Formulazione di un piano o programma.
P. urbanistica Organizzazione (detta anche p. territoriale) di tutti gli elementi del territorio (residenziali, produttivi, infrastrutturali) in connessione con le politiche di sviluppo economico, di cui promuove l’adeguamento degli effetti sullo spazio fisico ai principi di sostenibilità, di equità e di giustizia sociale. In Italia, la p. è disciplinata dalle legge fondamentale urbanistica n. 1150 del 1942. Dagli anni 1970, le funzioni amministrative in materia di p. sono state trasferite alle regioni. Lo strumento di p. più importante è il piano regolatore generale comunale, predisposto dal comune e approvato dalla regione. Tra gli strumenti di p. alla scala sovracomunale, solo pochi hanno dimostrato di possedere reale efficacia. Tra questi, introdotti dalla l. 431/85, il piano regionale paesistico e il piano territoriale regionale con valenza paesistica, due strumenti che esercitano un effettivo potere di normazione sulla p. locale.
I nuovi orientamenti della p. locale sono espressi dalla diffusione crescente del progetto urbano, un approccio secondo il quale la p. diviene la ricerca delle condizioni tecniche, economiche e sociali per integrare – in strutture urbanistiche coerenti e capaci di conferire identità ai luoghi – parti di territorio oggi divise e caratterizzate per funzioni prevalenti (la cosiddetta zonizzazione).
Complesso di interventi organici dello Stato realizzati sulla base di un piano pluriennale, al fine di stimolare e guidare lo sviluppo della produzione. Avviene sia attraverso una rigida regolamentazione di ogni settore della vita economica da parte dell’autorità centrale (già tipica dei paesi socialisti, detti appunto a economia pianificata), sia attraverso un sistema più flessibile di erogazioni, investimenti pubblici, incentivazioni fiscali e creditizie. Si parla di p. soprattutto per le economie collettiviste, riservandosi il termine programmazione per quelle dei paesi occidentali.
In economia aziendale, processo continuo con cui, in base a previsioni, si stabiliscono obiettivi e azioni per il raggiungimento di risultati.
I primi contributi a una teoria della p. si ebbero da parte di economisti liberali: per L. von Mises, l’ordinato svolgimento del processo economico richiede la soluzione del problema dell’efficienza, in qualunque contesto istituzionale (liberista o collettivista) si svolga, cioè che l’obiettivo prefissato sia raggiunto con il minimo impiego possibile di mezzi o che con i mezzi a disposizione sia raggiunto il massimo risultato. Perché le scelte siano effettuate in modo tale che il processo economico si svolga in maniera efficiente occorre che i mezzi a disposizione possiedano rigorosi indici di scarsità, in mancanza dei quali mancano le basi stesse della gestione efficiente del processo economico. Questi indici di scarsità relativa delle risorse sono i prezzi di tali risorse che si vengono a formare sul mercato concorrenziale. Poiché in un’economia pianificata non esiste il mercato, e quindi non esiste un meccanismo per rilevare la scarsità relativa delle risorse, manca in essa la possibilità di scelte razionali, per cui sarebbe possibile prendere solo decisioni arbitrarie e pertanto non è risolvibile il problema dell’efficienza.
A questa tesi fu contrapposta quella (1908) di E. Barone: se si ammette, come si dimostra nella teoria dell’equilibrio economico generale, che il meccanismo mediante il quale sul mercato si formano i prezzi sia esprimibile attraverso un sistema di equazioni, una volta noti i dati del problema, e cioè la disponibilità di risorse, lo stato della tecnica e i gusti dei consumatori, è possibile, almeno teoricamente, calcolare i prezzi senza ricorrere al mercato. Ma F.A. von Hayek e L. Robbins negarono la possibilità di realizzare un’economia pianificata a causa delle enormi difficoltà di calcolo che si sarebbero incontrate per il fatto che il sistema di equazioni nel quale si esprime l’equilibrio economico generale è così vasto da sfuggire a qualsiasi possibilità di calcolo effettivo, e perché, anche se tale calcolo fosse possibile, esso richiederebbe un tempo tale che durante la sua esecuzione i dati del problema sarebbero cambiati.
