L’insieme delle misure tecniche, amministrative, economiche finalizzate al controllo e all’organizzazione dell’habitat urbano. Tre sono gli ambiti prevalenti di ricerca teorica e di applicazione pratica dell’u.: le analisi dei fenomeni urbani; la progettazione dello spazio fisico della città; la partecipazione ai processi politici e amministrativi inerenti le trasformazioni urbane. Se i primi due hanno come oggetto i caratteri materiali e le modalità d’uso della città, nella terza accezione l’u. viene vista come uno specifico campo di relazioni sociopolitiche in cui agiscono più soggetti: le forze politiche, gli amministratori locali, i tecnici, le rappresentanze sociali e sindacali, i mezzi di comunicazione di massa ecc.
Le prime definizioni sistematiche del campo teorico e applicativo dell’u. si hanno a partire dalla metà del 19° sec., negli anni in cui si afferma l’autonomia della nuova disciplina, sia pure a fronte di una pluralità, a volte contraddittoria, di significati e di contenuti professionali, ancor oggi non completamente risolta.
Denunciato da pamphlet e da campagne di stampa, il fenomeno degli slums – i quartieri degradati e malsani in cui si affollava la parte meno abbiente della popolazione urbana – si manifestò con tutta evidenza nella seconda metà del 19° secolo. La ‘questione delle abitazioni’ divenne uno dei grandi temi di dibattito pubblico, in Inghilterra, nelle altre nazioni europee interessate dai processi di industrializzazione e negli USA. Le statistiche rappresentavano un universo di vita dai caratteri ricorrenti: abitazioni sovraffollate, quartieri malsani, insufficienza e in certi casi assenza delle reti idriche e fognarie, crescenti problemi di trasporto. L’intervento della mano pubblica veniva invocato per porre rimedio a disfunzioni che appariva impossibile si potessero risolvere per via spontanea o attraverso l’iniziativa dei privati. In Gran Bretagna, il Public health act del 1875, stabilendo la delega di poteri effettivi alle amministrazioni locali, pose le basi per l’Artisans’ and labourers’ dwellings improvement act (1875) e l’Housing of the working classes act (1885), provvedimenti che identificavano nelle autorità pubbliche locali il soggetto responsabile per la promozione delle condizioni abitative dei ceti sociali più poveri.
La Germania guglielmina fu tra i primi paesi ad affrontare in maniera diretta le questioni urbane nei regolamenti edilizi di polizia della prima metà del secolo e mediante la «legge sull’allineamento dei fronti edilizi» (1875). I dispositivi operativi a cui ricorsero gli organi tecnici e amministrativi pubblici rimandavano a diverse competenze specialistiche – statistica, economia, igiene, diritto amministrativo, ingegneria edile e dei trasporti, architettura civile, arte dei giardini – che un processo di lunga durata aveva selezionato come le più idonee a penetrare la complessità dei fenomeni urbani.
Un’importanza particolare assunsero le nozioni di carattere economico e giuridico, che divennero lo strumento privilegiato attraverso il quale esprimere la volontà del soggetto pubblico. Di fronte al mutato quadro di interessi si indebolirono progressivamente il ruolo e l’autonomia del disegno dello spazio fisico. Si ampliò il repertorio dei modelli e delle soluzioni (i boulevards, il Ring, i giardini pubblici ecc.), ma in quanto le complesse strategie urbane promosse dalle amministrazioni pubbliche e dagli investitori privati richiedevano un repertorio progettuale sempre più sofisticato, flessibile e adattabile. Rendendo più acuto lo ‘sguardo’ sulla città e rafforzando le connessioni tra conoscenza e istanze di governo, lo spazio urbano del 19° sec. denuncia i limiti di un sapere molteplice e non strutturato in un corpus unitario e coerente, postulando, di conseguenza, l’esigenza di sintesi nuove.
