In biologia molecolare, la produzione, mediata dai ribosomi, di un polipeptide la cui sequenza di amminoacidi è derivata dalla sequenza di codoni di una molecola di RNAm (➔ proteine).
Conversione delle istruzioni tra linguaggi di programmazione di tipo diverso, per es. da linguaggio assemblativo a linguaggio macchina, eseguita da un programma di servizio facente parte del sistema operativo di un calcolatore. Di solito si riserva la denominazione di traduttori ai programmi che operano come interpreti tra linguaggi allo stesso livello, preferendo chiamare compilatori quelli che operano t. fra linguaggi di livelli diversi (tipicamente da un linguaggio a più alto livello a uno a più basso livello).
L’azione, l’operazione e l’attività di volgere da una lingua a un’altra un testo scritto od orale.
La t. si presenta come un caso speciale di un’attività più vasta, che consiste nel trasferimento di senso da una forma in un’altra e nella riformulazione di un messaggio. La t. si rende necessaria per superare un ostacolo alla comprensione. Tale ostacolo può essere costituito da una lingua sconosciuta, ma anche da parole sconosciute della propria lingua, da uno stile complesso o arcaico o involuto, da un codice ignoto. Affinché la comunicazione si stabilisca, serve allora che qualcuno o qualcosa riproduca il messaggio in modo tale che possa essere compreso dal destinatario.
Il linguista e semiologo R. Jakobson è autore di un’ormai classica tripartizione: la t. fra due lingue verbali umane (interlingual translation), o t. propriamente detta; la t. che avviene all’interno della medesima lingua (intralingual translation), o riformulazione; la t. intersemiotica (intersemiotic translation), detta anche trasmutazione, che ha luogo fra codici semiotici differenti, di cui almeno uno non verbale (per es., nella trasposizione cinematografica, pittorica, musicale di un testo letterario). Per secoli la specificità della t. interlinguistica è stata individuata nel trasferimento del significato dall’involucro di una lingua in quello di un’altra, senza nulla togliere e nulla aggiungere: sarebbe questa la t. fedele. L’aspirazione a un ancoraggio fermo ha indotto inoltre ad attribuire un valore di sicurezza alla t. detta letterale, cui l’unità di misura della parola conferirebbe un valore oggettivo. L’opposizione t. letterale/t. a senso è dicotomia ricorrente nella storia del pensiero relativamente alla t.; a questo proposito, già s. Girolamo, nell’Epistola LVII ad Pammachium composta alla fine del 4° sec., rigettava il metodo della t. parola per parola, fonte di goffaggini, astrusità e controsensi, preferendo un metodo di t. fondato sul senso. Alla corrispondenza parola per parola, talvolta addirittura morfema per morfema, come capita di rilevare in molti volgarizzamenti medievali, si contrapposero metodi di t., prediletti in certe epoche e in certe culture, come quella neoclassica francese, che lasciavano o richiedevano al traduttore una grande libertà. Nasce proprio nella Francia del 18° sec. il mito delle ‘belle infedeli’: la fedeltà al testo di partenza diventa sinonimo di ineleganza, contorsione, goffaggine, rozzezza e denota in chi la persegue una debolezza d’arte e d’ingegno. Gli idealisti e i romantici tedeschi del secolo seguente, intrisi di un profondo senso della storia e delle peculiarità distintive di ogni singolo prodotto dell’arte e della scienza, condannarono però le belle infedeli come anacronistici travestimenti di ciò che è irrimediabilmente altro da noi. L’opinione corrente secondo cui bisognerebbe tradurre come se fosse l’autore dell’originale medesimo a scrivere direttamente nella lingua del traduttore viene respinta come vuota e inconsistente. Nessuno, infatti, può sapere che cosa una persona avrebbe scritto, se fosse nata e cresciuta nell’epoca, nella cultura e con la lingua del traduttore, e ancor meno come l’avrebbe scritto. Così la vera essenza e il valore positivo della t. sono individuati nell’esperienza della distanza che separa il traduttore e il lettore dal testo originale. Le t. ispirate ai principi romantici si rivelarono però spesso di non facile lettura, al punto che la critica ai risultati finì con il coinvolgere le idee da cui muovevano.
L’antica funzione rassicurante di ancoraggio che si suole attribuire alla t. letterale si scorge anche dietro i primi tentativi di t. automatica condotti negli Stati Uniti a partire dagli anni 1950. Il presupposto teorico è ancora una particolare visione del linguaggio umano, secondo cui sarebbe possibile separare perfettamente il significato dall’elemento sensibile che lo veicola, dal segno in cui s’incarna (parola, frase, testo) e rivestirlo di una diversa forma senza pregiudizio alcuno della sua integrità. Sarebbe allora possibile procedere, schematicamente, nel modo seguente: box→‘scatola’→scatola e viceversa, dove ‘scatola’ è la rappresentazione concettuale che funge da cerniera fra i due segni linguistici.