Le risposte a tali critiche hanno costituito la base per l’elaborazione della teoria della p.: O. Lange ritenne che in un’economia pianificata i prezzi potessero essere calcolati mediante un meccanismo sostanzialmente simile al mercato concorrenziale. Il mercato prefigurato da Lange è costituito da un insieme di unità di produzione di proprietà pubblica, con una notevole autonomia di decisioni nell’ambito di regole generali di comportamento prefissate, le stesse cui si atterrebbe un’azienda privata in un mercato perfettamente concorrenziale; M. Dobb affermò che il problema per il quale la p. si dimostra particolarmente efficace è l’accumulazione, cioè l’aumento delle risorse stesse. In particolare sostenne che, ai fini del problema dell’accumulazione, cioè dello sviluppo, la p. fornisce un meccanismo decisamente superiore al mercato, in quanto consente di coordinare a priori quelle decisioni d’investimento che altrimenti devono necessariamente essere coordinate a posteriori, cioè in base al sistema di valori espressi dal mercato.
Nell’Unione Sovietica piani quinquennali furono formulati a partire dal 1928 trascurando sostanzialmente il problema del calcolo economico, cioè dell’efficienza. Si ritenne preminente il problema di garantire la coerenza dei piani, nel senso che il livello della produzione di un settore non impedisse lo sviluppo di altri settori. Questo problema fu risolto con il cosiddetto ‘metodo dei bilanci materiali’, cioè in quantità e non in valore, schema molto approssimativo di quella che poi è stata chiamata analisi delle interdipendenze settoriali o modello di Leontief. Dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al soddisfacente livello d’industrializzazione raggiunto si pose la possibilità e l’esigenza di allargare la sfera del consumo e di operare una scelta tra gli investimenti possibili, sia quelli riguardanti il consumo finale (case, scuole, trasporti, sanità ecc.), sia quelli riguardanti più direttamente il tipo di sviluppo (industria leggera o pesante, viabilità, ricerche spaziali, armamento missilistico ecc.). Negli anni 1960 furono effettuati alcuni tentativi di riforma. Alcuni economisti sovietici, fra i quali il più noto è E.G. Liberman, sostennero la necessità di un ampliamento delle zone di mercato al fine di garantire le condizioni di efficienza per il sistema economico, ma questa tesi prevalse solo per breve tempo. Si ritenne infatti che il ripristino e la creazione di più ampie zone di mercato cui affidare il problema del calcolo economico avrebbero compromesso le possibilità proprie di una economia pianificata di decidere ex ante del tipo di sviluppo che sul piano politico si stabilisce di conseguire e che inoltre sarebbe stato inutile per una maggiore efficienza del sistema perché le moderne tecniche econometriche, statistiche e matematiche, nonché gli elaboratori elettronici, consentivano la soluzione rigorosa di ogni problema di calcolo economico e addirittura di realizzare in maniera efficiente un piano economico sia in una situazione nella quale tutte le decisioni sono prese in un’unica sede, sia in una situazione nella quale si realizzi un ampio decentramento delle decisioni. L’economia sovietica rimase rigidamente pianificata fino al crollo dell’URSS (1989).
Vanno segnalate anche altre esperienze di p. nei paesi a economia socialista: il tentativo operato in Iugoslavia di un maggiore coinvolgimento degli operai nelle decisioni interne all’impresa e in Ungheria lo sforzo volto a stimolare un rapporto biunivoco tra industriali e organi centrali.
L’organizzazione della p. dipende da dimensioni aziendali (aziende grandi assegnano permanentemente tale attività a gruppi di specialisti, le piccole la delegano a manager a vari livelli), decentramento (se esso è maggiore, maggiore è l’impatto economico della p.), filosofie manageriali (l’enfasi su problemi finanziari, utenza, fattore umano comporta una p. orientata rispettivamente a budget, qualità, gestione del personale), natura del prodotto (in ambiente pluriprodotto la p. ha maggiore rilevanza ed è svolta a livelli più bassi, in diretto contatto con mercato e attività operative).
Il piano, risultato del processo di p., indica anche le risorse per raggiungere gli obiettivi, i tempi ottimali di realizzazione, nonché punti e modalità di verifica dei risultati.
P. familiare Controllo responsabile dello sviluppo del nucleo familiare (ingl. family planning), ai fini del benessere della famiglia stessa, della comunità di cui essa direttamente fa parte e dell’intera società umana. Si basa sulla valutazione delle conseguenze biologiche, psicologiche, eugenetiche, demografiche, economiche e sociali della fecondità umana. Si realizza attraverso l’adeguata utilizzazione dei sistemi di controllo delle nascite (➔ nascita).