La costituzione dell’u. in quanto disciplina autonoma è il risultato di un insieme di ricerche teoriche e di pratiche che si susseguono lungo un arco di tempo di circa 50 anni. Nel 1867, l’ingegnere-architetto spagnolo I. Cerdá, con la pubblicazione della sua Teoria generale de l’urbanización, intese attribuire statuto scientifico a una materia «nuova, intatta e vergine» a tal punto da richiedere l’invenzione di un neologismo (appunto, urbanización). Tra il 1870 e il 1914, furono definiti sia il repertorio degli strumenti analitici, progettuali, legislativi e normativi della prassi urbanistica, sia la struttura organizzativa e il modus operandi dei tecnici responsabili dell’uso di questi strumenti. I luoghi ove tale processo si compì furono molteplici: gli uffici delle municipalità, le amministrazioni pubbliche e private di erogazione e gestione dei servizi, le società per lo sviluppo delle abitazioni popolari.
L’orientamento alla pratica, che distingueva le funzioni e le attitudini professionali richieste in questi diversi contesti, determinò non solo le caratteristiche interne al nuovo sistema di competenze, ma influenzò profondamente i meccanismi di formazione e di diffusione della cultura urbanistica. Prima ancora dei corsi e delle scuole specializzate, fondamentali a tale fine furono i manuali redatti da autori come R. Baumeister (1876), J. Stübben (1890), R. Ebestradt (1909). L’insieme delle prescrizioni relative all’intervento sulla città, e in particolare le norme che ne avrebbero dovuto regolare l’ampliamento, furono riunite in un testo unico che iniziò a essere definito piano. Il piano di espansione di J. Hobrecht per Berlino (1862) e in generale i piani di ampliamento e di costruzione, elaborati dagli uffici tecnici delle città tedesche, gli interventi di G.-E. Haussmann a Parigi (1852-1870) e il progetto per la Ringstrasse di Vienna (1857) costituiscono alcuni esempi di un dispositivo che si esprime nel disegno delle strade e dei lotti edificabili, nei criteri di allineamento, nelle prescrizioni igieniche e nelle norme edilizie.
Alla fine del secolo testi come quelli di C. Sitte (1889) e C. Buls (1893) interpretarono l’esigenza diffusa di comprendere nel disegno della città, oltre alle istanze della tecnica, quelle dell’estetica e della composizione urbana. Ma sempre più chiara, nel dibattito dell’epoca, apparve la necessità di superare i limiti delle proposte parziali e di definire uno strumento complessivo e unitario, un «piano di sviluppo per la città moderna», basato, come vuole P. Geddes, su una estesa analisi scientifica preliminare della realtà.
L’Esposizione internazionale organizzata a Berlino nel 1910, a ridosso del concorso per il piano della Grande Berlino, rese esplicita proprio la nuova tendenza a considerare la città come un insieme unitario, a impiegare in modo contestuale e sistematico i diversi apporti scientifici, a ricondurre all’interno di un piano d’insieme, esteso all’intero perimetro urbano, le previsioni relative alle aree edificabili, alle reti di trasporto, alle zone ricreative, alle aree verdi. La risposta che si tendeva a dare ai ‘mali’ della città rifuggiva ormai dalle utopie urbane ottocentesche che pure avevano trovato spazio nelle proposte di C. Fourier, R. Owen ed E. Cabet. Anche la teoria elaborata da E. Howard nel suo libro To-morrow: a peaceful path to social reform (1898), apparentemente improntata a una ideologia antiurbana, suggeriva nella pratica il meccanismo economico che rendesse possibile la costruzione di un nuovo habitat urbano. La città-giardino di Letchworth (1904-09) e il sobborgo di Hampstead (1905-09), realizzati da B. Parker e R. Unwin, ma soprattutto la diffusione della tipologia insediativa del quartiere-giardino in Inghilterra e in altri paesi europei, dimostrarono che i principi della casa unifamiliare nel verde e della bassa densità potevano essere applicati nel progetto di espansione urbana, divenire l’elemento costitutivo delle nuove periferie.