Gli studi avviati in Europa già a partire dal 19° sec. sui rapporti fra lingua, pensiero e realtà, ma soprattutto la semiotica, la linguistica, la filosofia del linguaggio, la teoria della letteratura e, successivamente, la teoria della t. hanno progressivamente minato questa antica concezione del tradurre sia sul versante teorico sia su quello della descrizione fenomenica. La linguistica e la semiotica strutturali hanno affermato che il significato di ogni segno linguistico è determinato dalla funzione che esso svolge all’interno del sistema, vale a dire che ogni segno, da un lato, è delimitato dall’insieme degli altri segni compresenti nel codice che l’utente adopera, dall’altro è definito dall’insieme dei suoi usi possibili. Pertanto, poiché il segno box riceve il suo autentico valore dalla rete dei rapporti che intesse con tutti gli altri segni del codice lingua inglese, sia sul piano del sistema sia sul piano dei suoi usi concreti, ne discende che il segno scatola non può né in teoria né di fatto avere lo stesso valore. Di qui si può anche giungere alla conclusione che la t. sia impossibile (e alcuni lo hanno sostenuto). E in effetti così è, se con t. s’intende una riproduzione dei medesimi valori presenti nei segni che compongono l’originale. Si è però obiettato, opportunamente, che se dal piano dei confronti fra sistemi linguistici si passa al piano del confronto fra messaggi emessi da un locutore a un destinatario in un contesto situazionale e comunicativo determinato, le variabili si riducono sensibilmente e la t. diviene praticabile. Nei messaggi concreti, infatti, non tutto lo spettro del significato di un segno viene attivato. Occorre riconoscere, però, che anche sul piano dell’atto locutorio concreto possono presentarsi, soprattutto in determinati generi testuali, quelli che lasciano margini maggiori all’interpretazione o all’evocatività (come, per es., i testi letterari, in particolare poetici, o quelli filosofici, religiosi, giuridici, politici), ostacoli difficilmente sormontabili.
Le teorie della t. sviluppate alla fine del Novecento insistono sul ruolo decisivo del traduttore come interprete. Con gli strumenti culturali e linguistici a sua disposizione egli stabilisce una gerarchia di valori presenti nel testo di partenza, che funge da guida nella scelta del metodo più appropriato per la t. e delle soluzioni ai problemi che via via si pongono. Sulla base della sua comprensione e della sua interpretazione e con riferimento agli scopi comunicativi che persegue, il traduttore procede attraverso singole scelte che comportano perdite, acquisti e alterazioni più o meno consistenti rispetto a quanto si può isolare nell’originale. Questo è ciò che avviene normalmente, anzi inevitabilmente.
La dimostrazione dell’impossibilità di non alterare il testo traducendolo è fornita dai casi estremi della t. automatica o dell’autotraduzione. Riguardo alla prima, nata negli USA per la t. di testi scientifici in cui il fattore strettamente informativo prevale sull’aspetto stilistico, bisogna considerare che gli impedimenti, più ancora che legati allo sviluppo tecnico, sono di natura teorica. Costruire una macchina capace di tradurre a un livello accettabile presuppone innanzitutto una teoria del linguaggio e della t. interamente formalizzabili, di cui non si dispone: significherebbe, di fatto, approntare un sistema in grado di capire il linguaggio usato nel contesto e di generarlo autonomamente. E infatti, nonostante siano stati fatti tentativi interessanti, privilegiando, volta a volta, l’aspetto lessicale, l’aspetto morfologico (isolando le radici o la base lessicale e fornendo una serie di istruzioni atte a ricostruire le parole nel contesto), l’aspetto grammaticale per la costruzione di frasi a partire da istruzioni di partenza ecc., i problemi che rimangono da risolvere sono ancora quelli legati al valore semantico degli insiemi costruiti sintatticamente. Le tendenze recenti della t. automatica pertanto si indirizzano verso soluzioni interattive, ossia verso interventi ‘meccanici’ con successivi riaggiustamenti umani. L’autotraduzione costituisce un fenomeno marginale, ma interessante per il contributo che porta alla riflessione sui problemi generali della traduzione. L’autore che traduce un proprio testo in una lingua diversa da quella in cui era stato concepito originariamente sembrerebbe offrire la migliore garanzia di affidabilità. In realtà, ammessa l’ottima conoscenza di entrambe le lingue, l’autore di un testo si trova in una condizione non dissimile da quella del traduttore comune. Data la natura del tradurre, infatti, dovrà comunque scegliere un’interpretazione possibile di quanto aveva originariamente scritto, visto che la lingua e la cultura d’arrivo non consentono di riprodurre un testo esattamente conforme, anche perché non sono conformi le coordinate di ricezione da parte del pubblico, inserito in un sistema di riferimenti in qualche modo comunque dissimile da quello del pubblico cui era destinato il testo di partenza.
Dall’osservazione che le t. circolanti in un determinato contesto linguistico-culturale ben raramente rispondono alle esigenze delle definizioni tradizionali di t., generalmente fondate su criteri normativi e su nozioni oggi ampiamente ridiscusse, come quella di equivalenza, si sono sviluppati, negli ultimi decenni del 20° sec., nuovi orientamenti negli studi sulla t., che hanno sottolineato l’importanza degli aspetti socioculturali (a lungo trascurati a favore di quelli puramente linguistici) e del contesto in cui la t. è eseguita, accolta e inserita (talora ignorati a favore di un interesse incentrato solo sul contesto da cui è scaturito l’originale). In conclusione, più che una definizione chiusa, prescrittiva e atemporale, il fenomeno del tradurre sembra richiedere un trattamento più aperto, sottoposto a un fascio di condizioni più o meno cogenti a seconda delle richieste che dai gruppi culturali e sociali di una determinata collettività storica vengono rivolte ai traduttori dei diversi generi testuali.