cosiddetta teoria della dualità, facendo riferimento alle analisi di tipo econometrico, analizza il processo produttivo (costi e profitti) non partendo dalla funzione di p., cioè dal livello raggiunto dalla tecnologia ma, al contrario, partendo dall’analisi delle funzioni di costo e di profitto per giungere alla comprensione del livello tecnologico raggiunto.
Una problematica ampiamente affrontata nel corso degli ultimi decenni è rappresentata dalla intertemporalità delle scelte produttive legate alla valutazione dei rendimenti presenti e futuri e alle aspettative degli operatori economici riguardo alla probabilità del verificarsi delle previsioni. Uno strumento di analisi intertemporale è il modello fondi-flussi di N. Georgescu Roegen, nel quale sono considerati elementi «flusso» del processo di p. quelli che vengono in esso inseriti per essere trasformati, ed elementi «fondo» quelli che operano tale trasformazione. Crescente importanza hanno anche assunto gli studi finalizzati alla valutazione macroeconomica della funzione di p. aggregata (che trovano riferimento nelle tavole intersettoriali di W. Leontief) e alle analisi del fenomeno dell’innovazione e del progresso tecnologico e delle potenzialità di sviluppo produttivo.
L’espressione organizzazione scientifica della p. – che indica l’insieme dei processi e delle attività che utilizzano risorse per trasformare input in output – fu introdotta da F.W. Taylor tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e si riferisce prevalentemente alla fabbricazione e movimentazione di oggetti tangibili. Al posto di tale locuzione viene oggi spesso utilizzata quella di gestione delle operazioni (➔ operazione; gestione), che comprende anche contesti non manifatturieri e, in pratica, tutto il settore dei servizi.
Dopo aver definito gli input, il compito primario dell’organizzazione della p. consiste nell’assicurarsi che essi vengano immessi, movimentati e fatti uscire dal processo di trasformazione nei tempi giusti, con il minor costo e spreco possibile, e con il giusto livello di qualità. Per raggiungere questo obiettivo si deve progettare sia il sistema di organizzazione della p., sia il dettaglio delle attività di pianificazione e controllo della produzione. Le tecniche e gli strumenti finalizzati a tale obiettivo prendono in considerazione i diversi fattori della p.: il fattore naturale, costituito dai materiali che entrano nel ciclo di lavoro (studi sui metodi di fabbricazione, problemi di unificazione e progettazione, riduzione delle scorte); il fattore tecnico, costituito essenzialmente dai macchinari e dalle attrezzature necessarie alla p. (razionalizzazione dei cicli e di flussi di p.); il fattore umano (studi di razionalizzazione del lavoro sia tecnico sia amministrativo, e studi sulle interrelazioni organizzative tra le persone che fanno parte dell’azienda).
I sistemi di p. hanno subito una trasformazione (stimolata da un lato dalla diffusione delle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione, dall’altro dalla globalizzazione dei mercati) verso strutture a rete molto articolate, con una elevata capacità di adattamento a situazioni rapidamente variabili, una rilevante flessibilità interna, la capacità di gestire in modo appropriato la complessità dell’ambiente, dei compiti che devono essere svolti e delle nuove tecnologie che sono in grado di sostenere e facilitare l’esecuzione di tali compiti.
Reti di processi. I moderni ambienti di p. vengono definiti e analizzati come reti di processi. Le prestazioni (definite in termini di efficacia, efficienza, produttività, flessibilità, qualità ecc.) e la capacità di integrazione funzionale del livello tattico sono centrali in questo approccio. La gestione della qualità totale spesso non è altro che l’integrazione delle misure e della gestione di tutti i punti di verifica tipici delle reti di processi. La diffusione capillare degli strumenti informatici dagli anni 1990 ha provocato un rapido incremento qualitativo e quantitativo dell’informatizzazione e dell’automazione di tutti i settori di attività, una sempre maggiore disponibilità di dati e informazioni (spesso superiore alla quantità effettivamente utilizzabile) congiunta a una maggiore capacità di elaborarli e di diffonderli attraverso potenti sistemi di telecomunicazione. Si sono sviluppate le tecnologie di supporto alle decisioni e alla gestione, cambiando il modo di operare di addetti e utenti nei sistemi organizzativi.