Il problema di dare alloggio a imponenti masse di popolazione operaia concentrata in città, che si pone alle basi stesse della nascita dell’u., accentuato dalla crisi del primo dopoguerra, trovò diverse soluzioni, risposte formalmente articolate, comunque corrispondenti a una sostanziale esigenza di igiene, di comfort, di accessibilità in termini economici e fisici alla casa. Le Siedlungen di E. May a Francoforte (1927-30), di B. Taut a Berlino (1925-31), di W. Gropius a Dessau (1926-27) e a Karlsruhe (1927-28), i Höfe viennesi (1919-34) o i quartieri d’abitazione della periferia parigina di M. Lods e E. Beaudouin (1931-34), furono i luoghi in cui si realizzò una sperimentazione complessa che riguardava insieme la gestione urbana, le forme architettoniche, le tipologie edilizie e insediative, i materiali e le tecniche costruttive, la selezione e l’organizzazione dei servizi, i rapporti tra altezze, distanze e orientamento degli edifici, il dimensionamento minimo dell’alloggio e, più in generale, la definizione di standard abitativi ottimali.
Rispetto a questa sperimentazione diretta nella pratica, altre ricerche si orientarono verso la definizione di nuove ‘immagini di città’, alternative a quella esistente, verso nuovi modelli insediativi che affermavano la loro modernità nella radicale differenza rispetto alle forme del passato. Nei suoi progetti per la Ville contemporaine de 3 millions d’habitants (1922), per il Plan voisin (1925), per la Ville radieuse (1930), Le Corbusier propose l’invenzione di una città rigorosamente impostata su un sistema articolato di percorsi differenziati a più livelli e su pochi grandi edifici, veri ‘grattacieli cartesiani’ totalmente immersi nel verde. F.L. Wright nel progetto per Broadacre city (1934) risolse l’antitesi tra campagna e città con la dissoluzione di quest’ultima e con una diffusa urbanizzazione del territorio. La città-lineare, già ideata da A. Soria y Mata alla fine del 19° sec., nelle proposte più radicali dei disurbanisti sovietici come N.A. Miljutin e nel piano di Magnitogorsk (1929) divenne lo strumento spaziale teorico attraverso il quale apparve possibile organizzare razionalmente la produzione alla scala del territorio, sopprimere le differenze tra contesto rurale e urbano, promuovere l’eguaglianza sociale.
Alla fine degli anni 1920 molte delle esperienze condotte dall’avanguardia europea confluirono nei CIAM (➔) che hanno avuto un ruolo fondamentale nella formulazione dell’u. funzionalista. Mettendo in comune le varie esperienze e i contributi degli specialisti, si ponevano le basi per un’u. scientifica e universale, fondata su un linguaggio convenzionale di segni e su un metodo unico di lavoro, concentrata sulla sequenza analisi-previsione-dimensionamento-organizzazione del piano secondo le quattro funzioni della città razionale: l’abitazione, il lavoro, lo svago, la mobilità. A ridosso del CIAM del 1933, durante il quale si posero le basi della Carta d’Atene (➔), fu completato il piano generale di espansione di Amsterdam (1934), che fu poi realizzato, in gran parte nel dopoguerra, sulla base di piani particolareggiati specifici. Questo piano, a lungo considerato un esempio dell’u. dei CIAM, è in realtà la sintesi eccezionale tra i nuovi approcci scientifici della disciplina e una tradizione urbanistica, ricca e singolare, come quella olandese.
Al termine della Seconda guerra mondiale, l’ampiezza delle distruzioni belliche creò le premesse per interventi che modificarono radicalmente lo scenario urbano europeo. La ricostruzione di città come Francoforte, Berlino, Rotterdam, Le Havre, Coventry permise di sperimentare ipotesi teoriche e soluzioni tecniche fino a quel momento rimaste sulla carta. In Gran Bretagna, il dibattito sulla ricostruzione ebbe inizio già nel 1941, nel quadro di un’iniziativa governativa tesa a rafforzare il ruolo leader della nazione inglese nella lotta ai regimi totalitari. Un’ampia produzione legislativa, tra il 1943 e il 1947, definiva l’assetto dei poteri necessari per procedere alla ricostruzione delle zone urbane danneggiate dagli eventi bellici e alla creazione di ampie fasce di verde intorno alle città. Il piano per Londra di P. Abercrombie (1944) è la testimonianza più compiuta di questo approccio alla tematica urbana, che, nel 1946, con il New Towns Act si arricchì del più importante e radicale progetto di decentramento sperimentato nel secondo dopoguerra.
Gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale mostrano le prime riflessioni critiche sull’efficacia dell’urbanistica. La vastità delle distruzioni, l’enorme domanda di abitazioni, la necessità di agire con rapidità portarono, specie nei programmi promossi dalle amministrazioni pubbliche (per es., in Gran Bretagna e in Francia), all’applicazione burocratica di formule e schemi insediativi desunti dalla tradizione modernista. I partecipanti più giovani agli ultimi CIAM, e in particolare il gruppo Team 10, si distinsero nella critica all’‘u. della burocrazia’, che divenne ben presto denuncia dei limiti dell’‘u. universale’ della Ville radieuse e della Carta d’Atene. La polemica fu condotta in nome del contrasto tra la rigidità dei nuovi quartieri di abitazione e le pratiche di vita degli abitanti, dei nuovi orientamenti culturali desunti dalle scienze sociali, di una maggiore attenzione ai significati degli spazi storici. Questi argomenti si ritroveranno, negli anni successivi, alle origini di ‘programmi di ricerca’ e di ‘stili di piano’ altrimenti espressione di opposte visioni della città, le une volte all’esaltazione della tecnologia come catarsi del disagio esistenziale nelle grandi città, le altre tese a riannodare il filo di una continuità storica interrotta dal ‘movimento moderno’. 3.3 I modelli di Tange e Rossi. Nell’attività del gruppo giapponese Metabolism e di K. Tange la città fu concepita come un insieme di grandi strutture tecnologiche dalle illimitate possibilità di crescita. Depurate dalle istanze retoriche di partenza, le ‘megastrutture’ di K. Tange diventarono gli archetipi formali dei grandi insiemi unitari di palazzi per uffici e di centri commerciali, realizzati negli anni 1960 e 1970, che dettero un volto del tutto nuovo alle aree centrali di Bruxelles, Londra, Francoforte ecc.
Con la pubblicazione dell’Architettura della città (1966), A. Rossi propose un approccio del tutto diverso alla critica della città costruita dalle grandi corporazioni immobiliari e finanziarie nelle aree di maggior pregio e dagli uffici urbanistici delle municipalità in periferia. Divenuto nel tempo uno dei manifesti della nuova cultura urbana, il testo di Rossi ritrovava nello studio dei caratteri della città esistente – nell’analisi morfologica e nell’identificazione dei tipi architettonici – le conoscenze necessarie alla costruzione della città e dell’architettura. La radicalità con la quale tali assunti si distaccavano dalle prassi correnti era altrettanto forte di quella delle utopie tecnologiche degli anni 1960, ma le ricerche di A. Rossi, V. Gregotti, R. Krier, B. Huet si prestavano meglio a una traduzione in termini operativi, favorita da un sempre più diffuso sentimento che opponeva la qualità e la gradevolezza della città storica all’anonimia delle periferie costruite secondo i dettami dell’u. moderna.
Preceduta dall’importante esperienza del recupero del centro storico di Bologna, testimonianza concreta delle nuove tendenze dell’u. europea, l’IBA (Internationale Bauanstellung), la grande mostra di architettura urbana tenuta a Berlino tra il 1984 e il 1987, prevedendo anche la realizzazione di un capillare piano di interventi edilizi, fu l’avvenimento emblematico di una tendenza, non solo culturale. Il recupero dell’‘isolato’ berlinese come unità di misura dell’insediamento urbano fu la soluzione che consentì di ricomporre il tessuto storico della città del 19° sec. a Kreuzberg, Tegel, Friedrichstadt. La ritrovata continuità con la città dell’Ottocento significò, per certi versi, la riscoperta della fertilità dell’u. delle ‘origini’: la costruzione per parti, il valore dell’‘estetica urbana’, l’importanza della connotazione simbolica dello spazio fisico in contrapposizione alla logica dell’economia e della normazione giuridica. L’esperimento condotto dall’IBA trovò eco nel programma elaborato dalla municipalità di Barcellona in vista dei Giochi olimpici del 1988. Le autorità barcellonesi si distaccarono dalle tradizionali prassi di piano e dettero luogo a una capillare ‘microurbanistica’ degli interstizi e delle lacerazioni urbane, risanati e riorganizzati formalmente e funzionalmente all’interno di ‘progetti d’area’, per dimensioni e caratteristiche non dissimili dai vecchi piani di abbellimento della fine del 19° secolo.
La ‘lezione’ di Barcellona è divenuta uno dei riferimenti più influenti nel processo di riformulazione delle politiche per la città avviato nei diversi paesi europei, anche in seguito ai pronunciamenti dell’Unione Europea sui temi dell’ambiente urbano e dello sviluppo sostenibile. Meno strutturato appare lo ‘sguardo’ che gli urbanisti rivolgono ai nuovi fenomeni della dispersione urbana: le grandi distese di abitazioni, attrezzature pubbliche, insediamenti produttivi, centri commerciali che coprono, senza apparente soluzione di continuità, gran parte delle aree più sviluppate del territorio europeo. Da un lato la ricerca disciplinare torna all’impiego delle metafore organiche o alla sperimentazione delle nuove opportunità promesse dall’avvento dell’economia digitale, dall’altro le autorità pubbliche moltiplicano gli strumenti di piano, territoriali e settoriali, nel tentativo di circoscrivere fenomeni che non sembrano avere più una dimensione stabile nel tempo.
Sullo sfondo, le nuove frontiere tracciate dall’evoluzione dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata postulano una crescente domanda di governo delle trasformazioni urbane e territoriali, alla quale, per il momento almeno, nessuno pare essere in grado di rispondere adeguatamente.
In Italia, la materia dell’u. finisce per risolversi in un complesso di norme destinate ad assicurare il governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, in funzione della tutela dello stesso, esposto altrimenti a pregiudizio da condotte produttive di alterazioni a danno del benessere della collettività e delle sue attività. Attualmente è disciplinata dal d.p.r. 380/2001, così come modificato dal d. legisl. 301/2002. Sotto il profilo penale l’art. 44 del d.p.r. del 2001 ha recepito le disposizioni della l. 47/1985 confermando le 4 ipotesi di contravvenzione ivi previste: l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dallo stesso d.p.r., nonché da regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire (art. 44, lett. a); la costruzione in totale difformità o assenza di permesso di costruire, nonché la prosecuzione dei lavori dopo l’ordine di sospensione degli stessi (art. 44, lett. b); la lottizzazione abusiva (art. 44, lett. c, I parte); gli interventi edilizi nelle zone sottoposte a un determinato tipo di vincolo (art. 44, lett. c, II parte). Risponde di tali reati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore e il direttore dei lavori. Essendo contravvenzioni, ai fini della loro punibilità è sufficiente anche un atteggiamento psicologico colposo. Più in dettaglio, risponde del primo reato chi esegue lavori di costruzione senza osservare le norme, le prescrizioni e le modalità esecutive previste dalle norme del decreto, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire. Condizione essenziale del reato è l’esistenza di un permesso a costruire. La condotta penalmente rilevante può, infatti, consistere nell’inosservanza, durante l’esecuzione dell’opera oggetto del permesso, delle disposizioni previste dalle fonti normative sopra citate. Si configura il reato di cui alla lettera b dell’art. 44 quando l’agente esegue dei lavori in totale difformità o in assenza del permesso o di prosecuzione dei lavori dopo la notifica dell’ordine di sospensione dei lavori stessi. L’art. 31 del d.p.r. specifica che sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso, per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione, da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza e autonomamente utilizzabile. La terza ipotesi di reato ha luogo nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dal primo comma dell’art. 30. Quest’ultima disposizione stabilisce che si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengano iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali, o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione e in rapporto a elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. Infine, l’ultima figura di reato prevede il caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso. Per tutti questi reati si procede d’ufficio e la competenza è del tribunale in composizione monocratica.