Le dimensioni dei problemi affrontabili con metodi quantitativi sono aumentate drasticamente: la pianificazione della p. è gestita insieme alla distribuzione, riducendo costi di immagazzinamento e tempi di consegna; le diverse fasi della progettazione vengono affrontate simultaneamente in modo integrato riducendo i tempi di realizzazione; gli effettivi costi di p. vengono valutati a priori in sede di progetto riducendo i costi complessivi. Questa evoluzione dei processi di automazione industriale e dei servizi ha reso sempre più necessario l’uso di strumenti di rappresentazione e gestione basati su modelli e sulla simulazione. Tali approcci sono stati seguiti per gestire le interazioni tra i livelli tattico e operativo nell’ambito di strutture ben definite di articolazione delle attività e di gestione delle risorse; le strutture si sono andate via via evolvendo, in ciascun contesto aziendale, per variazioni incrementali, come sempre avviene nelle mutazioni di sistemi complessi. Dalla constatazione che storie diverse hanno portato a strutture diverse è nata l’idea di migliorare le prestazioni di processi funzionalmente analoghi nell’organizzazione del livello operativo (e quindi nell’interazione con quello tattico), emulando le strutture che si sono evolute in contesti aziendali con prestazioni migliori. Questo mutamento è avvenuto inizialmente nel settore manifatturiero, ma si è esteso presto alla produzione di software e alla fornitura di servizi. I livelli di queste prestazioni costituiscono valori da raggiungere indicati come bench-mark (➔), da cui il nome di benchmarking attribuito all’approccio di miglioramento per confronto, sopra delineato.
Autocoordinamento. In questo quadro di sistema di p. integrato, in cui spesso la capacità produttiva delle macchine consentirebbe di rispondere a nuove esigenze di mercato, anche se il modo in cui la fabbrica è configurata non consente di utilizzare economicamente tale possibilità, si è sentito il bisogno di tornare all’archetipo dell’officina e si è cominciato a concepire una fabbrica di agenti autonomi (ovvero di entità con capacità di decisione e di attuazione autonome) che si aggregano funzionalmente intorno a obiettivi produttivi mediante un processo di negoziazione in ambiente multidecisore, che utilizza strumenti tipici del mercato. Gli studi in questa direzione vanno sotto il nome di holonic manufacturing systems, autocoordinamento di agenti autonomi e, più in generale, intelligent manufacturing systems. I modelli di decisione tipici di questo nuovo contesto sono basati su alcune osservazioni fondamentali: l’informazione è strutturata dalle organizzazioni che la producono, non è mai disponibile tutta e subito, ma per fasi successive; la definizione degli obiettivi è data solo in modo molto generale, i singoli obiettivi hanno contorni fluidi ed evolvono nel tempo; le soluzioni possibili non sono definite solo in funzione degli obiettivi con tutte le alternative esplicitate fin dall’inizio; le soluzioni adottate sono funzione dei programmi sviluppati in precedenza, degli organismi che le propongono e che le gestiscono, dei centri di potere presenti, delle condizioni al contorno presenti al momento; le soluzioni da adottare si presentano in successione, in funzione degli elementi citati e del successo o fallimento apparente delle soluzioni adottate in precedenza; le decisioni non nascono solo da un calcolo costi-benefici rispetto a obiettivi definiti e con una gerarchia di decisori ben chiara, il modello è più vicino a quello di un gioco a più attori in cui ogni partecipante opera con criteri autonomi, mentre il ruolo dei centri decisionali e dei decisori più importanti è quello di influire sul meccanismo di presa di decisione e non di scegliere una soluzione imponendola a tutti. Chi ha l’incarico di attuare una parte delle decisioni prese non è detto che si allinei esattamente alla decisione presa da un altro decisore o da un gruppo: in effetti egli ha un notevole spazio di manovra e procede seguendo una strategia, modificando gli ordini ricevuti; il ruolo dei momenti formali di decisione da parte di gruppi formalmente nominati o di individui con posizioni ufficiali è integrato a monte da colloqui e riunioni informali fra diversi aggregati di attori, e a valle da interpretazioni della decisione presa, fatta da individui o gruppi coinvolti nella fase attuativa, ma con larga autonomia in termini sia di contenuti, sia soprattutto di tempi di attuazione.
Sistemi organizzati. Alcuni concetti fondamentali dell’ingegneria gestionale e dell’organizzazione assumono nel contesto dei sistemi di p. valenze specifiche. Un sistema organizzato è un insieme di elementi, caratterizzati in termini funzionali e in grado di trasformare risorse in ingresso in prodotti in uscita, e di relazioni fra essi; si osservi che le relazioni sono tanto importanti quanto le caratteristiche proprie di ogni elemento e il sistema è definito dall’interdipendenza delle varie parti, realizzata attraverso azioni di interazione, compiute dai singoli elementi.
Un’azione è un singolo intervento o un insieme coordinato di interventi, che modifica l’evoluzione del sistema organizzato; può essere compiuta da uno o più individui o gruppi e ha un valore soggettivo per ogni individuo o gruppo, funzione di quanto egli può guadagnare o perdere da quell’azione, al di là degli obiettivi specifici dell’azione. Tali guadagni o perdite possono non essere immediatamente tangibili (stima, potere ecc.) e sono spesso nascosti dietro gli obiettivi dichiarati. Un sistema di azioni è l’insieme dei processi di trasformazione e delle relazioni che legano i membri di un sistema organizzato e che servono a risolvere i problemi globali di fronte a cui si trova il sistema stesso. Si osservi che non tutte le relazioni sono previste dalla struttura organizzativa formale e sono definite dalle funzioni di trasformazione: molte regole informali sono necessarie al funzionamento del sistema, sono generalmente patrimonio di conoscenza collettivo dei membri dell’organizzazione e devono essere conosciute da chiunque voglia modificare il funzionamento del sistema.
Un attore è chi (individuo o gruppo) partecipa a un’azione avendovi interessi in gioco; in un sistema organizzato gli attori non sono dunque definiti a priori, ma in funzione dell’azione considerata; uno stesso gruppo può essere un attore unico o dividersi in più attori a seconda delle circostanze; un individuo, anche se al vertice della gerarchia, non è necessariamente un attore. Il potere è la capacità di un attore di mettersi in grado di far agire un altro attore. Esso quindi non è una conseguenza diretta della possibilità di imporre vincoli per il fatto di occupare una posizione gerarchica superiore; vi sono capi senza potere reale e individui o gruppi senza posizione gerarchica ma con grande potere. In un sistema organizzato, il potere è basato sulla competenza, la capacità di gestire le relazioni all’interno e con l’esterno, la capacità di gestire le comunicazioni e l’informazione, la conoscenza delle regole di funzionamento del sistema.
Ogni organizzazione è permanentemente soggetta a incertezze rilevanti di vario tipo (tecniche, commerciali, normative, umane, finanziarie ecc.) e chi è in grado di gestirle al meglio, grazie alle sue competenze e alla sua rete di relazioni e di comunicazioni, ed è quindi in grado di fare previsioni più attendibili, ha maggior potere. L’incertezza aumenta l’autonomia di decisione e di azione degli attori; poiché non è facile generalmente individuare con precisione i diversi elementi di incertezza, è spesso opportuno fare riferimento a zone di incertezza, per indicare quelle aree di intervento dove più facilmente potrebbe capitare qualcosa di imprevisto.
Le funzioni sono i compiti e l’autorità che l’organizzazione attribuisce formalmente a un individuo o gruppo, inclusi quelli di decidere e di comandare. La capacità di decidere e comandare può essere esercitata anche senza avere la funzione, grazie all’autorità o autorevolezza che può essere attribuita da alcuni individui e gruppi ad altri, indipendentemente dalla posizione gerarchica; la responsabilità è invece una funzione attribuita generalmente in modo formale a un individuo o gruppo ed è di tipo globale, in linea di principio nota a tutti gli attori: al conferimento di tale funzione dovrebbe sempre essere associato il conferimento dei mezzi adeguati a esercitarla.
La razionalità è la capacità di definire in modo coerente i fini e di adeguare i mezzi a tali fini; in un sistema organizzato non vi è mai una sola razionalità, poiché vi sono sempre molti modi per raggiungere gli obiettivi prefissati e più obiettivi sostanzialmente equivalenti; ogni comportamento considerato razionale si conforma in realtà generalmente a una razionalità solo parziale; dal confronto sul campo di diverse razionalità nascono spesso le dinamiche più innovative e proiettate verso gli assetti futuri.